Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 26196 depositata il 13 giugno 2019
Evasione Iva – Soglia di punibilità al lordo dei costi non documentati
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in data 4 luglio 2018, la Corte di appello di Palermo confermato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Trapani che aveva dichiarato la penale responsabilità di E.A. per il reato di omessa dichiarazione di cui all’art. 5 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, e gli aveva irrogato la pena di un otto mesi di reclusione, sostituita con la libertà controllata, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche prevalenti rispetto alla recidiva specifica e reiterata.
Secondo quanto ricostruito dai giudici di merito, l’imputato, in qualità di legale rappresentante della “M.A. s.r.l.”, al fine di evadere le imposte, aveva omesso di presentare nel 2012 la dichiarazione fiscale rilevante ai fini IVA ed IRAP per l’anno 2011, pur risultando accertati maggiori ricavi, e con evasione d’IVA per 245.207,00 euro.
2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe l’avvocato P.P., quale difensore di fiducia dell’imputato, articolando un unico motivo, con il quale si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla configurabilità del reato.
Si deduce che non vi è valida motivazione, con riferimento al parametro della colpevolezza al di là del ragionevole dubbio, in ordine al superamento della soglia di punibilità pari a 50.000,00 euro. Si contesta che le conclusioni in ordine al superamento della soglia di punibilità sono fondate esclusivamente sulle risultanze di una verifica fiscale, e che altamente opinabile, se non arbitraria, è l’individuazione dell’indice di ricarico, nella misura del 10%, sulla vendita delle merci. Si conclude con richiesta di assoluzione per insussistenza del fatto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito precisate.
2. Infondate sono le censure formulate nel ricorso che contestano l’affermazione di avvenuto superamento della soglia di punibilità con riferimento alla imposta evasa.
2.1. E’ utile premettere, metodologicamente, che, secondo quanto già rilevato nella giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità dei reati in materia di I.V.A., la determinazione della base imponibile, e della relativa imposta evasa, deve avvenire solo sulla base dei costi effettivamente documentati, non rilevando l’eventuale sussistenza di costi non documentati (così Sez. 3, n. 53980 del 16/07/2018, Tirozzi, Rv. 274564-01).
Il Collegio condivide questa soluzione, perché, come affermato nel precedente richiamato, l’I.V.A. è collocata in un sistema chiuso di rilevanza sovranazionale, che prevede la tracciabilità di tutte le fatture, attive e passive, emesse nei traffici commerciali, a nulla rilevando l’eventuale sussistenza di costi effettivi non registrati, i quali, invece, possono essere considerati con riferimento alle imposte dirette, non vincolate al rispetto di stringenti oneri documentali.
2.2. La sentenza impugnata ha ritenuto superata la soglia di punibilità di 50.000,00 euro con riferimento alla imposta evasa relativamente all’anno 2011 da parte della società “M.A. s.r.l.”, di cui era amministratore il ricorrente, sulla base di una pluralità di elementi.
In particolare, dopo la premessa concernente la incontestata mancanza di presentazione delle dichiarazioni fiscali ai fini I.V.A. ed I.R.A.P. per l’anno d’imposta 2011, si osserva che: a) la società, avente ad oggetto al commercializzazione di prodotti ittici, per quanto risulta dalla sua stessa documentazione contabile, nell’anno 2011, ha venduto merce acquistata per un prezzo complessivo di 9.893.057,84 euro e la ha rivenduta ricavando “soltanto” 7.695.973,24 euro, così da operare con cessioni “sottocosto” del 22% per l’intero anno; b) la medesima società, sempre per quanto risulta dalla sua stessa documentazione contabile, nell’anno 2010, aveva venduto la stessa tipologia di merce con percentuale di ricarico dell’11%; c) secondo gli studi di settore, la percentuale ordinaria di ricarico per le imprese operanti in quel segmento di mercato era pari al 10%; d) la contabilità della società in questione, nel 2011, si presenta come inattendibile, in quanto, ad esempio, il conto cassa per ben otto giorni ha presentato un saldo negativo, quando, al peggio, avendo ad oggetto il denaro contante a disposizione, può essere pari a zero; e) sempre nell’anno 2011, a fronte di vendite “sottocosto”, sono stati effettuati ingenti finanziamenti da parte dei soci (precisamente l’imputato ed il fratello), pari a circa 1.300.000,00, pur non avendo detti soci redditi “ufficiali” tali da spiegare queste operazioni, sicché le stesse apparivano come dirette a «giustificare il “reingresso” (nella società) di capitali acquisiti mediante vendite “in nero”».
Sulla base di questi elementi, la sentenza impugnata ha ritenuto che, sulla merce acquistata, debba applicarsi un indice di ricarico, in relazione alle vendite, pari al 10%, comunque prudenziale rispetto a quello effettivamente accertato per l’anno precedente in relazione alla società. Di conseguenza, la Corte di appello ha osservato che, siccome la merce acquistata è relativa ad un prezzo complessivo di 9.893.057,84 euro, applicando la percentuale di ricarico del 10%, l’I.V.A. a debito è pari a 1.088.236,00. Ha, quindi, rilevato che, essendo l’imposta risultante dalle fatture effettivamente contabilizzate pari a 843.029,00 euro, tra questo e quello di 1.088.236,00 euro, risultante dall’applicazione di un ragionevole margine di ricarico alle vendite, emerge una differenza di 45.207,00 euro. Ha perciò concluso che questo importo, il quale costituisce l’I.V.A. evasa, è ampiamente superiore alla soglia di punibilità di 50.000,00 euro, e che, quindi, il reato di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000 è sicuramente sussistente.
2.3. Le conclusioni della sentenza impugnata sono immuni da vizi.
Il ragionamento posto a base della decisione è si indiziario, ma non si fonda solo, e genericamente, sull’applicazione della percentuale di ricarico risultante dagli studi di settore. Invero, premesso che non deve tenersi conto, ai fini I.V.A. di costi non documentati, è sicuramente corretto, innanzitutto, il richiamo al dato risultante dall’applicazione degli studi di settore, in quanto lo stesso è inferiore a quello effettivamente riscontrato con riferimento alla società nell’anno precedente. Inoltre, inverosimile è l’ipotesi della conduzione di un esercizio di un anno con vendite “sottocosto” nella misura del 22% e per importi ingenti, perché per diverse centinaia di migliaia di euro, anche in considerazione della inattendibilità della contabilità aziendale, risultante anche da altri elementi come quelli concernenti il conto cassa in negativo. Ancora, congrua è l’evidenziazione delle operazioni di finanziamento in conto soci per ben 1.300.000,00 euro nell’anno in questione: anche questo dato è funzionale ad avvalorare l’ipotesi di elevate vendite “in nero”, non essendo i precisati finanziamenti giustificabili con i redditi dei soci.
3. Alla infondatezza delle censure segue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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