CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 36422 depositata il 26 agosto 2019
Reati tributari – Omessa presentazione dichiarazioni fiscali – Emissione fatture per operazioni oggettivamente inesistenti – Responsabilità penale del legale rappresentante
Ritenuto in fatto
1. La Corte di Appello di Milano confermava la sentenza del Tribunale della medesima città del 16 gennaio 2018, con cui S.M. era stato condannato ex artt. 438 e ss. cod. proc. pen., alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione in relazione ai reati di cui all’art. 5 comma 1 e 8 commi 1 e 2 del Dlgs. 74/2000, ritenuti uniti dal vincolo della continuazione, per avere, rispettivamente, quale legale rappresentante della società ” S.F. Edilizia Cooperativa”, omesso di presentare dichiarazioni fiscali specificamente indicate nel primo capo di imputazione e per avere, nelle medesime qualità, emesso o rilasciato, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi e/o sul valore aggiunto, documenti e fatture per operazioni oggettivamente inesistenti nel periodo di imposta 2010 – 2011, anche esse specificamente indicate nel capo 2) di imputazione.
2. Avverso la predetta sentenza propone ricorso S.M. mediante il proprio difensore, deducendo un unico motivo di impugnazione.
3. Deduce in particolare il vizio di motivazione ex art. 606 comma 1 lett. e) cod. pen. pen. per travisamento della prova. La Corte avrebbe travisato una prova documentale ritenendo sussistenti un contratto preliminare di vendita e una scrittura privata a firma dell’imputato e sottesi alle false fatture contestate al capo 2) ma disconosciuti dal ricorrente in apposita memoria agli atti: documenti che secondo l’impostazione accusatoria proverebbero il concorso del M. nella predisposizione delle due fatture di cui al capo 2), finalizzate alla creazione di un credito Iva poi compensato con debiti per contributi previdenziali, assistenziali dovuti all’Erario dalla società nei cui confronti erano state emesse, denominata G.S. Coop a.r.l.. La Corte di appello avrebbe altresì illogicamente escluso che il ricorrente fosse all’oscuro dell’operazione di redazione delle false fatture limitandosi a rilevare che ove fossero emerse plausibili incertezze sulla paternità dei predetti documenti gli organi accertatori le avrebbero rilevate ed indagate. Inoltre, la mera circostanza della rappresentanza da parte del ricorrente di una società quale la S.F. Edilizia Cooperativa, risultata priva di una minima organizzazione di impresa, non sarebbe sufficiente per ricavarne la penale responsabilità in ordine ai reati contestati, tanto più considerando la possibilità di falsificare le due fatture in contestazione senza la necessaria collaborazione del titolare della società emittente.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2.. E’ opportuno preliminarmente osservare, per meglio analizzare il ricorso, che ricorre un’ipotesi cd. di “doppia conforme”, in presenza della quale «le sentenze di primo e di secondo grado si saldano tra loro e formano un unico complesso motivazionale, qualora i giudici di appello abbiano esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai fondamentali passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di gravame non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione impugnata» (cfr. Sez.3, n.13926 del 01/12/2011 Rv.252615 Valeri; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 Argentieri).
Deve altresì evidenziarsi che «in tema di integrazione delle motivazioni tra le conformi sentenze di primo e di secondo grado, se l’appellante si limita alla riproposizione di questioni di fatto o di diritto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure prospetta critiche generiche, superflue o palesemente infondate, il giudice dell’impugnazione ben può motivare per relationem; quando invece sono formulate censure o contestazioni specifiche, introduttive di rilievi non sviluppati nel giudizio anteriore o contenenti argomenti che pongano in discussione le valutazioni in esso compiute, è affetta, da vizio di motivazione la decisione di appello che si limita a respingere con formule di stile o in base ad assunti meramente assertivi o distonici dalle risultanze istruttorie le deduzioni proposte» (cfr. Sez.6, n. 28411 del 13/11/2012 Rv. 256435 Santapaola e altri).
3. Va aggiunto che il vizio del travisamento della prova si realizza allorché si introduce nella motivazione un’informazione rilevante, che non esiste nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia. Affinché tale vizio sia apprezzabile in sede di legittimità, non è sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano in contrasto con la valutazione complessiva del giudicante in ordine ai fatti e alla responsabilità dell’interessato né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Discende da tale assunto che gli atti del processo richiamati dal ricorrente a sostegno della propria deduzione siano, piuttosto, autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante, così da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione.
4. Alla luce dei predetti principi occorre evidenziare come dalla lettura delle due sentenze di merito emerga la valorizzazione, nel contesto di un giudizio celebrato con rito abbreviato – come tale idoneo a consentire l’utilizzo anche di atti di indagine ove non emergano casi di nullità assoluta o inutilizzabilità patologica (cfr. Sez. 3, n. 23182 del 21/03/2018 Rv. 273345 – 01 D’Alessandro) -, delle investigazioni compiute dalla Guardia di Finanza, descrittive della avvenuta esibizione, da parte del titolare della ditta beneficiaria della false fatture emesse dal ricorrente (tale E.A., per la G.S. Coopertaiva a.r.I.), di un contratto preliminare e una scrittura privata (mai registrati) riferiti all’oggetto delle fatture medesime e mostrati sostenendo che in realtà sarebbero intervenute effettive negoziazioni – con pagamento di decine di migliaia di euro in acconto – con la società del ricorrente, relative a vendite di immobili da parte di quest’ultima, di cui alle fatture medesime. Si tratta di dati sia documentali che dichiarativi, evidenziati – in particolare dal primo giudice – da una parte, per spiegare l’avvenuta individuazione della società dell’imputato quale soggetto giuridico coinvolto nei fatti e la riconduzione delle fatture al ricorrente e alla sua società; dall’altra, per escludere – data l’inverosimiglianza della tesi della realizzazione di consistenti anticipazioni economiche (circa 120.000 euro in contanti) in favore di una società dall’oggetto sociale non conforme alle operazioni indicate nelle fatture, inoperativa e senza il ricorso ad opportune forme di tutela giuridica – l’effettività delle prestazioni fatturate e asseritamente riscontrabili negli atti negoziali predetti. Si coniuga organicamente con tale ricostruzione l’ulteriore rilievo della Corte di appello secondo cui in sostanza, non può ritenersi casuale la circostanza per cui le false prestazioni fatturate – dato quest’ultimo incontestato dalla stessa difesa – farebbero capo ad una società emittente, quale quella del ricorrente, risultata evasore totale, priva di una sia pur minima organizzazione di impresa e come tale dotata di caratteristiche tipiche di una cd. “società cartiera”. E’ alla luce di tale complessiva ricostruzione che appare coerente anche l’ulteriore rilievo formulato dai giudici di appello, secondo cui appariva superflua una perizia calligrafica relativa ai documenti prodotti dal falso acquirente. Come appare coerente e logica anche l’individuazione della responsabilità del ricorrente in quanto rappresentante legale della società emittente all’epoca dei fatti ed in assenza di oggettivi dati contrari. Non essendo qualificabile come tale la mera, astratta ipotesi, della falsificazione delle fatture in danno del ricorrente stesso.
5. Emerge quindi, da quanto immediatamente sopra rilevato, come non si configuri alcun travisamento, sub specie della ritenuta sussistenza di prove documentali in realtà inesistenti. Ciò sia perché a fronte del riferimento in primo grado alla avvenuta esibizione agli operanti del contratto preliminare e della “scrittura privata” e, in secondo grado, alla documentazione “prodotta” “dalla falsa acquirente” non risulta dimostrata, in realtà, ma solo affermata, la tesi difensiva della insussistenza agli atti dei citati negozi. Sia perché, in ogni caso, a fronte delle riportate illustrazioni degli accertamenti effettuati dal personale della Guardia di Finanza, e descritti nei corrispondenti atti di indagine, mai contestate nella loro veridicità quanto alla vicenda della avvenuta esibizione dei documenti in parola e della relativa illustrazione fattane da E.A., per la G.S. Coopertaiva a.r.I., è coerente la rappresentazione della esistenza del contratto e della scrittura privata, come anche della riconducibilità delle correlate fatture alla società del ricorrente.
Cosicché nessun appunto, in termini di erronea considerazione della esistenza di dati documentali può essere fondatamente sollevato. Con l’ulteriore rilievo per cui la contestazione circa l’effettiva riconducibilità delle fatture al ricorrente, sostenuta ipotizzando un’operazione di falsificazione operata da terzi all’insaputa del ricorrente, diventa espressione di una mera prospettazione di una diversa considerazione e valutazione dei dati probatori disponibili, inammissibile in sede di legittimità. Infatti, in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr. Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015 Rv. 265482 – 01 Musso).
6. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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