COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per la Toscana sentenza n. 74 sez. VIII depositata il 17 gennaio 2019
Cessione di azienda – Debito tributario non risultante dai libri contabili obbligatori né dagli atti dell’amministrazione finanziaria – Cartella di pagamento – Annullamento – Sussiste
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Nel procedimento RGA 33/2016 con ricorso presentato dalla (omissis) S.p.a. veniva interposto appello avverso la sentenza n. 784/03/2015 della Commissione Tributaria Provinciale di Firenze, emessa data 2.7.2015 e depositata in data 3.7.2015.
La controversia originaria aveva riguardo ad una cartella di pagamento di euro 86.514,16 (euro 70.000 per IVA, euro 12.670 per interessi ed ulteriori altri importi a titolo di compensi di riscossione) relativa all’anno 2008, emessa a seguito di iscrizione a ruolo della (omissis) S.p.a. quale soggetto coobbligato ex art. 14, D.lgs. n. 427/1997, a seguito di atto di cessione di azienda del 5.3.2008, riferita all’accertamento n. (omissis) posto in essere nei confronti del soggetto cedente, scaturente da PVC della GDF del 9.10.2008.
Secondo quanto emerge anche dalla narrativa della sentenza di primo grado la società F. Spa impugnava la cartella eccependo: – l’assenza di prova della preventiva escussione del debitore principale prevista dal richiamato articolo 14; – l’insussistenza del debito d’imposta in quanto esso non risultava, alla data della cessione del ramo d’azienda, dagli atti dell’amministrazione finanziaria; – la nullità dell’atto per difetto di motivazione perché carente degli elementi che rendono azionabile la pretesa nei confronti della ricorrente quale coobbligata; – difetto di sottoscrizione; – l’illegittimità della richiesta degli interessi poiché, per il citato l’articolo 14, comma 1, la responsabilità concerne solo le imposte e le sanzioni, ed è limitata al valore del ramo d’azienda ceduto, che nel caso di specie ammontava ad euro 70.000,00. La ricorrente chiedeva di accertare la nullità della cartella per tutti i motivi esposti; in subordine di accertare l’illegittimità della cartella limitatamente agli interessi.
Si costituiva l’Agenzia delle Entrate e sulla preventiva escussione deduceva che: – l’accertamento notificato alla società cedente Y. Srl in data 07/12/2012 era divenuto definitivo per mancata impugnazione; – il 30/04/2013 il Tribunale di Prato, Sez. fallimentare, con sentenza n. 43, aveva dichiarato lo stato d’insolvenza della medesima; in data 28/06/2013 era stata ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria; la cartella di pagamento alla ricorrente era stata notificata il 31/05/2013 e, quindi, successivamente alla dichiarazione d’insolvenza; tale dichiarazione non aveva consentito di procedere all’esecuzione individuale, legittimando pertanto l’azione di riscossione dei confronti del debitore solidale. In relazione al secondo motivo del ricorso, l’Ufficio rilevava di aver agito in conformità all’articolo 14. Sosteneva, inoltre, la legittimità della cartella impugnata, anche con riferimento alla sua sottoscrizione. In ordine agli interessi faceva rilevare che essi rappresentano un’obbligazione accessoria e, quindi, vanno aggiunti all’importo dovuto.
Con ulteriore memoria depositata in data 10/06/2015 l’Agenzia ribadiva le proprie difesa e produceva: – relazione ex articolo 28 D.Lgs. n. 270/1999 del 30/05/2013; – decreto del Tribunale fallimentare del 28/06/2013; – Bando di gara; – estratto visura C. C. I. A. A. Y. Srl; – varie sentenze di legittimità e di merito. Replicava la ricorrente con memoria depositata in data 17/06/2015, confermando i motivi di legittimità e di merito dedotti nell’atto introduttivo del giudizio e rassegnava le medesime conclusioni.
In data 30/06/2014 si costituiva altresì l’Equitalia Centro Spa eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva con riferimento ai motivi 1 (assenza di prova sulla escussione del debitore principale), 2 (insussistenza del debito alla data del trasferimento) e 4 (debenza degli interessi).
Ribadiva, inoltre, la legittimità del proprio operato relativamente alla motivazione dell’atto. Concludeva per la dichiarazione della propria carenza di legittimazione passiva in relazione alle contestazioni attinenti alla competenza esclusiva dell’ente impositore e per il rigetto del ricorso.
I primi giudici accoglievano parzialmente il ricorso e, per l’effetto, annullavano la cartella di pagamento limitatamente agli importi per interessi, compensando le spese.
Sui motivi di nullità della cartella per difetto di motivazione e per omessa sottoscrizione, il Collegio riteneva che nell’alto impugnato erano riportati i presupposti fondamentali richiesti dalla legge e che avevano consentito alla ricorrente di esercitare, come emerge dall’atto introduttivo del giudizio, compiutamente il diritto di difesa. In esso infatti, con molta chiarezza, erano indicate le ragioni della pretesa tributaria, laddove si evidenziava che l’iscrizione era stata effettuata nei confronti della società F. Spa in qualità di coobbligata ex articolo 14 del D.Lgs. n. 472/1997 di Y. Srl in liquidazione, in virtù di contratto di cessione di ramo d’azienda del 5/03/2008, nei limiti del valore dell’azienda acquistata, per IVA 2008 riferibile all’atto di accertamento n. (omissis) derivante dalle contestazioni del PVC della Guardia di Finanza del 9/10 2008.
Circa la sottoscrizione della cartella, si richiamava l’indirizzo della Cassazione secondo il quale l’omessa sottoscrizione della stessa non comportava l’invalidità dell’atto, la cui esistenza non dipende tanto dall’apposizione del sigillo o del timbro o di una sottoscrizione leggibile, quanto dal fatto che fosse inequivocabilmente riferibile all’organo amministrativo titolare del potere di emetterlo, tanto più che, a norma dell’art. 25 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, la cartella, quale documento per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli, deve essere predisposta secondo il modello approvato con decreto del Ministero competente, che non prevede la sottoscrizione dell’agente, ma solo la sua intestazione e l’indicazione della causale, tramite apposito numero di codice (Cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 5, Sentenza del 5/12/2014, n. 25773).
In merito all’insussistenza del debito d’imposta perché non risultante, alla data della cessione del ramo d’azienda, dagli atti dell’amministrazione finanziaria, in base alla documentazione prodotta ed agli scritti difensivi di entrambe le parti, risultava pacifico che la ricorrente non aveva fatto richiesta, ai fini liberatori, dell’attestazione di cui all’articolo 14, comma 3, del D.Lgs. 18/12/1997, n. 472.
Ai sensi del comma 1 di tale articolo, secondo il Collegio fiorentino di primo grado, la responsabilità relativa al triennio sussisteva sia nei caso in cui la violazione fosse stata già contestata o la sanzione irrogata, sia in assenza di tali atti; fuori tale limite temporale, la responsabilità solidale del cessionario per i debiti tributari poteva essere limitata alle violazioni già contestate. Infatti, il primo comma dell’art. 14 mira a fondare una responsabilità oggettiva del cessionario per tutti i debiti fiscali del cedente relativi al triennio, anche se occultati o non ancora accertati dall’Amministrazione al tempo della cessione, ancorando tale responsabilità alla condotta omissiva dello stesso cessionario, il quale non ha ritenuto di assolvere all’onere di diligenza, informandosi preventivamente presso gli Uffici finanziari della eventuale esposizione debitoria del cedente (cfr. Cass., Sez. 5, Sentenza 14/03/2014, n. 5979).
Sull’eccepita assenza di prova della preventiva escussione del debitore principale, la CTP osservava che l’Agenzia aveva prodotto il decreto del Tribunale di Prato, Sez. fallimentare, del 28/06/2013, con il quale era stata dichiarata aperta la procedura di amministrazione controllata nei confronti della Y. Srl U. in liquidazione. Da esso emergeva che con sentenza n. 42 del 30 aprile 2013 il Tribunale di Prato aveva dichiarato lo stato d’insolvenza della società Y. Srl U. in liquidazione, nominando il giudice delegato. La dichiarazione d’insolvenza, ai sensi dell’articolo 18 del D.Lgs. n. 270/1999, produce gli effetti previsti dagli articoli 45, 52, 167, 168 e 169 della legge fallimentare.
In particolare l’articolo 168 stabilisce che «Dalla data della pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese e fino al momento in cui il decreto di omologazione del concordato preventivo diventa definitivo, i creditori per titolo o causa anteriori non possono, solo pena di nullità, iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore». Dal certificato della C.C.I.A.A. di Prato risultava che la società Y. Srl aveva depositato il ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo in data 20/11/2012 e che in data 30/04/2013 vi era stata l’iscrizione dello stato d’insolvenza, circostanze anteriori alla notifica della cartella di pagamento impugnata, eseguita, per ammissione di entrambe le parti, in data 31/05/2013, con conseguente impossibilità di procedere con azione esecutiva individuale nei confronti della cedente il ramo d’azienda. Inoltre, per consolidato indirizzo della S. C, il beneficio d’escussione aveva efficacia limitatamente alla fase esecutiva, nel senso che al creditore resta precluso procedere coattivamente in via sussidiaria se non dopo avere agito infruttuosamente sui beni del debitore principale, senza impedirgli d’agire in sede di cognizione per munirsi di uno specifico titolo esecutivo nei confronti del coobbligato solidale, sia per poter iscrivere ipoteca giudiziale sugli immobili di quest’ultimo, sia per poter agire in via esecutiva contro il medesimo, una volta che il patrimonio del debitore principale risulti incapiente o insufficiente al soddisfacimento del credito. Ne discendeva – con specifico riferimento al debito di imposta – che il beneficio in questione non ostava all’emissione e alla notifica al coobbligato solidale di una cartella di pagamento, configurandosi quest’ultima non come atto esecutivo, bensì come atto conclusivo di un iter strumentale alla formazione del titolo esecutivo all’esercizio dell’azione forzata (cfr. Cass., Sez. 5, Sent. dell’1/10/2014, n. 20704). Sul punto si faceva rilevare altresì che, in base alla relazione redatta ex articolo 28 del D.Lgs. n. 270/1999, risultava una situazione di dissesto nella quale i soli debiti tributari ammontavano ad euro 31.539.213,60 a fronte di una previsioni di realizzo stimata in euro 16.569.600,00 in caso di amministrazione straordinaria ed in euro 3.750.500,00 in caso di fallimento.
Solo per quanto riguarda l’eccezione afferente gli interessi addebitati, tenuto conto del disposto testuale dell’articolo 14, comma 1, D.lgs. 472/1997, che limitava la responsabilità del coobbligato solidale al valore dell’azienda o ad un ramo di essa, il primo Collegio riteneva che non potessero richiedersi al cessionario somme eccedenti il limite stabilito, anche se riferite ad interessi per imposte non versate dal cedente. Tale interpretazione si imponeva anche alla luce del principio sancito dall’articolo 23 della Costituzione secondo il quale nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.
La società contribuente proponeva appello principale, articolando i seguenti motivi di gravame.
1° Motivo: nullità per difetto di motivazione della cartella.
La sentenza non aveva considerato che la cartella non conteneva gli elementi sulla base dei quali veniva azionata la pretesa nei confronti del preteso obbligato, ad iniziare dall’esplicitazione della preventiva escussione del debitore principale. Ne restava travolta anche l’iscrizione a ruolo.
2° Motivo: non condivisibile era l’interpretazione dei commi primo e secondo dell’art. 14 D.lgs. n. 472/1997 offerta dal primo Collegio.
Secondo l’appellante, ad avviso della CTP la responsabilità solidale prevista dal primo comma andrebbe classificata secondo due ipotesi: a) per le imposte e le sanzioni riferibili a violazioni commesse nell’anno in cui avvenuta la cessione e nei due anni precedenti; b) per quelle già irrogate e contestate nel medesimo periodo anche se riferite a violazioni commesse in epoca anteriore. La limitazione della responsabilità nei termini dell’art. 14, comma 2, d.lgs. n. 472/1997 (entro il debito risultante alla data del trasferimento, dagli atti degli uffici dell’amministrazione finanziaria e degli enti preposti all’accertamento dei tributi di loro competenza) si applicherebbe solo nella ipotesi sub b), derivandone una portata pleonastica del secondo comma (essendo evidente che le imposte e le sanzioni già irrogate o contestate risultano agli atti degli Uffici) ed ampliamento della responsabilità solidale oltre i limiti dell’art. 14, comma 2, cit. in caso di mancata richiesta del certificato ex art. 14, comma 3, d.lgs. n. 472/1997.
Ad avviso della società appellante la limitazione descritta dall’art. 14, comma 2, d.lgs. n. 472/1997 si applicava proprio all’ipotesi sub a), in coerenza con l’effetto esimente del certificato dei carichi pendente, che palesa l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione della solidarietà. Ma anche ove lo stesso non venisse richiesto, allorché difetti il presupposto della risultanza agli atti dell’ufficio, la solidarietà resterebbe preclusa. Altrimenti si attribuirebbe alla mancata richiesta (facoltativa) del certificato (che nel caso di specie non avrebbe evidenziato alcun debito alla data delle cessione) una troppo estesa responsabilità solidale del cessionario. Non risultava e non era stato provato che il PVC della GDF del 9.10.2008 (intervenuto dopo sette mesi dalla cessione) risultasse agli atti dell’amministrazione al momento delle cessione.
Conclusivamente, parte appellante chiedeva la riforma della sentenza di primo grado con dichiarazione di nullità della cartella, almeno per l’iscrizione a ruolo delle somme iscritte a titolo di debito IVA della cedente, unitamente alla vittoria di spese di lite del presente giudizio.
La Direzione Regionale della Toscana si costituiva in giudizio, presentando le controdeduzioni di seguito illustrate ed appello incidentale.
1° controdeduzione: infondatezza della assenza di motivazione della cartella.
Già in base al tenore letterale della cartella, attraverso il richiamo espresso dell’art. 14 d.lgs. n. 472/1997, era chiara l’integrazione delle condizioni per l’escussione in via sussidiaria del coobbligato.
La sussistenza di una procedura fallimentare nei confronti della cedente, inoltre, precludeva giuridicamente la possibilità di qualsiasi preventiva escussione del cedente; onde la conditio iuris era avverata all’epoca del ricorso (anteriore alla cartella di pagamento per cui è causa) per l’ammissione al concordato preventivo (presentato in data 20.11.2012) ex artt. 42, 52, 167, 168, 169 L. fall.. In ogni caso soccorrerebbe il disposto dell’art. 21 octies della legge n. 241/1990 atteso che l’irregolarità formale (mancato espresso riferimento all’inutilità di una preventiva escussione in conseguenza degli effetti legali dell’attivazione di una procedura concorsuale) non avrebbe importato modifica del contenuto dispositivo dell’atto in concreto adottato.
Inoltre, la verifica della preventiva escussione, per la più recente giurisprudenza, non atterrebbe alla formazione del titolo esecutivo (ovvero dell’atto di riscossione) ma solo alla fase di esecuzione dello stesso e solo in quest’ultima sede potrebbe rilevare quale eccezione.
Dalle risultanze della procedura fallimentare emergeva l’insufficienza dell’attivo patrimoniale della cedente rispetto al soddisfacimento del credito erariale e dunque la concreta inutilità di una preventiva escussione. A fronte di debiti per oltre 150 milioni di euro, dei quali oltre 69 milioni per crediti tributari, quelli privilegiati erano oltre 107 milioni di euro, mentre la liquidazione dell’attivo aveva consentito di realizzare neanche 1,5 milioni di euro. Posto il privilegio generale accordato al credito IVA (pari a oltre 48 milioni di euro), di grado 19°, già considerando i crediti con privilegio di grado 1° (pari a circa 5,7 milioni di euro), emergeva l’incapienza dell’attivo patrimoniale a soddisfare il credito IVA; onde ricorrerebbe la prova della conditio per l’escussione del coobbligato.
2° controdeduzione: l’art. 14, comma 1, d.lgs. n. 472/1997 in relazione alle violazioni commesse o comunque irrogate o contestate nell’anno o nei due anni precedenti rispetto a quello in cui è avvenuta la cessione, non poneva le condizioni previste ai successivi commi nn. 2 (ipotesi autonoma) e 3 (modalità applicative delle ipotesi prevista al n. 2 cit.) giusta la lettura interpretativa offerta anche dalla Cassazione (sentenza n. 5979/2014). Nel caso di specie, era stata azionata una responsabilità solidale del cessionario per una violazione commessa nello stesso anno in cui era stata ceduta l’azienda in conformità all’art. 14, comma 1.
Inoltre, l’Ufficio proponeva appello incidentale, ritenendo violato l’art. 14, comma 1, d.lgs. n. 472/1997 nella parte in cui la sentenza di primo grado aveva ritenuto che la pretesa per la parte eccedente al valore della cessione (euro 70.000) fosse illegittima in quanto sprovvista di copertura normativa (in violazione dell’art. 53 Cost.) e ancorché avesse ad oggetto gli interessi (pari ad euro 12.700) maturati su detta somma.
Per contro, l’applicazione degli interessi seguiva di diritto all’accertamento del tributo ed alla sua riscossione a norma dell’art. 20 DPR 602/1973, dovendosi ritenere come tali dovuti in tutte le ipotesi in cui veniva accertato un tributo salvo diversa e contraria disposizione di legge, e dunque potendo superare il valore di cessione.
Parte resistente e appellante incidentalmente, in conclusione, chiedeva il rigetto dell’appello principale, l’accoglimento di quello incidentale e la condanna dell’appellante principale alle spese di giudizio.
Equitalia Centro Spa si costitutiva e contrastava il primo motivo di appello principale in merito al difetto di motivazione della cartella di pagamento. In proposito rimarcava come la cartella presentasse tutti i requisiti previsti dall’art. 25 DPR n. 602/1973, consentendo al contribuente di esercitare compiutamente il diritto di difesa, come in concreto avvenuto (SU Cass., n. 11722/2010).
Inoltre, quale ente della riscossione chiedeva fosse riconosciuto il difetto di legittimazione passiva rispetto al secondo motivo di appello principale, afferente fase antecedente alla formazione e trasmissione del ruolo, per la quale la competenza a contraddire era esclusivamente in capo all’ente impositore.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’appello principale è fondato per i motivi di cui infra. Ciò comporta la infondatezza di quello incidentale ed impone di riformare la pronuncia di primo grado.
Non può essere accolto il primo motivo di appello principale, con cui è stata addotta la nullità della cartella di pagamento e del ruolo, per difetto di motivazione della prima.
La lettura della cartella, infatti, pone in rilievo come risulti spiegato che l’iscrizione a ruolo della società cessionaria era avvenuta quale coobbligata ex art. 14 d.lgs. n. 472/1997 di S. S.r.l. in liquidazione, in virtù di cessione del ramo di azienda avvenuta in data 5.3.2008, nei limiti del valore dell’azienda acquistata. Inoltre viene chiarito che il tributo (IVA, con specifica dell’anno di riferimento, 2008) era riferibile ad un atto di accertamento (con specificazione del numero) derivante dalle contestazioni del PVC della Guardia di Finanza del 9 ottobre 2008.
Secondo il disposto dell’art. 25, comma 2, DPR n. 602/1973 «la cartella di pagamento, redatta in conformità al modello approvato con decreto del Ministero delle finanze, contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione, con l’avvertimento che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata». Inoltre (art. 25, comma 2 bis cit.) contiene anche l’indicazione della data in cui il ruolo è stato reso esecutivo (nel caso di specie il 12/2/2013). Nessuna contestazione viene mossa in merito a tali requisiti.
Poste queste premesse, in fatto ed in diritto, secondo il migliore insegnamento (Cass., Sez. 6-5, Ordinanza n. 15580 del 22/06/2017, Rv. 644722-01), «il difetto di motivazione della cartella esattoriale, che faccia rinvio ad altro atto costituente il presupposto dell’imposizione senza indicarne i relativi estremi di notificazione o di pubblicazione, non può condurre alla dichiarazione di nullità, allorché la cartella sia stata impugnata dal contribuente il quale abbia dimostrato, in tal modo, di avere piena conoscenza dei presupposti dell’imposizione, per averli puntualmente contestati».
Le doglianze mosse dalla società contribuente anche nell’appello testimoniano come la stessa sia stata posta in grado di comprendere il presupposto dell’emissione della cartella e di contestarne la legittimità. In tal senso, il profilo dedotto dalla contribuente anche in secondo grado in punto di mancata esplicitazione nella cartella della preventiva escussione del debitore principale – peraltro non tale da inficiarne la validità, potendo ben considerarsi compresa nell’attivazione della responsabilità solidale sussidiaria prevista dall’art. 14 del d.lgs. n. 472/1997, norma espressamente richiamata e che presuppone detta impossibilità di escussione preventiva – ne costituisce miglior riprova. Onde, lo specifico motivo in analisi si rivela infondato.
Fondato è il secondo motivo di appello principale, come emerge all’esito di una più ampio inquadramento della materia ed in adesione della pronuncia della Corte di Cassazione, Sez. 5, n. 17264 del 13.7.2017, Rv. 644899-01, in consapevole dissenso rispetto all’orientamento precedente (Cass. n. 5979/2014, 9219/2017).
La disciplina prevista per il cessionario di azienda, infatti, risulta dal combinato disposto degli art. 2560, comma 2, c.c. e dell’art. 14 (i primi tre commi riguardano la cessione di azienda conforme a legge, gli ultimi due commi afferiscono alla cessione di azienda in frode alla legge) del d.lgs. n. 472/1997.
L’art. 2560 cod. civ. (Debiti relativi all’azienda ceduta) prevede «L’alienante non è liberato dai debiti, inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta anteriori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito. Nel trasferimento di un’azienda commerciale risponde dei debiti suddetti anche l’acquirente dell’azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori».
L’art. 14 del d.lgs. n. 472/1997 (vigente ratione temporis al 5.3.2008) stabilisce «1. Il cessionario è responsabile in solido, fatto salvo il beneficio della preventiva escussione del cedente ed entro i limiti del valore dell’azienda o del ramo d’azienda, per il pagamento dell’imposta e delle sanzioni riferibili alle violazioni commesse nell’anno in cui è avvenuta la cessione e nei due precedenti, nonché per quelle già irrogate e contestate nel medesimo periodo anche se riferite a violazioni commesse in epoca anteriore. 2. L’obbligazione del cessionario è limitata al debito risultante, alla data del trasferimento, dagli atti degli uffici dell’amministrazione finanziaria e degli enti preposti all’accertamento dei tributi di loro competenza. 3. Gli uffici e gli enti indicati nel comma 2 sono tenuti a rilasciare, su richiesta dell’interessato, un certificato sull’esistenza di contestazioni in corso e di quelle già definite per le quali i debiti non sono stati soddisfatti. Il certificato, se negativo, ha pieno effetto liberatorio del cessionario, del pari liberato ove il certificato non sia rilasciato entro quaranta giorni dalla richiesta. 4. La responsabilità del cessionario non è soggetta alle limitazioni previste nel presente articolo qualora la cessione sia stata attuata in frode dei crediti tributari, ancorché essa sia avvenuta con trasferimento frazionato di singoli beni. 5. La frode si presume, salvo prova contraria, quando il trasferimento sia effettuato entro sei mesi dalla constatazione di una violazione penalmente rilevante».
La disciplina civilistica contempla una fattispecie di accollo cumulativo ex lege (Cass. nn. 4367/1998, 8786/2017) dei debiti aziendali a seguito di cessione di azienda ed una conseguente solidarietà passiva, tra cedente e cessionario: si tratta di una disposizione di carattere generale che trova applicazione anche per quei debiti tributari che – al pari degli altri debiti – siano stati regolarmente documentati nei libri contabili. L’art. 2560, secondo comma, cod. civ. (in ragione della quale l’acquirente risponde dei debiti inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta soltanto se essi risultino dai libri contabili) è stata dettata non solo dall’esigenza di tutelare i terzi creditori, già contraenti con l’impresa e peraltro sufficientemente garantiti pure dalla norma di cui al primo comma del medesimo art. 2560 cod. civ., ma è intesa anche a consentire al cessionario di acquisire adeguata e specifica cognizione dei debiti assunti (Cass. n. 23828/2012).
La Corte di Cassazione nella sentenza n. 17264 del 13.7.2017 ha svolto un articolato confronto tra la disciplina civilistica e la norma tributaria, delineando i differenti ambiti applicativi, pervenendo ad una convincente interpretazione del complessivo quadro normativo.
Con l’art. 14, comma 1, cit., il legislatore non ha inteso regolare la responsabilità solidale per i debiti fiscali conseguenti alla normale attività dichiarativa delle parti private (per i quali vale la disciplina civilistica ex art. 2560 cod. civ.), ma quella per i debiti conseguenti alle violazioni tributarie compiute dal cedente, rispetto alle quali l’Amministrazione deve avviare una propria complessa attività accertativa, di guisa che non è nemmeno ipotizzabile che possano risultare dai libri contabili.
Proprio per tale ragione questa disciplina prescinde dalla condizione prevista invece dall’ art. 2560, secondo comma, cod. civ., – come si è visto a tutela dei creditori, ma anche del cessionario – e cioè dalla annotazione della debitoria sui libri contabili obbligatori.
La normativa tributaria tutela la pretesa tributaria dell’Amministrazione finanziaria, conseguente a violazioni poste in essere dal contribuente cedente, in modo ampio, consentendole di farla valere nei confronti di entrambi i soggetti coinvolti nell’operazione di cessione di azienda, in ragione della garanzia patrimoniale che deriva dalla disponibilità dell’azienda, in via solidale a condizione che riguardi: – imposte e sanzioni inerenti a violazioni commesse nell’anno in cui è avvenuto il trasferimento e nei due anni precedenti, sebbene non ancora contestate dall’Amministrazione finanziaria; – imposte e sanzioni già irrogate e contestate, anche se riferite a violazioni commesse in periodi precedenti al secondo anno precedente a quello in cui è avvenuto il trasferimento d’azienda.
Si vuole evitare che, attraverso le diverse forme negoziali di trasferimento dei beni costituenti il complesso aziendale, venga ad essere sottratta al Fisco l’originaria garanzia patrimoniale dei crediti tributari vantati nei confronti del cedente, quando questi conseguano a violazioni che comportano un aggravio per l’Amministrazione tenuta a svolgere un’attività accertativa per farli emergere e per conseguire il riconoscimento delle proprie pretese; tale finalità viene perseguita mediante la previsione di una estesa responsabilità solidale del cessionario. Non si tratta di una responsabilità solidale paritetica, bensì una solidarietà dipendente (cd. responsabilità di imposta), che si realizza quando la legge prevede la responsabilità solidale di un soggetto che, pur non avendo realizzato il fatto indice di capacità contributiva, risulta collegato al fatto imponibile, ovvero al contribuente, sulla base di un rapporto (nella specie la cessione di azienda titolo di conferimento sociale) al quale il Fisco rimane estraneo (Cass. nn. 255/2012, 1379/2014); tuttavia è indiscutibile che questa fattispecie ha una portata più estesa di quella conseguente alle emergenze contabili (art. 2560 cod. civ.) in quanto comprende anche gli effetti fiscali di violazioni ascrivibili al cedente anche non ancora accertate.
La responsabilità solidale del cessionario a favore del Fisco è contemperata dalla previsione di alcuni limiti e dalla disciplina di operatività degli stessi, che, alla luce dell’esame del complessivo quadro normativo e dei principi ai quali è informato, impongono una lettura combinata dei primi tre commi dell’art. 14 cit., diversamente da quanto ritenuto in precedenti pronunce della Corte regolatrice (Cass. n. 5979/2014, 9219/2017).
Il legislatore ha introdotto con l’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 472/1997, anche alcune limitazioni della responsabilità: – di tipo soggettivo, come la sussidiarietà della responsabilità (beneficium escussionis non previsto in sede civile); – di tipo oggettivo – a) una di natura quantitativa: limitazione della stessa al valore dell’azienda o del ramo d’azienda oggetto di cessione (non prevista in sede civile); b) una di natura temporale: limitazione al pagamento dell’imposta e delle sanzioni riferibili alle violazioni commesse nell’anno in cui è avvenuta la cessione e nei due precedenti; nonché per quelle già irrogate e contestate nel medesimo periodo anche se riferite a violazioni commesse in epoca anteriore.
Il comma 2 ha fissato un ulteriore limite oggettivo quantitativo, rapportato all’attività dell’Amministrazione, stabilendo che l’obbligazione del cessionario è limitata al debito risultante, alla data del trasferimento, dagli atti degli uffici dell’amministrazione finanziaria e degli enti preposti all’accertamento dei tributi di loro competenza. In tal modo si intende mitigare una responsabilità solidale molto più ampia ed afflittiva rispetto a quella ricavabile dall’art. 2560 cod. civ., attraverso criteri del tutto originali, attesa la non applicabilità del criterio limitativo della responsabilità dell’acquirente ivi previsto con riferimento alla evidenze dei libri contabili, che assolvono funzione probatoria nei rapporti tra imprenditori, e sono conoscibili anticipatamente mediante la consultazione dei libri contabili obbligatori (artt. 2214 e ss. cod. civ.).
In particolare il comma 2 dell’art. 14 cit., ove stabilisce che «l’obbligazione del cessionario è limitata al debito risultante, alla data del trasferimento, dagli atti degli uffici dell’amministrazione finanziaria e degli enti preposti all’accertamento dei tributi di loro competenza» è inteso a recuperare un dato di certezza – ricavabile in sede civile dall’esame dei libri contabili della cedente – mediante il rinvio agli atti del creditore, e deve essere letto in combinato disposto con l’ultima parte del comma 1; saranno dunque rilevanti al fine della quantificazione dell’obbligazione del cessionario le imposte e le sanzioni riferibili alle violazioni commesse nell’anno in cui è avvenuta la cessione e nei due precedenti, nonché per quelle già irrogate e contestate nel medesimo periodo anche se riferite a violazioni commesse in epoca anteriore, sempre che le stesse “risultino dagli atti degli uffici”, che assolvono una funzione latamente sovrapponibile a quella svolta dai libri contabili sul piano della certezza e della conoscibilità della pretesa tributaria. Non saranno rilevanti, quindi, solo le violazioni per le quali sia intervenuta già la contestazione e la irrogazione di imposte e sanzioni, ma anche quelle in corso di accertamento che risultino agli atti dell’Amministrazione finanziaria e che rientrino nell’arco temporale ivi indicato.
Tale interpretazione trova conferma nel successivo comma 3, dell’art. 14 cit., che introduce uno strumento atto a rafforzare la posizione del cessionario sul piano della conoscibilità della debitoria, in quanto gli consente di richiedere all’Amministrazione il rilascio di un certificato dei carichi pendenti, dal quale risulti l’esistenza di contestazioni in corso e di quelle già definite per le quali i debiti non sono stati ancora soddisfatti, oltre che a circoscriverne la responsabilità, atteso che questa certificazione di debenza, se negativa o rilasciata tardivamente, assolve anche e comunque ad una funzione liberatoria anticipata.
Deve infatti rilevarsi che questi ultima disposizione è focalizzata sul dovere dell’Amministrazione di fornire la certificazione e non sull’obbligo del cessionario, che appare invece destinatario di un favor, di richiederla. Risulta inoltre intesa a ribadire che il debito tributario, di cui si discute, non va identificato solo con quanto già accertato, ma anche con quanto in corso di accertamento (sia pure nei limiti temporali anzidetti).
Non può pertanto ritenersi che sia stato posto a carico del cessionario l’onere di diligenza di richiedere la certificazione di carichi pendenti, atteso che la norma attribuisce una facoltà chiaramente di favore per il contribuente, in quanto gli riconosce la possibilità di conseguire una liberatoria anticipata, né che la limitazione della responsabilità solidale del cessionario al debito risultante, alla data del trasferimento, dagli atti degli uffici dell’Amministrazione finanziaria sia riservata solo al cessionario che abbia preventivamente comunicato l’operazione di cessione di azienda agli Uffici finanziari, richiedendo l’attestazione della posizione debitoria del cedente (così Cass. n. 5979/2014), poiché questa interpretazione comporterebbe un effetto sostanzialmente sanzionatorio che confligge con la ratio di favore della norma e pone seri problemi di conciliabilità con i principi in tema di predeterminazione delle sanzioni e dei rispettivi criteri di quantificazione, che nel caso di specie non solo mancano, ma sono assolutamente imponderabili.
D’altro canto va considerato che le limitazioni della responsabilità stabilite dai primi tre commi della norma sono, invece, espressamente escluse nel caso di cessione di azienda in frode (art. 14, commi 4 e 5, cit.) laddove è prevista la responsabilità solidale presunta “quando il trasferimento sia effettuato entro sei mesi dalla constatazione di una violazione penalmente rilevante”. Una interpretazione dall’art. 14, commi 2 e 3, che faccia conseguire alla mancata richiesta del certificato di debenza una ancor più estesa responsabilità del cessionario, finirebbe per avvicinare il regime della cessione conforme a legge, ingiustificatamente e in contrasto con il dettato normativo, a quello previsto per il caso di frode. Da aggiungere che per effetto della novella del 2015 la responsabilità del cessionario di azienda delineata dall’art. 14 non opera, salvo che la cessione sia stata attuata in frode dei crediti tributari, qualora la cessione avvenga nell’ambito di una procedura concorsuale, di un accordo di ristrutturazione dei debiti, di un piano attestato ovvero di un procedimento di composizione di una crisi da sovraindebitamento. Al contempo, si è stabilito che la responsabilità per il cessionario operi in tutti i casi di cessione di azienda, compresi i conferimenti.
Nel caso che occupa, conclusivamente, non è dubbio che al momento del trasferimento (avvenuto il 5/3/2008 con la cessione del ramo di azienda) il debito portato dalla cartella di pagamento non risultava né dai libri contabili obbligatori (condizione ex art. 2560, comma 2, c.c.) né dagli atti degli uffici dell’amministrazione finanziaria e degli enti preposti all’accertamento dei tributi di loro competenza (ex art. 14, comma 2, d.lgs n. 472/1997) semplicemente perché accertato (come specificato nella stessa cartella di pagamento) con il PVC redatto, sette mesi dopo, in data 9.10.2008. Né l’Ufficio ha mai affermato, né dimostrato, che agli atti dell’Ufficio già dal marzo 2008 risultassero ulteriori elementi concreti avvalorativi dell’esistenza del debito fiscale.
L’accoglimento del secondo motivo di appello principale implica l’infondatezza di quello incidentale, volto ad argomentare la pretesa debenza di prestazioni accessorie (gli interessi) rispetto al debito principale, per le ragioni predette, nel caso in esame, non attribuibile al cessionario.
In merito alle spese, l’esistenza di un recente dissidio giurisprudenziale m materia, giustifica ampiamente la compensazione integrale delle spese del giudizio.
P.Q.M.
In accoglimento dell’appello principale annulla la cartella di pagamento impugnata e compensa le spese del giudizio.
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