CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 19 novembre 2019, n. 30066
Recesso dal rapporto di agenzia – lndennità sostitutiva del preavviso – Grave inadempimento dell’agente – Violazione del patto di non concorrenza – Secondo contratto – lncarico di agente generale – Assenza di un mutamento sostanziale delle clausole contrattuali
Rilevato che
1. Con sentenza 397/12 il Tribunale di Reggio Emilia, pronunciando sulla domanda proposta dalla s.p.a. S.Z., per quanto ancora qui rileva, riteneva:
– non fondato su giusta causa il recesso di P.C. dal rapporto di agenzia con la società ricorrente e condannava l’agente a pagare alla preponente l’indennità sostitutiva del preavviso;
– risolto il contratto di agenzia per grave inadempimento dell’agente, consistito nella violazione del patto di non concorrenza, di talché l’agente era tenuto a restituire le somme corrispostegli a titolo di compenso per il predetto patto;
– insussistente l’ipotesi della novazione del patto di non concorrenza a seguito della stipula del secondo contratto in data 1° gennaio 1999.
2. La Corte di appello di Bologna, con sentenza n. 191/15, confermava le predette statuizioni della sentenza di primo grado, osservando:
– che in entrambi i contratti stipulati tra le parti era previsto, alla clausola 21, il patto di non concorrenza per i due anni successivi alla cessazione del rapporto;
– che l’istruttoria testimoniale espletata in primo grado aveva evidenziato che il C. aveva di fatto promosso e comunque concluso affari in concorrenza con quelli della S.Z. nel periodo immediatamente successivo al recesso dal primo contratto di agenzia;
– che, diversamente da quanto ritenuto dall’appellante, nel secondo contratto, avente ad oggetto l’incarico di agente generale, non era individuabile un effettivo aliquid novi, in quanto la differenza rispetto all’incarico di agente semplice era ravvisabile solo nella circostanza che nel nuovo incarico, oltre a promuovere affari con la clientela di una determinata zona, era previsto il coordinamento degli agenti semplici;
– che l’assenza di un mutamento sostanziale delle clausole contrattuali portava a ritenere che anche nel secondo contratto fosse incluso il patto di non concorrenza, nella specie pacificamente violato dal C., da cui il suo obbligo di restituire i relativi compensi percepiti nel corso del rapporto.
3. Per la cassazione di tale sentenza il C. ha proposto ricorso affidato a tre motivi. La S.Z. ha resistito con controricorso.
4. Il ricorrente ha altresì depositato memoria ex art. 380-bis. 1 cod. proc. civ. (inserito dall’art. 1, lett. f, del D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. n. 25 ottobre 2016, n. 197).
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1230 e 1231 cod. civ. (art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.) in relazione alla statuizione con cui è stata esclusa la novazione tra il primo e il secondo contratto di agenzia ed è stato ritenuto che il C. fosse tenuto alla restituzione delle somme percepite a titolo di provvigioni aggiuntive per il patto di non concorrenza, somma quantificata a seguito di c.t.u. in euro 26.989,00.
Si assume che l’art. 18 del secondo contratto espressamente prevedeva che il conferimento di incarico di agente generale avrebbe sostituito ad ogni effetto altri precedenti mandati, da cui la volontà delle parti di procedere ad una novazione del rapporto di agenzia.
2. Con il secondo motivo si denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360, primo comma, n 5 cod. proc. civ.) per non avere la sentenza considerato la circostanza che l’autonomo patto di non concorrenza contenuto nel contratto di agenzia stipulato il 29 aprile 1991 era stato integralmente sostituito, con effetti novativi, dal contratto di agenzia sottoscritto il 1° gennaio 1999.
3. Con il terzo motivo si denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ..
Si assume il vizio di ultrapetizione per avere la sentenza ritenuto violato il patto di non concorrenza inserito nel contratto di agenzia stipulato il 29 aprile 1991, domanda che non era stata formalmente e specificamente avanzata dalla S.Z. s.p.a., la quale non aveva neppure allegato il relativo inadempimento. Si assume che la domanda della società concerneva soltanto la violazione del patto apposto al secondo contratto, mentre nulla era stato prospettato con riferimento al primo contratto di agenzia.
4. Il ricorso è inammissibile.
5. Quanto al primo motivo, va osservato che la Corte di appello, interpretando il contenuto delle clausole negoziali, ha riferito che le modifiche apportate dal secondo contratto erano marginali e che, per tale ragione, non poteva ritenersi una vera e propria novazione del rapporto, da cui la persistenza del patto di non concorrenza.
In punto di diritto, tale statuizione è conforme alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui la novazione oggettiva del rapporto obbligatorio postula il mutamento dell’oggetto o del titolo della prestazione, ai sensi dell’art. 1230 cod. civ., non è ricollegabile alle mere modificazioni accessorie di cui all’art. 1231 cod. civ. e deve essere connotata non solo dall’ aliquid novi, ma anche dall’animus novandi (inteso come manifestazione inequivoca dell’intento novativo) e dalla causa novandi (intesa come interesse comune delle parti all’effetto novativo); l’accertamento di tali tre elementi (volontà, causa ed oggetto del negozio) compiuto dal giudice di merito è incensurabile in cassazione, se adeguatamente motivato (Cass. n. 27390 del 2018, n. 5665 del 2010).
5.1. Nel caso in esame, la valutazione compiuta dal giudice di merito è sorretta da una motivazione congrua e logicamente argomentata. Il primo motivo di ricorso, pur denunciando un’erronea ricognizione della fattispecie legale, in realtà allude ad una erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta previa ricostruzione dei fatti secondo un diverso apprezzamento di merito e, segnatamente, secondo una diversa interpretazione delle clausole negoziali, peraltro prospettata senza avere denunciato alcuna violazione dei canoni di ermeneutica negoziale.
5.2. Il vizio di falsa applicazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. n. 7394 del 2010, n. 8315 del 2013, n. 26110 del 2015, n. 195 del 2016). E’ dunque inammissibile una doglianza che fondi il presunto errore di sussunzione – e dunque un errore interpretativo di diritto – su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa.
6. Quanto al secondo motivo, la sentenza ha ritenuto che le modifiche apportate con il secondo contratto fossero marginali e tali da escludere la novazione del rapporto, così confermando quanto statuito dal primo giudice circa la persistenza del patto di non concorrenza.
Il secondo motivo, nella parte in cui censura la sentenza per omesso esame di fatto decisivo per il giudizio (art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.) investe la soluzione di merito che la Corte di appello ha espresso condividendo integralmente e ribadendo il giudizio del giudice di primo grado.
6.1. In proposito, va osservato che opera la previsione di inammissibilità del ricorso per cassazione, di cui all’art. 348-ter, comma 5, cod. proc. civ., che esclude che possa essere impugnata ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. la sentenza di appello “che conferma la decisione di primo grado”. Tale disposizione si applica, agli effetti dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, conv. in I. n. 134 del 2012, ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione successivamente all’ 11 settembre 2012. Nel caso in esame, il ricorso in appello venne proposto nel 2013, per cui tale disposizione trova applicazione. Il secondo motivo è dunque inammissibile.
7. L’assunto posto a base del terzo motivo risulta contraddetto da quanto riferito dalla stessa parte ricorrente con riferimento al primo motivo laddove ha affermato (pag. 9 ricorso) che la somma chiesta in restituzione dalla società preponente riguardava le provvigioni aggiuntive corrisposte in esecuzione del patto violato dal convenuto e che tale somma, dapprima quantificata nel ricorso introduttivo in euro 26.341,09 e, in seguito a c.t.u. contabile, in euro 26.989,00, comprendeva sia le somme percepite dal 29 aprile 1991 al 31 dicembre 1998, periodo in cui il C. era un “agente semplice” (euro 5.884,38), sia di somme percepite dal 1° gennaio 1999 al 21 luglio 2003, periodo in cui era “agente generale” (euro 21.104,30).
8. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
9. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13 (v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13 comma 1-quater del d.P.R. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
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