CORTE DI CASSAZIONE sentenza n. 25583 depositata il 10 ottobre 2019
risoluzione del rapporto di lavoro – fatti concludenti
FATTI DI CAUSA
1. AP Industriale s.p.a. proponeva opposizione al precetto notificatole da L.G. per l’esecuzione del verbale di conciliazione del 27 settembre 2007 mediante il quale l’opponente si era impegnata, a determinate condizioni, ad assumere il L. o a farlo assumere dalla ditta C. o da altra impresa subentrata nell’appalto avente ad oggetto il servizio di raccolta rifiuti.
2. Il Tribunale, accogliendo l’opposizione, annullava l’atto di precetto del 12 dicembre 2011 e dichiarava l’inesistenza del diritto del resistente ad essere assunto dall’impresa appaltatrice subentrata al C..
3. L’appello proposto dal L. veniva respinto dalla Corte di appello di Torino, con sentenza n. 241 del 2015 sulla base delle seguenti considerazioni:
– come ritenuto anche dal primo giudice, ai fini della decisione è dirimente la considerazione che il L. certamente reperì una nuova occupazione ben prima del licenziamento intimatogli dal C. in data 7 ottobre 2011, sicchè a nulla rilevano eventuali profili di invalidità e/o inefficacia di tale recesso, che costituisce evidentemente un post factum rispetto all’occupazione reperita dal L. un mese prima di tale recesso;
– è ben vero che il C. subì accertamenti fiscali all’inizio del mese di ottobre 2011 e cessò l’attività di impresa il 31 ottobre 2011, ma in qualunque data intermedia fosse stato eseguito il sequestro preventivo, comunque tale provvedimento non avrebbe potuto essere anteriore alla nuova occupazione del L..
3. Per la cassazione di tale sentenza L.G. ha proposto ricorso affidato a due motivi, cui ha resistito la società con controricorso.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
2. Con il secondo motivo si denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5), consistente nella cessazione dell’azienda del C. in data 26 aprile 2011. Si assume che la visura camerale della ditta indicava il trasferimento dell’azienda a M.V. in data 26 aprile 2011, per cui il datore di lavoro del ricorrente era diventato, in forza dell’accordo conciliativo e sin dall’aprile 2011, proprio il M.. La Corte di appello, richiamando la missiva del 6 ottobre 2011 – con cui il L. aveva incaricato i propri legali di chiedere chiarimenti al C., al M. e all’Acea in ordine all’assetto normativo aziendale e al permanere del rapporto lavorativo -, aveva omesso ogni valutazione relativa all’indicato profilo del trasferimento di azienda, avvenuto sin dall’aprile 2011.
3. Il ricorso è infondato.
4.1. Interpretando il contenuto di tale accordo negoziale, i giudici di merito hanno ritenuto che lo scioglimento del rapporto di lavoro instaurato con il C. in esecuzione dell’obbligo assunto dalla società AP Industriale fosse avvenuto per iniziativa autonoma del L. e non per ragioni ascrivibili alla ditta C. e neppure per licenziamento e che il comportamento tenuto dall’appellante integrasse un’ipotesi di dimissioni tacite, facendo venir meno l’impegno che costituiva oggetto dell’accordo conciliativo.
5. Il primo motivo verte sulla presunta erronea valutazione del comportamento del ricorrente quali dimissioni rassegnate mediante comportamento tacito concludente.
5.2. Il recesso volontario del lavoratore può essere desunto da dichiarazioni o comportamenti che, inequivocabilmente, manifestino l’intento di recedere dal rapporto, come nel caso in cui il prestatore si sia allontanato dal posto di lavoro e non si sia più presentato per diversi giorni (cfr. Cass. 5454 del 2011). Nel caso in cui non sia prevista alcuna forma convenzionale per il recesso del lavoratore, un determinato comportamento da lui tenuto può essere tale da esternare esplicitamente, o da lasciar presumere (secondo i principi dell’affidamento), una sua volontà di recedere dal rapporto di lavoro, e siffatto comportamento può anche essere meramente omissivo, quale quello che si concreta in un inadempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto, in quanto suscettibile di essere interpretato anche come espressione, per fatti concludenti, della volontà di recedere, restando incensurabile in sede di legittimità l’accertamento del giudice di merito congruamente motivato (Cass. n. 6604 del 2000).
5.3. La Corte di merito ha fatto corretta applicazione di tali principi, motivando il concorso di più elementi indiziari, logicamente indicativi della volontà del L. di interrompere il rapporto di lavoro con il C..
6.1. Non vi è omessa considerazione della visura camerale, che secondo l’odierno ricorrente indicherebbe il trasferimento dell’azienda a M.V. in data 26 aprile 2011. Trattasi di circostanza di cui la Corte di appello ha fatto cenno in relazione alla missiva del 6 ottobre 2011, con cui il L. incaricò i propri legali di chiedere chiarimenti al C., al M. e all’Acea in ordine all’assetto normativo aziendale e al permanere del rapporto lavorativo, mentre ora la medesima circostanza è prospettata in termini diversi da quanto risulta accertato in giudizio, ossia è prospettata per sostenere che il datore di lavoro del ricorrente era diventato, in forza dell’accordo conciliativo e sin dall’aprile 2011, il M.. Dunque, da un lato, non sussiste l’omessa considerazione del fatto, poichè lo stesso era stato esaminato e dunque valutato dalla Corte di appello, dall’altro, la diversa prospettazione di cui al ricorso per cassazione non risponde ai requisiti di indicazione e allegazione (art. 366 c.p.c., nn. 3 e 4) per ritenere che la questione, nei termini in cui è illustrata nel ricorso per cassazione, fosse stata negli stessi termini introdotta in giudizio.
8. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater. Il raddoppio del contributo unificato, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, costituisce una obbligazione di importo predeterminato che sorge ex lege per effetto del rigetto dell’impugnazione, della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità della stessa.
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
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