CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 aprile 2020, n. 7661
Tributi – Rimborso credito IRPEG – Contenziozo – Vittora nei gradi di merito – Definizione lite pendente ex art. 16, della legge n. 289/2002 – Perdita del credito
Rilevato che
1. La Fondazione Cassa di Risparmio di Spoleto, con la dichiarazione del 1995, chiese il rimborso di un credito d’imposta IRPEG, per il periodo 1°/10/1993-30/09/1994, in applicazione dell’agevolazione prevista dall’art. 6, del d.P.R. n. 601/1973, concernente la riduzione alla metà del medesimo tributo;
l’Ufficio delle imposte di Spoleto, non ritenendo applicabile l’agevolazione, notificò alla contribuente un avviso di accertamento di una maggiore imposta IRPEG (per un ammontare di lire 370.322.000), con relative sanzioni, e il contenzioso che ne scaturì vide la contribuente vittoriosa innanzi alle Commissioni di merito;
in seguito all’emanazione della legge n. 289/2002, la Fondazione decise di definire la lite fiscale pendente, ai sensi dell’art. 16 della stessa legge, con il pagamento integrale delle somme dovute;
ritenendo che per effetto di tale definizione si fosse consolidato il proprio credito esposto nella dichiarazione del 1995, in data 22/11/2003, la contribuente presentò un’istanza di rimborso e l’Agenzia delle entrate, con lettera del 12/12/2003, dichiarò che avrebbe provveduto al rimborso non appena la Cassazione avesse dichiarato l’estinzione del giudizio pendente a seguito di presentazione della domanda di definizione della lite fiscale, ex art. 16, della legge n. 289/2002;
in effetti, la Cassazione, con decreto del 29/05/2007, dichiarò l’estinzione del giudizio, dopodiché la contribuente sollecitò più volte detta restituzione, finché l’Agenzia delle entrate, in data 22/02/2012, le notificò il diniego di rimborso del credito esposto in dichiarazione;
2. la contribuente impugnò l’atto innanzi alla CTP di Perugia che, con sentenza 365/8/2012, respinse il ricorso e tale decisione è confermata dalla CTR dell’Umbria, nel contraddittorio dell’Agenzia, con la sentenza in epigrafe;
3. in particolare, il giudice d’appello, per quanto ancora rileva, ha affermato che, nell’ipotesi di chiusura agevolata della lite ex art. 16 cit., diversamente da quanto prospettato dall’appellante, e secondo quanto riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 22262/2011) è preclusa, in ogni caso, la restituzione delle somme sulle quali il fisco ha esercitato una pretesa e che hanno formato oggetto di contestazione giudiziale, in quanto il condono pone il contribuente di fronte a una libera scelta tra trattamenti distinti e autonomi: coltivare la controversia (conseguendo, se del caso, i rimborsi di somme indebitamente pagate), oppure corrispondere quanto dovuto per la definizione agevolata, senza possibilità di “riflessi o interferenze” con quanto eventualmente già corrisposto;
nella specie, le somme in questione, pur non essendo state versate in corso di causa, erano state comunque oggetto d’impugnazione da parte della Fondazione ed erano state poi “sanate” con la richiesta di definizione agevolata;
la Commissione tributaria umbra non ha ravvisato nemmeno la prospettata violazione del legittimo affidamento della contribuente, ai sensi dell’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente, in quanto la lettera dell’Agenzia delle entrate di Spoleto, citata dalla Fondazione, aveva ingenerato in quest’ultima una mera aspettativa, insuscettibile di tutela giudiziaria;
4. la Fondazione ricorre per la cassazione di questa sentenza della CTR, sulla base di tre motivi, cui resiste l’Agenzia con controricorso; la ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis. 1. cod. proc. civ.
Considerato che
1. con il primo motivo del ricorso, denunciando, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 16, comma 5, della legge n. 289/2002, la ricorrente censura la decisione impugnata per avere affermato che la definizione della lite pendente precluda, in ogni caso, il rimborso delle somme versate prima della relativa domanda, senza considerare che, in realtà, la corretta esegesi (anche testuale) del detto art. 16 comporta che tale preclusione valga esclusivamente con riferimento alle somme versate in pendenza della lite e, quindi, in esecuzione del provvedimento accertativo, non anche per quelle delle quali fosse già stata chiesto il rimborso con la dichiarazione dei redditi;
1.1. il motivo è infondato;
si deve ribadire il radicato indirizzo della Corte, espresso anche di recente (Cass. 15/02/2019, n. 4573), per il quale: «L’art. 16, comma 5 [… della legge n. 289/2002] rubricato “chiusura delle liti pendenti”, prevede che dalle somme dovute per il condono si scomputano quelle già corrisposte prima della presentazione della domanda di definizione, per effetto delle disposizioni vigenti in materia di riscossione in pendenza di lite; stabilisce, altresì, che fuori dai casi di soccombenza dell’amministrazione, la definizione della controversia mediante condono non dà luogo alla restituzione delle somme già versate; e ciò anche se tali somme siano, in ipotesi, eccedenti rispetto a quanto dovuto per il perfezionamento della definizione della lite in via condonale. […] In altri termini, la norma in esame prevede in via eccezionale – in deroga al principio della non restituzione delle somme versate in eccedenza rispetto a quanto dovuto per il condono – l’ammissibilità di tale restituzione solo in caso di soccombenza dell’amministrazione.
Fuori di tale ipotesi eccezionale, vale la previsione generale della citata disposizione in forza della quale il condono, in quanto incide in via definitiva sui debiti tributari dei contribuenti non può dare luogo a restituzione alcuna degli importi in precedenza corrisposti sebbene eccedenti rispetto a quanto dovuto per il perfezionamento della definizione stessa (cfr. Cass., Sez. U. 05/06/2008, n. 14828; Cass., 13/04/2012 n. 584; Cass., 17/07/2014, n. 16339 (Rv. 632190 – 01); Cass., Sez. U., 27/01/2016, n. 1518). Tali effetti trovano la causa nella natura stessa del condono, istituto che risponde al fine di recuperare risorse finanziarie e di ridurre il contenzioso, senza sottendere finalità di accertamento tributario ed esaurendo i suoi effetti con il raggiungimento di tali obiettivi. Ed invero, sebbene, a stretto rigore, non si tratta di un c.d. regime fiscale sostitutivo, perché opera “a posteriori” e non “a priori”, né di una transazione (pure talvolta ritenuta in giurisprudenza, vedi Cass., Sez. U., 05/06/2008 n. 14828 (Rv. 603316 – 01); Cass., del 03/06/2015 n. 11427) o di una novazione perché, in entrambe le ipotesi, manca l’origine bilaterale volontaria tipica dei contratti, il condono fiscale costituisce la forma procedimentale atipica di definizione del rapporto tributario, che prescinde da una analisi della varie componenti ed esaurisce il rapporto stesso mediante definizione forfettaria ed immediata, nella prospettiva – che come già detto ne costituisce la ratio – di recuperare risorse finanziarie e di ridurre il contenzioso, e non invece in quella dell’esatto accertamento dell’imponibile. Il condono, dunque, non ha, e non può avere, effetti che vadano oltre il proprio ambito: esso comporta l’effetto di elidere in tutto o in parte il debito fiscale, senza precludere l’accertamento su altre imposte. […] Da tali principi consegue che il diritto alla restituzione delle somme già corrisposte in corso di causa ed eccedenti quelle dovute per il condono può spettare al contribuente solo nel caso di soccombenza totale dell’amministrazione nei giudizi di merito. […] si aggiunge che l’effetto preclusivo del diritto al rimborso derivante dal condono, è questione ritenuta di ordine pubblico tanto da consentirne la rilevabilità d’ufficio del giudice in ogni stato e grado del procedimento senza che occorra una specifica deduzione ad opera della parte interessata a farla valere (cfr. Cass., 27/10/2015, n. 20650 – (Rv. 636896-01).»;
nella fattispecie, la CTR si è uniformata a tale principio di diritto che, diversamente da quanto prospettato dalla ricorrente, esclude la restituzione delle somme già versate, ancorché eccedenti rispetto a quanto dovuto per il perfezionamento del condono, senza distinguere se dette somme siano state versate o meno in pendenza di una lite e, quindi, in esecuzione di un provvedimento accertativo o se, invece, di esse sia stata chiesta la restituzione già nella dichiarazione fiscale;
del resto, il credito d’imposta del quale, in dichiarazione, la contribuente ha chiesto la restituzione (consistente nella quota dell’IRPEG che essa assumeva di avere versato in eccesso), pur riguardando somme corrisposte prima dell’atto di accertamento la cui impugnazione ha dato avvio alla lite definita con il condono, corrispondeva alla pretesa fiscale oggetto dell’attività accertatrice dell’Amministrazione finanziaria, sicché anche in relazione a tale somma ha trovato piena applicazione il principio, riconosciuto dalla CTR, per il quale il condono, in quanto incide in via definitiva sui debiti tributari dei contribuenti, non può dare luogo a restituzione alcuna degli importi in precedenza corrisposti, sebbene eccedenti rispetto a quanto dovuto per il perfezionamento della definizione stessa;
2. con il secondo motivo, denunciando, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 53 Cost., la ricorrente censura la decisione della CTR, la cui interpretazione darebbe luogo a una disparità di trattamento tra il caso in cui sia stato chiesto il rimborso dei crediti risultanti dalla dichiarazione e il caso in cui, invece, i crediti siano stati riportati all’anno successivo, dal momento che solo i primi risulterebbero “penalizzati in sede di definizione ex art. 16”;
2.1. il motivo è inammissibile;
la censura in esso contenuta non risulta essere stata dedotta nel giudizio di merito; al riguardo è opportuno ricordare che, secondo l’orientamento pacifico di questa Corte, i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in cassazione questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase del merito e non rilevabili d’ufficio (Cass. 26/03/2012, n. 4787).
il contribuente, per evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice del merito, ma anche di indicare in quale atto del precedente giudizio lo abbia fatto, onde consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito (Cass. 16/06/2017, n. 15029; 31/01/2006, n. 2140);
vale conclusivamente la considerazione che, per giurisprudenza pacifica di questa Corte (Cass. 15/06/2018, n. 15879; conf.: 17/02/2014, n. 3708/2014), non è consentito fare valere, direttamente, con il motivo di ricorso per cassazione, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione di norme costituzionali in quanto il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri costituzionali, realizzandosi sempre per il tramite dell’applicazione di una norma di legge, deve essere portato ad emersione mediante l’eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata;
3. con il terzo motivo, denunciando, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione del principio del legittimo affidamento sancito dall’art. 10, della legge n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), si censura la decisione impugnata per non avere riconosciuto che la ricorrente, comunque, aveva diritto al rimborso del credito esposto in dichiarazione avendo fatto legittimo affidamento sul contenuto della lettera dell’Agenzia delle entrate, datata 12/12/2003, che aveva riconosciuto tale diritto e aveva dichiarato che avrebbe effettuato il rimborso non appena fosse stata definita la lite fiscale in essere;
3.1. il motivo è infondato;
in passato questa Corte, occupandosi della materia del contendere, ha affermato che: «In tema di legittimo affidamento del contribuente di fronte all’azione dell’Amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 10, commi primo e secondo, legge n. 212 del 2000 (cd. Statuto del contribuente), che tale tutela ha voluto esplicitamente offrire, costituisce situazione tutelabile quella caratterizzata: a) da un’apparente legittimità e coerenza dell’attività dell’Amministrazione finanziaria, in senso favorevole al contribuente; b) dalla buona fede del contribuente, rilevabile dalla sua condotta, in quanto connotata dall’assenza di qualsiasi violazione del dovere di correttezza gravante sul medesimo; c) dall’eventuale esistenza di circostanze specifiche e rilevanti, idonee a indicare la sussistenza dei due presupposti che precedono.» (Cass. 10/12/2002, n. 17576);
nel corso degli anni si è andato delineando un orientamento della Corte che, senza discostarsi dai criteri enunciati da Cass. n. 17576/2002, ha delimitato, con rigore, l’ambito di applicazione del principio del legittimo affidamento e si è preoccupata di precisare che: «Il legittimo affidamento del contribuente comporta, ai sensi dell’art. 10, commi 1 e 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212, l’esclusione degli aspetti sanzionatori, risarcitori ed accessori conseguenti all’inadempimento colpevole dell’obbligazione tributaria, ma non incide sulla debenza del tributo, che prescinde del tutto dalle intenzioni manifestate dalle parti del rapporto fiscale, dipendendo esclusivamente dall’obiettiva realizzazione dei presupposti impositivi.» (Cass. 25/03/2015, n. 5934; conf., in tema di tributi armonizzati: Cass. 9/01/2019, n. 370);
in linea con tale approccio esegetico al principio dell’affidamento, si è anche affermato che: «Le circolari ministeriali in materia tributaria non costituiscono fonte di diritti ed obblighi, sicché, ove il contribuente si sia conformato ad un’interpretazione erronea fornita dall’Amministrazione finanziaria, è esclusa soltanto l’irrogazione delle relative sanzioni e degli interessi, senza alcun esonero dall’adempimento dell’obbligazione tributaria, in base al principio di tutela dell’affidamento, espressamente sancito dall’art. 10, comma 2, della I. n. 212 del 2000.» (Cass. 18/05/2016, n. 10195);
nel caso concreto, la contribuente invoca la tutela del legittimo affidamento facendo perno su una dichiarazione dell’Amministrazione finanziaria (riportata nella “lettera” del 12/12/2003), non trasfusa in alcun atto formale del fisco, la quale non era senz’altro idonea ad estinguere l’obbligazione tributaria della contribuente e neppure ad elidere la regola per la quale il condono, ex art. 16, comma 5, cit., non dà comunque luogo alla restituzione delle somme già versate prima della definizione della lite ai sensi della stessa norma;
e ciò vale ad escludere la fondatezza della doglianza, ancor prima della considerazione che, nella specie, la CTR, con un apprezzamento in fatto insindacabile da parte di questa Corte, per la sua coerenza logica, ha negato che alla fattispecie concreta si attagli il principio del legittimo affidamento invocato dalla contribuente;
4. ne consegue il rigetto del ricorso;
5. le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso, condanna la contribuente a corrispondere all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.600,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 -bis del citato art. 13.
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