TRIBUNALE DI ROMA – Sentenza 02 aprile 2020, n. 5717
Licenziamento collettivo – Esclusione della categoria dei dirigenti dall’ambito di applicazione della procedura – Mancata attuazione di direttiva UE relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri – Responsabilità dello Stato – Risarcimento del danno al datore di lavoro sanzionato – Sanzione di tipo indennitario, sostituiva alla reintegrazione del dirigente illegittimamente licenziato – Parametro di valutazione del danno – Non sussiste
In fatto
Con atto di citazione notificato in data 16.10.2015, gli attori hanno convenuto in giudizio dinanzi a questo Tribunale la Presidenza del Consiglio dei Ministri, chiedendo di accertarne e dichiararne la responsabilità nei confronti di (…..) per mancata attuazione della direttiva 75/129/CEE come modificata dalla direttiva 92/56/CEE e dalla successiva 98/59/CE del Consiglio dell’Unione Europea del 20.07.1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, con conseguente condanna della convenuta al risarcimento dei danni, quantificati nelle somme di € 552 000.00 per il (…), € 140.000.00 per il (…), € 190.080,00 per il (…), € 254 160,00 per la (…), € 252.000.00 per il (…) ovvero nelle somme ritenute di giustizia, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali.
A sostegno della propria domanda, gli attori hanno dedotto di essere stati assunti nel biennio 2007-2000, con il ruolo di dirigenti , presso la (…) s.p.a. la quale, in seguito (nell’ottobre 2010), recedeva dai rapporti di lavoro intercorrenti con tutto il personale, ivi compresi gli attori medesimi. Questi ultimi hanno aggiunto altresì che la Banca avviava la procedura di cui alla I. n. 223/1991 solo in relazione al personale non dirigenziale, in quanto la predetta legge aveva escluso la categoria dei dirigenti dall’ambito di applicazione della procedura, in violazione della direttiva 98/59/CE. Solo a seguito della sentenza resa nella causa C-596/2014 del 13.02.2014 – con cui la CGUE ha dichiarato inadempiente lo Stato per non avere correttamente recepito gli obblighi su di esso incombenti – veniva modificato l’art. 24 della legge citata, estendendosi anche ai dirigenti le procedure collettive di riduzione del personale. Gli attori hanno quindi concluso rilevando che, essendo stati illegittimamente esclusi dalla procedura di cui alla l. 223/1991, hanno diritto al risarcimento dei danni subiti, da quantificare, in via equitativa, in un’indennità pari a 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita.
Nel costituirsi in giudizio, la Presidenza del Consiglio ha eccepito: – in via principale, l’insussistenza del diritto azionato, per difetto di un danno effettivamente subito dagli attori, atteso che gli stessi avevano percepito la somma loro spettante a titolo di indennità di preavviso; – in via subordinata, l’esorbitanza dell’ammontare preteso a titolo risarcitorio, da contenere entro l’importo massimo di € 84.000,00 cui andrebbe decurtato quanto percepito a titolo di indennità di preavviso.
Il Tribunale, concessi termini ex art. 183 comma 6 c.p.c., ha trattenuto la causa (istruita mediante produzione documentale) in decisione, previa precisazione delle conclusioni e concessione dei termini di legge per il deposito degli scritti difensivi conclusionali.
In diritto
Per maggiore chiarezza espositiva, è opportuno ricostruire il quadro normativo della vicenda in esame.
La direttiva 98/59/CE del 20 luglio 1998, modificativa delle precedenti direttive 75/129/CEE e 92/56/CEE, nell’ottica di ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi e di rafforzamento della tutela dei lavoratori, ha indicato una procedura omogenea suddivisa in due fasi. La prima (di informazione e consultazione), volta a vagliare la possibilità di evitare o ridurre i licenziamenti ovvero, qualora ciò non sia possibile, diretta ad attenuarne le conseguenze, attraverso specifici strumenti di sostegno del reddito; la seconda fase (di licenziamento), in cui il datore di lavoro notifica il progetto di licenziamento dando atto dei motivi dello stesso, del numero dei lavoratori che dovranno essere licenziati e dei criteri di scelta utilizzati. Il licenziamento dovrà poi avvenire alla luce degli accordi raggiunti, nel corso della procedura, con le rappresentanze sindacali di categoria.
Il Legislatore nazionale ha recepito la direttiva in oggetto con la legge 23 luglio 1991 n. 223, escludendo, tuttavia, la categoria dei dirigenti dall’ambito di applicazione della procedura di licenziamento collettivo, sul presupposto che le disposizioni interne riguardanti i dirigenti recassero una disciplina più favorevole della direttiva, fatta salva dall’art. 5 della stessa.
A seguito dell’avvio della procedura d’infrazione, la Commissione europea ha proposto ricorso per inadempimento ai sensi dell’art. 258 TFUE nei confronti dell’Italia, per essere questa venuta meno, escludendo i dirigenti, agli obblighi imposti dall’art. 1 paragrafi 1 e 2 della direttiva sopra citata.
La CGUE, con la sentenza del 13 febbraio 2014 (causa C-596/12), ha dichiarato l’inadempimento da parte della Repubblica Italiana degli obblighi su di essa incombenti in forza della direttiva de qua, osservando che l’ambito soggettivo di applicazione riguarda tutti i lavoratori che svolgono la propria prestazione lavorativa alle dipendenze di un diverso soggetto dal quale percepiscono una retribuzione, indipendentemente dalle qualifiche rivestite. Di tal che, anche i dirigenti rientrano nel novero dei soggetti destinatari della normativa europea, la quale risulterebbe parzialmente privata del proprio effetto utile in caso di mancata attuazione della procedura di consultazione nei confronti di taluni lavoratori.
Con la legge n. 161/2014, il Legislatore, adeguandosi a quanto deciso dalla CGUE, ha quindi modificato la l. 223/1991, estendendo la procedura di riduzione del personale anche ai dirigenti (art. 24 comma 1 quinquies l. 223/1991).
Così delineato il quadro normativo di riferimento, è bene passare alla disamina della domanda azionata dagli attori.
A tal fine occorre premettere che, com’è noto, l’azione risarcitoria per inadempimento delle direttive europee può essere esercitata in presenza delle seguenti condizioni:
1. la norma giuridica violata sia preordinata ad attribuire diritti a favore dei singoli, il cui contenuto possa essere identificato sulla base della direttiva;
2. la violazione sia sufficientemente grave e manifesta;
3. esista un nesso di causalità fra la violazione dell’obbligo imposto allo Stato e il danno lamentato dal singolo (cfr. Corte di Giustizia 19 novembre 1991, in cause riunite C-6/90 e C- 9/90).
Quanto al punto 1. la nozione di lavoratore di cui all’art. 1 paragrafi 1 e 2 della direttiva 98/59 ha una portata comunitaria che ricomprende tutte quelle persone che forniscano, per un certo periodo di tempo, a favore di un altro soggetto e sotto la direzione di quest’ultimo, prestazioni in contropartita delle quali percepisce una retribuzione. Ne consegue che anche i dirigenti devono essere ricompresi in tale nozione (come ribadito dalla citata sentenza C-596/2012 della Corte di Giustizia, cfr. doc. 6 del fascicolo di parte attrice) ed hanno perciò il diritto, violato dalla legge 223/91 ante riforma, di partecipare alla procedura prevista dalla legge nazionale in tema di riduzioni e licenziamenti collettivi, il cui contenuto è stato individuato dalla direttiva nei termini sopra esposti.
In ordine al punto 2 la violazione appare grave e manifesta, in quanto la legge 223/91, prima delle modifiche introdotte dall’art. 16 dalla legge 161/2014, ha recepito la disciplina comunitaria in materia di licenziamenti collettivi, escludendo tuttavia i dirigenti dall’applicazione degli artt. 4 e 5 della legge 223/91, in palese violazione degli artt. 1 e 2 della direttiva. Rimane dunque da valutare il punto 3 ovvero l’esistenza e l’ammontare del danno provocato da tale violazione.
Quanto al danno parte attrice chiede esso sia quantificato con riferimento al criterio indicato dall’art. 24, comma 1-quinques legge 223/91 secondo cui “quando risulta accertata la violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12, o dei criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1, l’impresa o il datore di lavoro non imprenditore è tenuto al pagamento in favore del dirigente di un’indennità in misura compresa tra dodici e ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo alla natura e alla gravità della violazione, fatte salve le diverse previsioni sulla misura dell’indennità contenute nei contratti e negli accordi collettivi applicati al rapporto di lavoro”.
Parte attrice non chiede l’applicazione diretta di tale disposizione – evidentemente non applicabile sia perché intervenuta in data successiva al licenziamento e sia perché rivolta al datore di lavoro – ma chiede che il criterio di determinazione della sanzione in essa previsto venga utilizzato quale criterio di quantificazione equitativa del danno subito dal dirigente per la mancata tempestiva attuazione della direttiva in oggetto da parte del Legislatore.
In sostanza parte attrice chiede che la sanzione prevista dall’art. 24, comma 1-quinques legge 223/91 in danno del datore di lavoro – che, nella vigenza della legge 161/2014 (modificativa della legge 223/91), ha disposto il licenziamento illegittimamente, violando la procedura e i criteri di scelta – venga posta a carico dello Stato legislatore che non ha tempestivamente adempiuto agli obblighi comunitari, precludendo così ai dirigenti determinate tutele. Tale sanzione è rappresentata, non potendo essere disposta la reintegrazione del dirigente, da un indennità sostitutiva prevista in misura compresa tra le dodici e le ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto a seconda della natura e della gravità della violazione.
Secondo le allegazioni degli attori il danno richiesto, derivante dalla tardiva attuazione della direttiva sarebbe presunto, ovvero un danno “sanzione” o c.d. “comunitario” che non necessiterebbe di prova ulteriore rispetto a quella della non conformità della legge italiana rispetto all’ordinamento comunitario (accertato nel caso in esame dalla sentenza della Corte di giustizia del 13 febbraio 2014) e che deve esser risarcito solo in ragione di tale violazione”.
Tale tesi non è condivisibile.
Ad avviso del Tribunale il criterio di quantificazione della sanzione di tipo indennitario, sostituiva alla reintegrazione del dirigente illegittimamente licenziato, previsto dall’art. 24 comma 1-quinques citato non può rappresentare un parametro di valutazione del danno derivato agli attori dalla mancata attuazione da parte del Legislatore della direttiva 98/59, trattandosi di situazioni differenti. Nell’un caso, non potendo il dirigente essere reintegrato per legge a fronte di un licenziamento illegittimo, può godere di una indennità sostituiva indicata dalla norma tra un minimo ed un massimo a seconda della natura e della gravità della violazione. In tal caso la misura sanzionatoria, tenuto conto per la sua concreta quantificazione del tipo di violazione in concreto posta in essere dal datore di lavoro, mira a indennizzare il danno subito dal dirigente che non doveva essere licenziato, essendo il licenziamento illegittimo, e che non può essere reintegrato.
Nel caso in oggetto la direttiva mira a tutelare diritti strumentali del lavoratore dirigente, ovvero il suo diritto ad essere coinvolto nella procedura di licenziamento di massa e il danno derivante dalla compressione di tali diritti deve essere provato.
Ai fini del risarcimento dei danni provocati dalla tardiva attuazione della direttiva è invero necessaria la prova della sussistenza dei seguenti elementi:
– il cd. danno evento, derivante dalla mancata attuazione (o inesatta attuazione) della direttiva;
– il nesso di causalità tra il danno-evento e la violazione dell’obbligo da parte dello Stato;
– il danno-conseguenza, consistente nelle perdite patrimoniali (ed eventualmente non patrimoniali) subite.
Sul piano interno, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la mancata (o inesatta) attuazione delle direttive nel termine prescritto determina in capo allo Stato una responsabilità per inadempimento di un’obbligazione ex lege, per non aver assicurato i benefici originanti dalla direttiva stessa ai suoi destinatari (Cass. 11 novembre 2011, n. 23577; Cass. 10 luglio 2013, n. 17068; Cass. 8 marzo 2017, n. 5781).
Nel caso di specie, se la direttiva fosse stata tempestivamente e correttamente adempiuta, i dirigenti avrebbero avuto accesso alla procedura di licenziamento collettivo e alle tutele dalla stessa derivanti.
È di preliminare rilievo, quindi, accertare quali siano le tutele previste dalla direttiva 98/59/CE in materia di licenziamento collettivo.
Essa, come già sopra accennato, persegue la finalità di ravvicinare le disposizioni nazionali relative alla procedura di riduzione del personale al triplice scopo di:
1. evitare il licenziamento;
2. posticiparlo nel tempo;
3. attenuarne le conseguenze sul piano economico attraverso l’attivazione di strumenti di sostegno del reddito.
Ne deriva allora che i benefici derivanti dalla corretta trasposizione della direttiva in parola non consistono semplicemente nella partecipazione formale alla procedura di licenziamento, ma hanno carattere strumentale. Essi, infatti, mirano al conseguimento da parte dei lavoratori di specifiche tutele previste dalla direttiva, quali: la possibilità di non essere licenziati ovvero di venire licenziati in un momento successivo, nonché di accedere agli strumenti sociali di ausilio del reddito, con tutte le conseguenze economiche da ciò derivanti.
Pertanto, il danno-evento derivante dalla non corretta trasposizione della direttiva de qua consiste non già nella mancata partecipazione formale alla procedura, bensì nella perdita delle suddette forme di tutela. Di conseguenza, il dirigente estromesso che faccia valere la pretesa risarcitoria per siffatto inadempimento è tenuto a dimostrare, quale fatto costitutivo del danno-evento, la perdita dei diritti derivanti dalla procedura di licenziamento collettivo.
È invece a carico del convenuto la prova di circostanze modificative o estintive del diritto, rilevanti a titolo di aliunde perceptum.(Cass. 27 gennaio 2012, n. 1182; Cass. 8 marzo 2017, n. 5781).
Nel caso di specie, gli attori hanno rappresentato che la non corretta attuazione della direttiva in parola ha cagionato loro un danno derivante, da un lato, dalla perdita di chance di giungere, per il tramite delle loro rappresentanze sindacali, ad un accordo con la Banca che consentisse loro di evitare o posticipare nel tempo il licenziamento; dall’altro, dalla perdita del diritto di accedere agli strumenti sociali di sostegno del reddito, quali il Fondo di Solidarietà e il Fondo Emergenziale di cui agli accordi sindacali del 9 e del 10 dicembre 2010 intercorsi con i lavoratori non dirigenti.
Di contro, la convenuta Presidenza del Consiglio ha eccepito che gli attori avevano ricevuto la somma loro spettante a titolo di indennità di preavviso in conformità alla normativa vigente all’epoca del licenziamento (ottobre 2010) e al CCNL applicabile.
Ciò posto, con riferimento alla doglianza concernente la perdita della chance di evitare o posticipare il licenziamento attraverso la partecipazione alla procedura ex I. 223/1991, deve osservarsi che il creditore che voglia ottenere i danni derivanti dalla perdita di chance ha l’onere di provare, anche solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti funzionali al raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere una conseguenza immediata e diretta (cfr. Cass Civ sez. IlI, 24/10/2017, n. 25102).
Nel caso di specie, dal verbale di accordo sindacale del 9.12.2010 (cfr. all n 2 del fascicolo di parte attrice) risulta all’art. 4, disciplinante i criteri di scelta per la risoluzione dei rapporti di lavoro, che l’esubero fosse totalitario con la conseguente non necessità di ricorrere ai criteri di scelta normativamente previsti per selezionare i lavoratori da licenziare (cfr. art. 4 allegato n 2 del fascicolo degli attori, secondo cui “tenuto conto che l’esubero è totalitario, non sarà necessario fare ricorso all’applicazione dei criteri di scelta per l’individuazione dei dipendenti con cui risolvere il rapporto di lavoro”)
Ne deriva quindi che, se la (…) s.p.a. ha risolto i rapporti di lavoro con tutto il personale impiegato (dirigenti e non), senza necessità di dover ricorrere ai criteri di scelta (carichi di famiglia, anzianità, esigenze tecnico-produttive e organizzative), il licenziamento era l’unica strada percorribile.
Di conseguenza, nessuna chance di evitare il licenziamento è stata persa dai dirigenti estromessi dalla procedura, i quali – anche quando avessero preso parte alla procedura ex l. 223/1991 – sarebbero stati comunque licenziati.
Con riguardo, poi, alla perdita della possibilità di posticipare nel tempo il licenziamento attraverso la partecipazione alla procedura ex l. 223/1991, va rilevato che, sebbene gli attori non indichino con precisione la durata della stessa, dal verbale di accordo sindacale sopra citato, risulta che la Banca ha avviato con comunicazione del 14.10.2010 la procedura sindacale preventiva all’applicazione della l. 223/1991 ai sensi dell’art. 18 del CCNL applicabile. In occasione dell’ultimo incontro sindacale del 9.12.2010, le parti coinvolte si impegnavano ad avviare immediatamente la procedura ex artt. 4 e 24 l. 223/1991 e ad esaurirla entro un periodo massimo di 6 giorni dalla comunicazione di apertura (cfr. p.3 lettera l) delle premesse dell’allegato n. 2 del fascicolo di parte attrice).
La procedura di licenziamento collettivo, riguardante i lavoratori non dirigenti, ha avuto quindi una breve durata (in coerenza peraltro con la natura totalitaria dell’esubero che consentiva di omettere la fase dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare), con la conseguenza che – in presenza delle medesime condizioni – viene a mancare la prova della sussistenza, in concreto, dei presupposti funzionali al raggiungimento della chance di posticipare il licenziamento, anche per i dirigenti.
Per queste ragioni, la domanda risarcitoria avente ad oggetto la perdita di chance di evitare o posticipare il licenziamento non può essere accolta.
Passando, poi, all’esame della doglianza concernente la perdita del diritto di accedere agli strumenti sociali di sostegno del reddito – quali il Fondo di Solidarietà e la Sezione Emergenziale dello stesso giusta dm 28 aprile 2000 n. 158 – osserva il Tribunale che la tardiva attuazione della direttiva 98/59 ha oggettivamente impedito agli attori, esclusi dalla procedura sindacale di cui all’art. 4 e 24 legge 231/91 di accedere agli ammortizzatori previsti dal citato dm . Invero, l’art. 7 comma 2 D.M. 158/2000 (regolamento del Fondo di solidarietà) prevede che l’accesso alle prestazioni sia subordinato alla condizione che le procedure sindacali si siano concluse con un accordo sindacale. La mancata attivazione della procedura sindacale ha quindi effettivamente precluso alle parti l’accesso a tali ammortizzatori.
Il danno subito dagli attori può essere quindi quantificato nell’importo di euro 84.000,00, non contestato dalla parte convenuta, per ciascuno degli attori corrispondente alla misura massima delle erogazioni cui gli stessi avrebbero avuto diritto.
Parte convenuta ha poi eccepito che a tale somma andrebbe detratto l’importo già riscosso dalle parti a titolo di indennità di preavviso. Tale eccezione deve essere disattesa non essendo stato né allegato, né provato tale importo e gravando come detto sulla parte convenuta la prova di circostanze modificative o estintive del diritto, rilevanti a titolo di aliunde perceptum.
Del resto, a differenza di quanto avvenuto per le altre categorie di lavoratori, non escluse dalla procedura sindacale preventiva all’applicazione del L. 223/1991, nessun accordo sindacale ha subordinato l’accesso al Fondo alla rinuncia all’indennità di preavviso (o alla rideterminazione della stessa), indennità dovuta per legge.
L’importo come sopra quantificato, per ciascun degli attori, trattandosi di debito di valore, va liquidato all’attualità e sono dovuti interessi legali sulla somma devalutata dal 26.10.2010 (giorno del licenziamento) e via via rivalutata sino alla data di pubblicazione della odierna sentenza.
La somma complessivamente dovuta per ciascun attore è quindi pari ad € 100.469,24. Sull’intero importo così liquidato decorrono poi gli interessi legali dalla pubblicazione del provvedimento sino al soddisfo.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, tenuto conto dei parametri di cui al dm n. 55/2014, come aggiornato dal dm n. 37/2018, e del valore della domanda in relazione al decisum (scaglione tra euro 260.000,01 ed euro 520.000,00)
P.Q.M.
definitivamente pronunciando, così provvede:
– condanna parte convenuta al pagamento in favore di ciascuno attore dell’importo di euro 100.469,24, oltre interessi legali dalla pubblicazione della presente sentenza sino al soddisfo;
– condanna parte convenuta al pagamento in favore di parte attrice delle spese del giudizio liquidate in complessivi euro 18.000,00, oltre euro 1.713,00 per spese non imponibili, spese forfettarie, Iva e cpa come per legge.
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