CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 4485 del 7 marzo 2016
TRIBUTI – ACCERTAMENTO NEI CONFRONTI DI SOCIETA’ A RISTRETTA BASE SOCIETARIA – AVVISO DI ACCERTAMENTO NEI CONFRONTI DEI SOCI – PRESUNZIONE DI DISTRIBUZIONE AI SOCI DEGLI UTILI NON CONTABILIZZATI – CONDIZIONE SOSPENSIVA – PENDENZA DELLA LITE RELATIVA ALL’AVVISO DI ACCERTAMENTO SOCIETARIO – ONERE DEL SOCIO DI PROVARE LA CONDIZIONE SOSPENSIVA
OSSERVA
La CTR di Venezia ha accolto l’appello dell’Agenzia – appello proposto contro la sentenza n. 44/2/2010 della CTP di Verona che aveva accolto il ricorso del contribuente G.F. – ed ha così convalidato l’avviso di accertamento per il recupero a tassazione ai fini IRPEF anni 2003-2004 del reddito da partecipazione nella “CO.S.E.A. srl” sul presupposto che a quest’ultima fosse stato notificato avviso di accertamento di maggiori redditi (non contabilizzati e non dichiarati) e che detti redditi dovessero presumersi distribuiti ai soci, essendo la compagine societaria a formazione ristretta e con soci tra cui intercorrevano rapporti familiari.
La predetta CTR – dopo avere dato atto che la parte contribuente aveva contestato che l’accertamento operato nei confronti della società potesse fare stato nei confronti del socio – ha ritenuto che la presunzione di distribuzione ai soci degli utili conseguiti dalla società non viola il principio del divieto di presunzione di secondo grado, essendo il fatto noto costituito non dalla sussistenza dei maggiori rediti ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e reciproco controllo, sicché “è possibile accertare in capo ai soci i maggiori redditi di capitale anche nel caso in cui detti utili fuori bilancio non siano stati definitivamente accertati in capo alla società”. La CTR ha ritenuto ancora che “parte appellata non abbia fornito elementi idonei a superare la presunzione operata” ed inoltre che non sussistesse “alcuna violazione dell’art. 41 bis del D.P.R. n. 600/1973 in quanto è evidente che l’Ufficio ha ritenuto di condividere le contestazioni sollevate nel PVC della GdF e tale circostanza non comporta alcun recepimento acritico e probatorio dei rilievi operati”.
La parte contribuente ha interposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
L’Agenzia si è difesa con controricorso.
Il ricorso – ai sensi dell’art. 380 bis cpc assegnato allo scrivente relatore – può essere definito ai sensi dell’art. 375 c.p.c. Infatti, con il primo motivo di impugnazione (improntato alla violazione degli artt. 2697 e 2727 c.c.) e con il secondo motivo di impugnazione (improntato alla violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia su eccezione) la parte ricorrente assume l’erroneità dell’argomento con il quale la Commissione di appello ha ritenuto legittimo l’accertamento nei riguardi del socio anche nell’ipotesi in cui non sia definitivo quello relativo agli utili extrabilancio della società, atteso che detto ultimo accertamento è “il presupposto stesso” di quello presuntivo operato a riguardo del socio, il cui onere di prova compete all’Agenzia. Nel difetto di certezza in ordine alla effettiva realizzazione di detti utili induttivamente accertati, la CTR non si sarebbe potuta avvalere della presunzione qui in argomento. D’altronde, per venire al secondo motivo, la CTR aveva equivocato sul fondamento (e perciò sostanzialmente omesso la pronuncia) in ordine alla eccezione, riproposta in appello con impugnazione incidentale, di nullità degli avvisi di accertamento per “insussistenza dei presupposti”, per avere l’ufficio trasferito acriticamente nell’accertamento i risultati di un PVC riguardante terzi, eccezione che aveva il suo fondamento nel fatto che il PVC riguardante la società non poteva essere assunto a presupposto della pretesa a riguardo anche del socio “essendo inidoneo a rappresentare un vero e proprio atto di accertamento, e men che meno a provare l’esistenza di un accertamento valido e definitivo nei confronti della società”. I motivi (tra loro correlati e perciò da esaminarsi congiuntamente) appaiono infondati e se ne propone il rigetto.
Da un canto, per cominciare dal secondo, non vi è alcuna evidenza che la CTR abbia equivocato sul significato dell’eccezione che si assume proposta sotto forma di appello incidentale (e peraltro inidoneamente dettagliata in questa sede, per quanto non metta conto sottolineare il difetto del requisito di autosufficienza), avendo il giudice di appello evidenziato la carenza dello stesso presupposto logico dal quale la parte contribuente muove (e cioè che si sia trattato di acritica ricezione) e non avendo la parte qui ricorrente reso intelligibile detto equivoco, finendo con il prospettare una contraddizione logica evidente, nel momento in cui allega di avere inteso dolersi del fatto che il PVC relativo alla società fosse inidoneo a provare “l’esistenza di un accertamento valido e definitivo nei confronti della società”: il PVC infatti non può costituire prova dell’esistenza di un accertamento proprio perché consiste in un atto istruttorio e -per evidenza- antecedente e preliminare rispetto all’accertamento eventualmente da adottarsi.
Peraltro, la doglianza appare ulteriormente infondata anche nella sua finalità ultima, alla luce di quanto appresso si dirà a riguardo del primo motivo. Con quest’ultimo, infatti, la parte contribuente intende dolersi del nucleo centrale del ragionamento decisorio della Commissione di appello, a mente del quale si assume legittimo l’accertamento relativo al socio anche se questo sia fondato su un accertamento a carico della società non ancora divenuto definitivo (argomento da esaminarsi qui in termini di pura astrattezza, perché né il giudice di appello né le parti hanno fornito allegazione autosufficiente in ordine alla sorte dell’avviso di accertamento concernente la società di cui qui si discute).
Sul punto, codesta Suprema Corte si è già recentemente espressa (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5581 del 19/03/2015) con pronuncia che può considerarsi precedente perfettamente attinente alla vicenda qui in esame ed alla quale lo scrivente relatore ritiene che si debba dare seguito ed alimento. Con la menzionata pronuncia la Corte ha statuito che:”In materia di imposte sui redditi, nell’ipotesi di società di capitali a ristretta base sociale è ammissibile la presunzione di distribuzione ai soci di utili extracontabili ove sussista, a carico della società medesima, un valido accertamento di utili non contabilizzati, che ricorre anche quando esso derivi dalla quantificazione dei profitti contenuta in altra sentenza, pronunziata nei confronti della società, non ancora passata in giudicato, sicché, in tale evenienza la decisione nei confronti dei soci non viola l’art. 2727 c.c., incombendo sulla parte, che ne contesti il fondamento, censurare la pronuncia per violazione dell’art. 295 cod. proc. civ. atteso il rapporto dì pregiudizialità tra i giudizi” (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5581 del 19/03/2015).
Il ragionamento adottato da codesta Corte – a riguardo dell’analoga prospettazione di parte contribuente secondo cui la presunzione di distribuzione tra i soci degli utili extracontabili di una società a ristretta base azionaria violerebbe il divieto di doppia presunzione nel caso in cui l’atto impositivo contenente l’accertamento di detti utili non sia definitivo per essere ancora pendente il termine per impugnarlo o il giudizio sull’impugnativa – muove dalla premessa che il fatto noto che sorregge la presunzione di distribuzione degli utili extracontabili non è costituito dalla sussistenza di questi ultimi, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che, in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale.
E perciò, “la sussistenza di utili extracontabili, in sostanza, costituisce il presupposto non della presunzione di distribuzione degli stessi tra i soci, ma dell’accertamento della concreta percezione di una determinata somma, da ciascun socio, in ragione della sua quota di partecipazione agli utili sociali.
Pertanto, la circostanza che l’accertamento degli utili extracontabili di una società a ristretta base azionaria sia contenuto in un atto impositivo non definitivo o in una sentenza non passata in giudicato incide non sulla operatività della presunzione di distribuzione di tali utili fra i soci, bensì sulla individuazione dell’oggetto di tale distribuzione; cosicché, in sostanza, la causa relativa all’accertamento dei redditi non dichiarati della società viene a trovarsi in rapporto di pregiudizialità con le cause relative all’accertamento di maggiori redditi da partecipazione dei singoli soci o al recupero dell’omesso versamento delle ritenute alla fonte sui dividendi derivanti ai soci dalla distribuzione dei suddetti utili extracontabili”.
Quindi, anche la pronuncia qui impugnata avrebbe potuto essere eventualmente censurata per violazione dell’art. 295 c.p.c. (siccome è ritenuto ammissibile dall’attestato orientamento interpretativo di codesta Suprema Corte: fra le molte si vedano Cass. n. 2214/11; Cass. n. 1865/12), con l’ovvia conseguenza logica che incombe sul socio che impugna l’onere di comprovare la pendenza della lite a riguardo dell’avviso di accertamento societario e perciò di fornire la prova negativa a riguardo della intervenuta definitività di quest’ultimo.
E d’altronde, l’accoglimento della tesi contraria -ove si assumesse insussistente qualsivoglia presunzione sostanziale fino al momento della definitività dell’accertamento “pregiudicante”- finirebbe finanche per precludere all’Amministrazione l’emissione dell’avviso “pregiudicato” relativo al socio, siccome farebbe difetto il presupposto stesso di quest’ultimo accertamento, conseguenza aberrante e perciò stesso inaccettabile: poiché è l’amministrazione che agisce, è quest’ultima che si avvale della presunzione ed è semmai l’impugnazione dell’accertamento “pregiudicante” che finisce per costituire condizione sospensiva (fino al passaggio in giudicato della pronuncia che lo riguarda) per la valorizzazione della presunzione medesima ai fini della decisione della lite sull’accertamento “pregiudicato”. Della esistenza e persistenza di detta condizione è perciò tenuto a farsi carico il contribuente che la invoca sotto forma di allegazione e prova nel processo scaturente dall’impugnazione del provvedimento che lo riguarda.
Non avendo la parte qui ricorrente né prospettato né comprovato l’esistenza di detta condizione sospensiva e non avendo la medesima parte ricorrente neppure valorizzato la regola della sospensione per pregiudizialità necessaria di cui all’art. 295 c.p.c., non resta che concludere per l’infondatezza dell’impugnazione nel suo complesso.
Pertanto, si ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio per manifesta fondatezza.
ritenuto inoltre:
che la relazione è stata notificata agli avvocati delle parti;
che la parte ricorrente ha depositato memoria illustrativa il cui contenuto non induce la Corte a rimeditare le ragioni sulle quali è fondata la proposta contenuta nella relazione;
che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, il ricorso va rigettato, dovendosi dare atto che nel medesimo senso si conclude in relazione, e che per solo mero lapsus calami il relatore ha concluso per la “manifesta fondatezza”;
che le spese di lite vanno regolate secondo la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente a rifondere le spese di lite di questo giudizio, liquidate in € 4.000,00 oltre spese prenotate a debito ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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