CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 17276 depositata il 8 giugno 2020
Violazioni tributarie – Operazioni inesistenti, occultamento e distruzione scritture contabili, dichiarazioni annuali omesse – Elementi probatori – Dimostrabilità
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza dell’8 marzo 2019, la Corte di appello di Bologna, per quanto in questa sede rileva, confermava la sentenza del 9 novembre 2017, con cui il Tribunale di Bologna aveva condannato N. S. alla pena di anni 2 e mesi 4 di reclusione e R. P. alla pena, condizionalmente sospesa, di anni 2 di reclusione, in quanto ritenuti colpevoli del reato di associazione a delinquere finalizzato alla commissione di una serie indeterminata di violazioni tributarie.
In particolare, secondo la prospettazione accusatoria recepita dai giudici di merito, N. S., quale legale rappresentante della società S.C.S. s.r.l. dall’8 febbraio 2007 al 30 maggio 2007, nonché della I. s.r.I., già E. p.s.c., dal 31 luglio 2006, e R. P., in veste di legale rappresentante della società S.C.S. s.r.l. dal 30 maggio 2007 al 3 novembre 2010, avvalendosi delle strutture sociali della S.C.S. e della I., di fatto controllate da S., attraverso l’interposizione fittizia della P., sua consorte, costituivano, insieme a M. N., un’associazione, di cui erano partecipi anche M.P. e L. B., dedita alla realizzazione di una pluralità indeterminata dì reati di emissione di fatture relative a operazioni inesistenti, occultamento e distruzione delle scritture contabili e dei documenti di cui era obbligatoria la conservazione, dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, nonché omessa presentazione delle dichiarazioni annuali ai fini delle imposte sui redditi e sull’Iva delle numerose società riconducibili ai soggetti coinvolti nell’associazione, costituite e utilizzate al solo fine di realizzare il disegno criminoso; fatti commessi in Bologna, Roma e nelle rispettive zone limitrofe, in un arco temporale compreso dal 10 gennaio 2006 al 31 dicembre 2010.
2. Avverso la sentenza della Corte di appello emiliana, la P. e S., tramite il loro comune difensore di fiducia, hanno proposto ricorso per cassazione, sollevando tre motivi.
Con il primo, la difesa contesta la formulazione del giudizio di colpevolezza degli imputati in ordine al reato associativo, rilevando che la sommaria ricostruzione compiuta dalla Corte territoriale dei presunti reati alla cui commissione sarebbe stata finalizzata l’associazione appariva più che altro una sintesi della sentenza di primo grado, fondandosi l’analisi della fattispecie ex art. 416 cod. pen. su una lunga serie di elementi privi di efficacia dimostrativa.
In realtà, sostiene la difesa, gli elementi acquisiti (ovvero l’intero fascicolo del Pubblico Ministero, transitato nel fascicolo per il dibattimento su accordo delle parti) non erano sufficienti a comprovare né il reato associativo, né i singoli reati scopo, che peraltro non sono stati contestati in quanto tutti prescritti.
La Corte di appello invero aveva richiamato la rapidità temporale nella emissione di talune fatture, l’elevato importo di alcune di esse e l’asserita scarsa descrittività dei contratti intercorsi tra le società, senza tuttavia indicare quali sarebbero le fatture asseritamente emesse per prestazioni inesistenti, senza individuare quali fatture sarebbero state inserite nelle dichiarazioni dei redditi indicate nel capo di imputazione e omettendo altresì di verificare l’effettivo svolgimento delle prestazioni indicate nella documentazione contrattuale.
Quanto all’ulteriore elemento utilizzato dalla Corte di appello per ritenere sussistente l’associazione per delinquere, ovvero la vicenda della distruzione della documentazione della società I. da parte di S., la difesa osserva che tale episodio non era stato considerato come un’ipotesi delittuosa nemmeno dalla Procura della Repubblica, che rispetto ad esso non ha ravvisato gli estremi per esercitare l’azione penale, sebbene non si trattasse di un reato prescritto.
In ordine poi ai ruoli degli imputati, le cui posizioni sono state affrontate in maniera unitaria, la difesa sottolinea come la Corte di appello si sia limitata a richiamare le cariche sociali ricoperte da S. e dalla P., tracciando una cronistoria delle vicende societarie, ma omettendo di indicare la posizione di entrambi all’interno del sodalizio e il contenuto dell’eventuale accordo criminoso, non essendo state altresì individuate, neppure in via presuntiva, la struttura dell’organizzazione e le modalità di esecuzione dei singoli reati.
Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano la mancanza, l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato di cui all’art. 416 cod. pen., nonché l’inosservanza degli art. 416 cod. pen., 187, 192, 530, 533 e 546 comma 1 lett. E) cod. proc. pen., evidenziando che il ragionamento probatorio compiuto dalla Corte territoriale rilevava profili di incoerenza nella illustrazione sia dei ruoli ricoperti da S. e dalla P. nel presunto sodalizio criminoso, sia della condotta concorsuale e dello sviluppo dei suoi effetti, in relazione alla produzione dell’evento antigiuridico, non essendo stato specificato nelle sentenze di merito attraverso quale forma si sarebbe manifestata una concreta partecipazione degli imputati nella fase ideativa o preparatoria del reato, in rapporto di causalità concorrente rispetto alle attività poste in essere dagli ulteriori compartecipi.
Piuttosto, nel caso di specie, la estemporaneità delle condotte dei reati scopo avrebbe dovuto indurre a ritenere configurabile una mera condotta concorsuale, svincolata dagli intenti di stabile collaborazioni tipici del vincolo associativo.
Con il terzo motivo, infine, oggetto di doglianza è la mancanza, l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta sussistenza del vincolo associativo, osservandosi che quest’ultimo non poteva ritenersi sussistente, mancando la prova di una stabile struttura organizzativa e dei singoli reati – scopo; al riguardo, evidenzia la difesa, la Corte territoriale si sarebbe limitata a disattendere le specifiche censure sollevate con l’atto di appello, richiamando in maniera acritica la sentenza di primo grado, il cui impianto argomentativo si era tuttavia rilevato contraddittorio, posto che, da un lato, il Tribunale ha ammesso l’impossibilità di accertare i reati scopo e, dall’altro, ha ritenuto un mero fumus sufficiente per fondare la penale responsabilità dei ricorrenti in ordine al delitto di associazione a delinquere.
Considerato in diritto
I ricorsi sono inammissibili perché manifestamente infondati.
1. Premesso che i tre motivi di ricorso possono essere affrontati in maniera unitaria, perché tra loro sovrapponibili, occorre evidenziare che l’affermazione della penale responsabilità degli imputati in ordine al reato associativo a loro contestato non presenta vizi di legittimità rilevabili in questa sede.
2. Deve in primo luogo rilevarsi che, a differenza di quanto sostenuto nel ricorso, la Corte territoriale non si è limitata a richiamare la motivazione della sentenza di primo grado, ma ne ha sviluppato il percorso argomentativo con autonome considerazioni critiche, confrontandosi in maniera adeguata con ciascuna delle censure sollevate negli atti di appello dei singoli imputati.
Il fatto poi che le impugnazioni di S. e della P. siano state trattate insieme è dipeso non da un approccio superficiale della Corte di appello, ma solo dalla comunanza delle rispettive posizioni, avendo agito i due imputati, coniugi conviventi, nell’ambito di una impostazione operativa sostanzialmente unitaria.
3. Tanto premesso, deve osservarsi che le due conformi sentenze di merito, le cui argomentazioni sono destinate a integrarsi reciprocamente per formare un apparato motivazionale unitario, hanno innanzitutto compiuto un’attenta disamina delle fonti dimostrative raccolte, richiamando in primo luogo l’attività investigativa del Nucleo Operativo della Guardia di Finanza di Bologna, che nel 2009 ha svolto un’attività di verifica presso la società S.C.S. S.r.l., società attiva nel capo dei servizi di vigilanza e portierato, in relazione alle dichiarazioni dei redditi presentate con riferimento ai periodi di imposta 2006 e 2007.
Dagli accertamenti svolti, confluiti nel fascicolo per il dibattimento in virtù del consenso delle parti all’acquisizione dell’intero fascicolo del Pubblico Ministero, è emerso che i ricavi incamerati dalla società negli anni 2006 e 2007 sono stati costantemente abbattuti dai costi per pagamenti effettuati nei confronti di società terze a seguito di emissione di fatture da parte di queste, determinando finanche dei crediti di imposta; in particolare, i costi sostenuti dalla società per il pagamento delle fatture analizzate dai finanzieri sono risultati pari, per il 2006, a euro 395.039 e, per il 2007, a euro 449.575. Tali fatture, tuttavia, risultavano scarsamente descrittive e riferite a contratti di fornitura di servizi redatti in maniera altrettanto generica e privi di registrazione, il che induceva la Guardia di Finanza a svolgere verifiche sulle società che avevano emesso le fatture.
Veniva così accertato lo stretto legame tra la società S.C.S. s.r.l. e la I. s.r.I., già E. p.s.c., nel senso che i trasferimenti di denaro tra le due società erano effettivi, mentre le operazioni sottese erano meramente contabili.
Del resto, le due società erano riconducibili alle medesime persone, posto che N.S., amministratore della I., era il marito di R.P., legale rappresentante della S.C.S. dal 30 maggio 2007 al 3 novembre 2010.
Il 10 ottobre 2006, inoltre, la E. cambiava denominazione in I. e trasferiva la propria sede legale a Roma, in via San G.(..), indirizzo coincidente con la sede romana di “S.C.S” e con la residenza dei coniugi S.-P., dovendosi aggiungere che S. è risultato legale rappresentante o liquidatore di altre 18 società, 9 delle quali ancora attive al momento delle verifiche di P.G., 6 di queste aventi la sede legale nel medesimo luogo (Roma, via C. n…), mentre un’altra, la N.R. s.r.I., aveva sede sempre in Roma, in via S.G. n. …, al pari della S.C.S. e dell’I..
Altri soggetti coinvolti nei rapporti societari riconducibili alla coppia S.-P. erano gli ex coniugi M. N. e L. B., avendo il primo ricoperto l’incarico di presidente del consiglio di amministrazione della E. fino al 28 febbraio 2006, avendo inoltre detenuto 1 180°/0 delle quote della S.C.S. ed essendo stato altresì legale rappresentante di altre 4 società, tra cui la M.C. s.r.l. con sede in Roma alla via S. n…; la B., invece, è stata amministratore unico della I. dal 28 febbraio al 31 luglio 2006. Altra persona coinvolta nelle relazioni riferibili a tali società è risultato essere M. P., che, delegato da N., ha operato dal conto corrénte della M.C. consistenti prelievi di denaro contante tra il dicembre 2009 e il gennaio 2010, per importi compresi tra 72.000 e 140.000 euro.
La Polizia Tributaria, nel febbraio 2010, trasmetteva inoltre diverse segnalazioni di operazione sospette che riguardavano le società di N., con altri prelievi significativi di denaro operati sempre da P., nella sua veste di delegato.
In questo scenario, i finanzieri, nell’analizzare in particolare i rapporti intercorsi tra la I. e la S.C.S., accertavano che, in un mese di tempo, tra il 28 febbraio e il 31 marzo 2006, la I. (all’epoca denominata ancora E.) emetteva nei confronti della S.C.S. quattro fatture per l’importo complessivo di 67.260 euro, consentendo alla S.C.S. di utilizzarle nelle proprie dichiarazioni dei redditi in maniera da creare poste passive fittizie e abbattere così gli utili di impresa e la conseguente tassazione, desumendosi l’inesistenza delle operazioni sottese alle fatture in esame dal dato fattuale prima richiamato, secondo cui i contratti cui le fatture facevano riferimento erano molto generici, essendo redatti in serie e senza una chiara indicazione dei costi delle prestazioni fornite dalle società incaricate, a ciò dovendosi aggiungere la circostanza che gli amministratori delle società coinvolte erano praticamente sempre gli stessi.
Ed invero, come si è già anticipato, la S.C.S. era di Proprietà per il 20% di R. P. e per il restante 80% della S.C.S. G.S., società amministrata da M.N., che però è stato anche legale rappresentante sino al 28 febbraio 2006 della E., carica in seguito ricoperta dalla moglie L.B. e poi, a partire dal 31 luglio 2006, da N. S., che era stato amministratore pure della S.C.S. fino al maggio 2007 ed era altresì il marito di R. P., legale rappresentante della S.C.S. a partire dal 30 maggio 2007.
Ora, la ricorrenza degli stessi nomi nelle cariche delle sue società, la scarsa descrittività dei contratti, l’elevato importo delle fatture emesse a breve distanza di tempo e l’assoluta antieconomicità della complessiva operazione della S.C.S. sono stati in modo non illogico ritenuti in astratto idonei a configurare i reati ex art. 2 e 8 del d. lgs. n. 74 del 2000, in ordine ai quali però non si è proceduto perché prescritti; tuttavia, l’integrazione di tali delitti è stata ritenuta un passo importante nell’ottica del giudizio sulla sussistenza della fattispecie associativa.
In tal senso è stato infatti sottolineato, in maniera pertinente, che questo modus agendi non è stato occasionale, ma si è protratto per circa tre anni, ovvero dal 2006 al 2009, anno in cui ha avuto luogo l’accertamento fiscale della P.G.
Altresì significativa è stata ritenuta la circostanza che nel settembre 2009 veniva richiesta a N.S. la documentazione relativa alla società emittente le fatture, ovvero la I., già E., ma l’imputato non forniva alcuna scrittura contabile agli inquirenti, nonostante il giro di affari della società, adducendo una spiegazione inverosimile, ovvero che la documentazione sarebbe stata accidentalmente distrutta da una società, la “Logistica Ambientale”, in circostanze fattuali rimaste imprecisate e comunque non provate, a nulla rilevando che la Procura della Repubblica non abbia esercitato l’azione penale rispetto a tale vicenda per il reato di cui all’art. 10 del d. lgs. n. 74 del 2000, trattandosi di una scelta che tuttavia non impedisce di riconoscere al fatto una valenza indiziaria rispetto alla ricostruzione del contesto generale della vicenda.
Ulteriore aspetto sintomatico di un agire illecito non estemporaneo ma collaudato nel tempo è stato ravvisato poi nell’esistenza dei legami commerciali tra la S.C.S. e le altre società riconducibili a N., che a loro volta avevano fornito apparentemente servizi alla S.C.S., essendo emerso, in particolare, che N. aveva compiuto analoghe operazioni anche nella veste di legale rappresentante delle società M.C. s.r.l. e X.C.S., società che peraltro avevano la stessa sede legale, ovvero in Roma alla via S. n…., dove tuttavia le perquisizioni eseguite nel giugno 2011 dalla P.G. non hanno riscontrato l’esistenza di sedi operative, per cui si trattava di sedi fittizie.
Queste due società non avevano presentato dichiarazioni fiscali negli anni 2009 e 2010, nonostante i consistenti movimenti di denaro avvenuti sui rispettivi conti correnti e riconducibili a un unico centro di interessi, essendo altresì significativo che gran parte dei prelievi sia stato effettuato dal rag. M. P., persona già indicata da S. come referente operativo della S.C.S. nella città di Bologna.
Dunque, una volta che, tramite S., gli imputati vennero a sapere nel 2009 della esistenza delle indagini, il meccanismo elusivo già sperimentato nei rapporti tra S.C.S. e I. veniva replicato con altre compagini societari, assumendo la M.C. s.r.l. il ruolo di emittente di false fatture, che venivano pagate con provviste di denaro confluenti sul conto della società, in gran parte provenienti dalla X.C.S., provvedendo poi P. a operare cospicui prelievi di denaro, consentendo tale modello operativo la creazione di elementi passivi fittizi da inserire nei bilanci societari per abbattere gli utili e la conseguente loro tassazione, venendo altresì evitato il pagamento di tributi su quanto incamerato dalle società che emettevano le false fatturazioni.
L’utilizzo degli schermi societari ancora agli inizi del 2011 confermava quindi la continuità di un modello comportamentale illecito che era già iniziato nel 2006.
Peraltro, nel momento in cui le indagini avevano iniziato a estendersi in maniera ancor più stringente, si verificava in tutte le società coinvolte un avvicendamento delle cariche societarie in favore di soggetti fino a quel momento sconosciuti agli inquirenti e risultati poi irreperibili: in particolare, il 3 novembre 2010, poco prima che la società cessasse la sua attività (il che avveniva il 16 dicembre 2010), a R. P. subentrava, nella carica di legale rappresentante della S.C.S. tale M.M., cui era stata pochi mesi prima, ovvero il 26 agosto 2010, attribuita la veste di legale rappresentante anche della “X.C.S.”, che parimenti cessava la propria attività il 16 dicembre 2010.
Un analogo cambio di rappresentanza riguardava un’altra società riconducibile a N.S., la E., che dal 2008 non aveva presentato la dichiarazione dei redditi, subentrando a S. nella veste di amministratore anche in questo caso il medesimo M.M., avvenendo tale mutamento il 29 settembre 2010, mentre, sempre il successivo 16 dicembre, la società cessava la propria attività.
Parallelamente, il 26 agosto 2010, la rappresentanza legale della M.C. s.r.I., avente sede peraltro al medesimo indirizzo in cui avevano sede sia la I. che la E. (nonostante la diversità dei rispetti oggetti sociali, occupandosi la E. di “servizi di centri per il benessere fisico”), passava da M.N. a H.D.M., a sua volta irreperibile, risalendo anche qui al 16 dicembre 2010 la cessazione dell’attività societaria.
Ora, questi ultimi mutamenti societari sono stati ritenuti, in maniera non certo irrazionale, come sintomatici dell’esistenza di una comune matrice ideativa, volta ad attribuire le cariche di vertice delle strutture societarie a soggetti sconosciuti e irreperibili, nell’imminenza della contestuale cessazione delle diverse società, in precedenza gestite dagli imputati secondo schemi operativi costantemente finalizzati a eludere gli obblighi tributari e a conseguire illeciti vantaggi fiscali.
Anche le perquisizioni domiciliari presso le abitazioni degli imputati hanno infine fornito elementi utili nell’ottica della rivelazione delle operazioni illegali compiute dai soggetti coinvolti, essendo stata ad esempio rinvenuta presso l’abitazione di M.N. una ricevuta bancaria datata 26 maggio 2011 e intestata alla S.C.S., relativa a un bonifico in accredito sul proprio conto, disposto per il pagamento di una fattura emessa il 28 febbraio 2011 nei confronti di “A. s.p.a.”, ciò sebbene il 16 dicembre 2010 la S.C.S. fosse formalmente cessata, senza aver presentato le dichiarazioni dei redditi per gli anni dal 2008 al 2010.
4. La correlazione logica degli elementi investigativi raccolti, peraltro non smentiti dagli imputati, rimasti legittimamente silenti nel corso del procedimento penale, è stata posta ragionevolmente a fondamento della valutazione compiuta dai giudici di merito sulla configurabilità della fattispecie associativa, essendo state valorizzate circostanze fattuali indubbiamente pregnanti, come gli avvicendamenti nelle cariche di legale rappresentanza dei medesimi soggetti, tra loro legati da stretti rapporti interpersonali, la dismissione delle cariche in favore di soggetti irreperibili in prossimità della cessazione delle società coinvolte, avvenuta lo stesso giorno; gli spostamenti e la coincidenza delle sedi societarie, in molti casi concentrate presso l’abitazione dei coniugi S.-P., che, come accertato all’esito delle perquisizioni, certo non aveva le caratteristiche per essere la sede di società impegnate in eterogenei settori di attività; il costante ricorso all’omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi delle società gestite dagli imputati; le continuative e consistenti movimentazioni di denaro contante operate materialmente dal partecipe M.P., la cui posizione è stata definita in appello con declaratoria di estinzione del reato per prescrizione; l’utilizzo reiterato degli schermi societari per emettere e avvalersi di fatture false, dal contenuto generico e comunque non giustificate da operazioni commerciali plausibili; la distruzione delle scritture contabili della I., rispetto alla quale S. ha addotto spiegazioni improbabili (parlando di una accidentale distruzione che sarebbe avvenuta in occasione della pulizia della sede condivisa con un’altra società, la E.), e ancora la significativa estensione temporale delle condotte illecite, prolungatesi dal 2006 almeno fino al dicembre 2010, anche se ulteriori elementi fattuali sono riferibili anche agli inizi del 2011.
Orbene, l’impostazione seguita nelle due conformi sentenze di merito appare immune da censure, in quanto coerente con la costante affermazione di questa Corte (cfr. ex multis Sez. 2, n. 53000 del 04/10/2016, Rv. 268540), secondo cui, ai fini della configurabilità di un’associazione per delinquere, legittimamente il giudice può dedurre i requisiti della stabilità del vincolo associativo, trascendente la commissione dei singoli reati-fine, e dell’indeterminatezza del programma criminoso, che segna la distinzione con il concorso di persone, dal susseguirsi ininterrotto, per un apprezzabile lasso di tempo, delle condotte integranti detti reati ad opera di soggetti stabilmente collegati tra loro, non risultando decisiva in senso contrario la circostanza che non siano stati contestati reati-fine, essendo ciò dipeso (rispetto ai delitti ex art. 2 e 8 del d.lgs. n. 74 del 2000) solo dal maturare dei termini di prescrizione, il cui decorso tuttavia non impedisce di ritenere quelle condotte reiterate riconducibili a un meccanismo illecito non occasionale e anzi connaturato all’esistenza di un consolidato vincolo associativo.
Allo stesso modo, il coinvolgimento di S. e della P. nella fattispecie per cui si è proceduto è stato adeguatamente motivato dai giudici di merito, che hanno rimarcato non solo il loro legame coniugale, ma soprattutto il pieno inserimento di entrambi (almeno fino alla dismissione delle cariche nella seconda parte del 2010) nelle strutture societarie utilizzate per creare poste passive fittizie e per monetizzare consistenti somme di denaro, mediante l’omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi per vari anni e l’emissione di fatture per operazioni inesistenti, che consentivano di sottrarre alla tassazione gli utili di impresa, non avendo in ogni caso gli interessati fornito alcuna ricostruzione alternativa rispetto alla valenza dimostrativa dei molteplici elementi investigativi a loro carico.
5. In definitiva, in quanto sorretto da considerazioni razionali e in ogni caso coerenti con il materiale probatorio acquisito, il percorso argomentativo delle due conformi sentenze di merito non presta il fianco alle censure difensive, prospettate invero in termini assertivi e non adeguatamente specifici.
Dunque, stante la manifesta infondatezza delle doglianze sollevate, invero in larga parte ripropositive di questioni, anche fattuali, già efficacemente affrontate dai giudici di merito, i ricorsi proposti nell’interesse di S. e della P. devono essere dichiarati inammissibili, con conseguente onere per ciascun ricorrente, ex art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento e di versare la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende, non essendovi ragione di ritenere, ai sensi della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.
Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo Presidente del Collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. a), del D.P.C.M. 8 marzo 2020.
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