CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 settembre 2020, n. 19234
Tributi – Accertamento – Società di fatto – Onere di prova del patto sociale e dei suoi elementi costitutivi – Dichiarazioni generiche delle persone coinvolte – Illegittimità
Fatti e ragioni della decisione
L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, contro C.F., impugnando la sentenza resa dalla CTR Campania, indicata in epigrafe, che ha rigettato l’appello proposto dall’Ufficio, confermando l’annullamento dell’avviso di accertamento con il quale era stata disposta la ripresa a tassazione sulla base dei maggiori redditi derivanti dalla partecipazione ad una società di fatto tra lo stesso C. e i coniugi P. – G..
Secondo la CTR, dalla lettura del p.v.c. della Guardia di Finanza, l’assunto circa l’esistenza di una società di fatto tra i coniugi P. – G. e le altre persone indicate dal P. (tra le quali il C.) si traeva esclusivamente dalle dichiarazioni del P.. Inoltre, le indagini bancarie non avevano consentito di acquisire alcun riscontro alle suddette affermazioni, in quanto il dichiarante si era limitato ad indicare quali assegni erano stati incassati dalla moglie e quali direttamente dai traenti, tra cui il C..
La parte intimata si è costituita con controricorso.
La ricorrente deduce, con il primo motivo di ricorso, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 36 del d.lgs. n. 546/1992 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. La CTR non avrebbe adeguatamente motivato la sua decisione, limitandosi a richiamare e ad aderire a precedenti pronunce di merito assunte in analoghe controversie senza dare atto dell’iter logico seguito per addivenire alle proprie conclusioni.
Con il secondo motivo si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2247 e 2967 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. La CTR non si sarebbe conformata ai principi statuiti da questa Corte, postulando che l’accertamento del vincolo societario riposi non sulla mera apparenza del vincolo, ma sulla prova della gestione societaria.
Il primo motivo è infondato.
Sul punto, è opportuno rammentare la giurisprudenza di questa Corte che ha statuito la nullità della sentenza che risulti completamente carente dell’illustrazione delle critiche mosse dall’appellante alla statuizione di primo grado e delle considerazioni che hanno indotto la commissione a disattenderle (Cass., n. 28113/2013; Cass., n. 24452/2018).
È, infatti, necessario che il “decisum” sia supportato dalla compiuta esposizione degli argomenti logici che hanno sostenuto il giudizio conclusivo, in modo da consentire la verifica “ab externo” dell’esame critico svolto dal giudice di appello sulla censura mossa dall’appellante alla sentenza impugnata (Cass., n. 10998/2017; Cass., n. 4791/2016).
Secondo le Sezioni Unite, dunque, ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (Cass., n. 9105/2017; Cass., S.U., n. 8053/2014).
Orbene nel caso di specie, il giudice d’appello ha motivato le ragioni che lo indussero a ritenere indimostrata l’esistenza di una società di fatto tra i coniugi P.-G. e le altre persone indicate dal P. (tra cui C.), la stessa ricavandosi esclusivamente dalle dichiarazioni del P. e precisando che questa sorta di “chiamata in correità” fosse a suo dire priva di qualsivoglia elemento di obiettivo riscontro. Ciò integra sicuramente il c.d. minimo costituzionale che esclude la nullità della sentenza sul piano del deficit della motivazione.
Il secondo motivo è parimenti infondato.
La giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto che l’esistenza di una società di fatto, nel rapporto fra i soci, postula la dimostrazione, eventualmente anche con prove orali o presunzioni, del patto sociale e dei suoi elementi costitutivi (fondo comune, esercizio in comune di attività economica, ripartizione dei guadagni e delle perdite, vincolo di A collaborazione in vista di detta attività) e, pertanto, non può essere desunta dalla mera esternazione della società, che è rilevante solo nel rapporto con i terzi, a tutela del loro affidamento, né da atti di per sé insufficienti ad evidenziare tutti i suddetti elementi costitutivi (Cass., n. 2500/1988; n. 1573/1984).
Orbene, il giudice d’appello, ben lungi dall’escludere che la prova del vincolo sociale potesse essere fornita a mezzo di presunzioni, ha ritenuto che l’assunto dell’esistenza di una società di fatto tra i coniugi P. – G. e le altre persone indicate dal primo non fosse stata fornita dall’ufficio finanziario, risultando le dichiarazioni delle persone coinvolte generiche ed, inoltre, osservando che le indagini bancarie non avevano consentito di acquisire alcun riscontro a dette affermazioni, in quanto il dichiarante si era limitato ad indicare quali assegni erano stati incassati dalla moglie e quali direttamente dai traenti. La conclusione alla quale è dunque pervenuta la CTR- “…Francamente non si comprende come sia possibile trarre la prova di un fatto da una sorta di “chiamata in correità” priva di qualsivoglia elemento di obiettivo riscontro.
Si è in presenza di un unico indizio insufficiente a costituire la prova di un fatto” – integrando un compiuto accertamento di fatto degli elementi forniti dall’ufficio che non può essere in questa sede posto in discussione, risulta pienamente coerente con la giurisprudenza di legittimità sopra ricordata.
Nessuna ulteriore censura è stata peraltro formulata dall’Agenzia con riguardo all’eventuale responsabilità del C. rispetto alla pretesa fiscale spiccata nei suoi confronti, sicché non può nemmeno scrutinarsi la parte della motivazione della sentenza impugnata nella quale la CTR ha escluso la valenza indiziaria degli elementi offerti dall’ufficio per giustificare l’accertamento nei confronti del C..
Sulla base di tali considerazioni, il ricorso va rigettato e confermata, quindi, la decisione impugnata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in favore del controricorrente in euro 5000,00 per compensi, oltre spese generali nella misura del 15 %.
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