CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 22 ottobre 2020, n. 23090
Tributi – Accertamento – Operazioni soggettivamente inesistenti – Elementi indiziari – Non operatività delle società fornitrici
Rilevato che
La S. S. S.r.l. ricorre, con atto notificato a mezzo del servizio postale in data 23.02.2015, avverso la sentenza indicata in epigrafe, con la quale la CTR del Lazio, Sez. Stacc. di Latina, ha respinto l’appello dalla medesima proposto contro la sentenza n.52/02/2011 della CTP di Frosinone che aveva respinto il ricorso avverso l’avviso di accertamento N.RC103T600489 notificato l’1.06.2010 dall’Agenzia delle Entrate di Frosinone per il pagamento di IRES ed IRAP risultate dovute dalla Società all’esito di rettifica della denuncia dalla medesima presentata per l’anno 2003.
La CTR ha condiviso totalmente la statuizione della CTP, della quale richiama l’argomentazione decisiva: alla stregua delle complete, accurate e documentate indagini svolte dalla G.d.F., le quattro Società che avevano emesso le fatture di vendita di macchinari ed impianti, la cui IVA la S. aveva portato in detrazione, avevano avuto significative vicende ed erano risultate prive di una benché minima struttura materiale ed organizzativa; sicché l’Agenzia aveva adeguatamente provato, mediante una molteplicità di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, la fattuale inesistenza di dette Società e, quindi, l’inesistenza soggettiva delle operazioni di vendita. Inoltre la CTR ha esaminato i singoli elementi indiziari ritenuti particolarmente rilevanti al fine di ricavare l’insussistenza in capo all’accertata dell’incolpevole ignoranza circa la non operatività delle singole Società fornitrici delle varie prestazioni oggetto di ripresa fiscale, non esclusa la sentenza penale non definitiva con la quale il Tribunale di Frosinone aveva condannato G. P., legale rapp.te all’epoca della Società, per il delitto di utilizzo di fatture relative ad operazioni inesistenti.
Il ricorso è articolato in quattro motivi.
L’Agenzia si è costituita notificando controricorso.
All’esito della camera di consiglio del 13 dicembre 2019 la Corte ha deciso.
Ragioni della decisione
Dopo aver ripercorso le fasi salienti della fase di accertamento e processuale (pagg.7-15), la Società ricorrente denuncia, nel primo motivo, violazione del combinato disposto degli artt. 43 DPR n.600/1973 e 57 DPR n.633 del 1972 sulla prescrizione e/o decadenza dall’azione accertativa ed omessa pronuncia sul punto, ex art.360 co.1 nn.3-4 c.p.c.: premesso che l’accertamento era stato notificato a ben 8 anni di distanza dal periodo oggetto di rettifica, sarebbe infondata l’applicazione invocata dall’Agenzia del disposto dell’art.43 co.3 (nella versione all’epoca vigente) circa il raddoppio dei termini in ipotesi di violazioni che comportano l’obbligo della denuncia penale; ciò in quanto la ricorrente aveva presentato tempestiva domanda di condono tombale ai sensi dell’art.10 co.9 L. n.289/2003; la normativa che prevedeva il raddoppio dei termini di decadenza era stata introdotta con l’art.37 co.24-27 D.L. n.223/2006, ma la notitia criminis non era intervenuta prima del decorso del termine ordinario di decadenza, spirato il 31.12.2007, ed il reato tributario sarebbe stato già prescritto al momento della notifica dell’accertamento; infine perché la legge che aveva introdotto il menzionato raddoppio dei termini non potrebbe applicarsi retroattivamente.
Con il secondo motivo viene dedotta violazione, ai sensi dell’art.360 co.1 nn.4 e 5 c.p.c., degli artt.99 e 112 c.p.c., per avere la CTR violato la normativa sulla prescrizione e/o decadenza dall’azione accertativa mediante omissione di pronuncia sul punto: nonostante la CTP non avesse espresso motivazione alcuna sullo specifico motivo d’impugnazione dell’avviso di accertamento ed in proposito fosse stato proposto specifico motivo di doglianza in appello, anche la CTR aveva omesso di esprimersi sul punto.
Con il terzo motivo la S. S. s.r.l. lamenta svariate ipotesi di violazione e falsa applicazione ex art.360 co.1 n.3 c.p.c.: degli artt.17 e 19 e 54 D.P.R. n.633 del 1972 e dell’art.14 co.4bis Legge n.537/1993 (come modificato dal D.L. n.16/2012) ed omessa analisi di prove rilevanti ai sensi dell’art.360 co.1 n.5 c.p.c., circa l’accertata esistenza oggettiva delle operazioni documentate dalle fatture passive portate in detrazione; in particolare deduce l’omesso esame e l’assenza totale, nella motivazione di secondo grado, di riferimento a specifici documenti relativi a fatti decisivi già evidenziati e documentate in entrambi i gradi di giudizio e con molteplici motivi di appello (esistenza delle società fornitrici, esistenza dello stabilimento, esistenza dei beni forniti), dai quali la CTR avrebbe dovuto evincere la concreta operatività di ciascuna delle Società ritenute cartiere e, quindi, la sussistenza anche soggettiva delle operazioni di fornitura, la cui IVA passiva era stata detratta; violazione dei principi in tema di detraibilità ai fini IRPEG ed IRAP dei costi relativi ad operazioni solo soggettivamente inesistenti, concorrendone gli altri presupposti; violazione del principio dell’affidamento e della buona fede dell’accertata ai sensi dell’art.10 Legge n.212/2000 e della VI Dir. CEE: in presenza di elementi attestanti che la S. aveva ricevuto le rispettive prestazioni in buona fede e nella inconsapevolezza di meccanismi fraudolenti posti in essere dai fornitori, la CTR avrebbe dovuto applicare i principi giuridici nazionali e comunitari (invocando giurisprudenza della Corte di Giustizia UE e di questa Corte) che escludono l’indetraibilità dell’IVA effettivamente corrisposta per operazioni soggettivamente inesistenti (ed a fortiori escludono l’indeducibilità dei costi ai fini IRES ed IRAP), qualora il destinatario delle stesse fosse inconsapevole, ovvero non potesse essere consapevole con l’ordinaria diligenza, di frodi compiute dai fornitori medesimi.
Con il quarto ed ultimo motivo la S. S. s.r.l. lamenta nullità della sentenza o violazione, ai sensi dell’art.360 co.1 n.3 c.p.c. dell’art.27 co.2 Cost. e dell’art.6 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ed omesso esame, per aver tenuto conto di pronunce penali non definitive, violando la relativa presunzione di non colpevolezza; ai sensi dell’art.360 co.1 nn.3-4-5 c.p.c. non aver esaminato la documentazione prodotta in giudizio a confutazione dell’avversa allegazione sulla circostanza che legale rapp.te nell’esercizio 2004 era stata R.B., la quale era stata prosciolta nel giudizio penale innanzi al Tribunale di Frosinone per intervenuta prescrizione, mentre il P., era stato assolto con altra pronuncia perché il fatto non sussiste.
L’Agenzia delle Entrate eccepisce l’inammissibilità del primo complesso motivo, siccome contenente un cumulo di censure riconducibili a diverse tipologie di motivi di ricorso, e comunque la sua infondatezza in tutte le diverse prospettazioni; eccepisce ancora l’inammissibilità e comunque l’infondatezza del quarto motivo di ricorso, prima in via generale, quindi partitamente in relazione ad ogni singola doglianza ricompresa nell’unica complessa censura, sia per il cumulo di doglianze di tipologia diversa, sia perché presuppongono un dato fattuale controverso, e cioè l’effettivo sostenimento dei costi e la stessa esistenza dei macchinari oggetto di ammortamento. Inoltre rileva diversi profili d’inammissibilità delle ulteriori censure ed errore interpretativo dell’art.8 co.1 e 3 D.L. n.16/2012, che consente la deducibilità di costi sostenuti a fronte di operazioni soggettivamente inesistenti purché non siano intervenuti determinati provvedimenti di esercizio dell’azione penale per delitti non colposi, come in realtà è stato provato essere avvenuto nel caso di specie; impropria richiamo all’art.10 Legge n.212/2000 e della VI Dir. CEE in tema di IVA. Infine eccepisce l’inammissibiità del terzo motivo per carenza di autosufficienza; quella del quinto per commistione di tipologie di censure diverse e/o incompatibili e per carenza di interesse processuale per essere il fatto oggetto di censura di non esclusivo rilievo nel supportare la ratio decidendi.
Tutti i motivi sono inammissibili e/o infondati.
Il primo motivo, come in premessa riassunto, è inammissibile per la solo enunciata, ma di fatto non articolata, censura di omessa pronuncia, siccome totalmente carente delle allegazioni e richiami minimi ai fini del requisito dell’autosufficienza; nella restante parte è certamente privo di fondamento. Infatti nella sua articolazione sono contenute non già violazioni eterogenee ed inammissibili in quanto riconducibili a più delle diverse ipotesi di ricorso dell’art.360 c.p.c. (salvo quanto sopra cennato), bensì denunce di più violazioni o false applicazioni di normative, delle quali la ricorrente prospetta una non condivisibile connessione logico-giuridica.
Tale prospettazione si fonda, invero, su due erronei presupposti giuridici, entrambi evidenziati dalla difesa erariale: il primo consiste nell’assunta, ma insussistente, generale portata retroattiva della Legge n.23/2014 (poi attuata con l’art.1 co.131 Legge 28.12.2015 n.128 a decorrere dal 1.1.2016), nella parte in cui prevedeva l’abrogazione del co.3 art.43 DPR n.600/1973 contenente la disciplina delle ipotesi di raddoppio dei termini ordinari di decadenza dell’azione accertativa: in effetti l’art.1 co.132 della medesima Legge n.128/2015, in attuazione della specifica delega attribuita dall’art.8 co.2 Legge 11.03.2014 n.23, ha previsto che la nuova normativa si applicasse “agli avvisi relativi al periodo d’imposta in corso alla data del 31.12.2016 e ai periodi successivi. …omissis… Tuttavia in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art.331 c.p.p. per alcuno dei reati previsti dal D. Lgs. 10.03.2000 n.74 il raddoppio non opera qualora la denuncia da parte dell’Amm.ne Finanziaria sia presentata o trasmessa oltre la scadenza ordinaria dei termini...”; ma la stessa Legge di delega prevedeva comunque la salvezza de “gli effetti degli atti di controllo già notificati alla data di entrata in vigore dei decreti legislativi”; così come il co.3 art.2 D. Lgs. n.128/2015 ha previsto che “Sono comunque fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni amministrative tributarie e degli altri atti impugnabili con i quali l’Agenzia delle entrate fa valere una pretesa impositiva o sanzionatoria, notificati alla data di entrata in vigore del presente decreto”. In tali sensi questa Sezione ha già ripetutamente espresso il proprio orientamento (Cass. sez.V 9.08.2016 n.16728; Cass. sez.V 16.12.2016 n.26037; Cass. sez.VI-V ord. 14.05.2018 n.11620), né il ricorso contiene argomentazioni che possano indurre ad una rimeditazione della questione.
Il secondo errore consiste nell’erronea individuazione dell’efficacia dell’avvenuta presentazione, da parte della S. S. s.r.l., dell’istanza di adesione al condono tombale ex art.9 Legge n.289 del 2002. Invero l’istanza e la connessa dichiarazione integrativa, incidendo sulla sola determinazione del debito d’imposta in essa dichiarato quale base per il pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione, e definendo quindi il residuo debito del contribuente, non preclude gli accertamenti dell’Amm.ne Finanziaria diretti a verificare l’effettiva sussistenza delle operazioni dalle quali scaturirebbe il credito vantato dal contribuente medesimo, ovvero finalizzati a verificare l’esistenza dei presupposti di operatività del credito d’imposta e della sua corretta realizzazione, in quanto il condono elide, totalmente o parzialmente, il debito d’imposta del contribuente, ma non cristallizza il credito d’imposta eventualmente vantato dal contribuente (cfr. Cass. sez.V 4.11.2016 n.22436; Cass. sez.V 3.08.2016 n.16157; Cass. sez.V 5.02.2014 n.2597; Cass. 12.01.2009 n.375).
Quanto al secondo motivo deve rilevarsi che lo stesso è articolato senza alcuna indicazione, richiesta ai sensi dell’art.366 n.6 c.p.c., circa le modalità, i tempi e gli atti nei quali l’eccezione di prescrizione e/o decadenza sarebbe stata proposta nei gradi di merito, e, al fine dell’accertamento della decisività del fatto medesimo, circa il computo dei termini in virtù dei quali sarebbe maturata la prescrizione, con conseguente difetto del requisito dell’autosufficienza (Cass. sez.V ord. 15.01.2019 n.777; Cass. sez.V 23.11.2015 n.23575; Cass. sez.0 7.04.2014 n.8053 puntualmente sul caso di deduzione del vizio di omesso esame, così come effettivamente articolato dalla ricorrente prescindendo dalla sua rubricazione; Cass. sez.III 23.03.2010 n.6937; Cass. sez.III ord. 12.12.2008 n.29279). Nel caso di specie tale carenza assume ancor più radicale essenzialità in quanto l’Agenzia controricorrente ha contestato che l’eccezione fosse mai stata formulata prima, né con il ricorso introduttivo, né in fase d’appello.
Né tale carenza potrebbe essere colmata dall’erronea allegazione del brano del ricorso introduttivo di primo grado riportato a pag.10 del ricorso in esame: infatti laddove la Società ricorrente, dopo aver affermato che l’Agenzia si era avvalsa del potere di procedere ad accertamento entro un termine doppio rispetto a quelli di prescrizione ordinaria, si era limitata ad eccepire che alla medesima Agenzia “era preclusa, per legge, qualsiasi attività accertativa in quanto la S. S. srl aveva aderito al condono tombale del 2002”; soltanto nel ricorso d’appello (passo riportato a pag.11 dell’odierno ricorso), ribadendo l’eccezione su riportata, inseriva il rilievo per il quale “per l’esercizio 2002 erano, peraltro, maturate sia la decadenza, sia la prescrizione”. E’ quindi evidente che, alla stregua del disposto dell’art.57 co.2 D. Lgs. n.546 del 1992, le eccezioni di decadenza o di prescrizione proposte soltanto in grado di appello e senza alcuna individuazione del momento in cui la prescrizione sarebbe maturata, siccome non rilevabili d’ufficio, sono inammissibili e non possono costituire fondamento di doglianze in questa fase di legittimità. Il terzo motivo, anche potendo essere considerato ammissibile nel suo complesso, non lo è in nessuna delle svariate articolazioni che lo compongono.
Invero a dispetto dell’unitaria considerazione, la stessa concezione del ricorso consente di individuare due autonomi nuclei critici che investono il medesimo capo della pronuncia impugnata, e che pertanto meritano di essere autonomamente esaminati.
Il primo, illustrato sub 2.1, è inammissibile per l’evidente commistione tra una censura per violazione di norme di diritto ed un’altra per difetto di motivazione, delle quali la seconda costituisce il presupposto logico della prima; e tuttavia la censura motivazionale è articolata a sua volta inammissibilmente, poiché non deduce l’omesso esame di fatti, bensì per un verso “l’iter logico-argomentativo che sorregge la decisione – che non risulta né congruo né chiaramente individuabile”, ed il “mancato esame delle prove e delle circostanze di fatto mai valutate dal Giudice del merito”; nonché, per altro verso, la mancanza di “richiamo alle produzioni probatorie della ricorrente da parte del Giudice d’appello (ma neppure di quello di primo grado)” che ancora una volta impedirebbe di ricostruire il processo logico-giuridico di formazione del convincimento dei Giudici. In entrambe le prospettazioni il motivo è privo di qualsivoglia riferimento non solo a fonti di prova e fatti specifici la cui omessa valutazione si imputa alla CTR, bensì anche alle conseguenti inferenze logiche che ne comporterebbero la decisività; e comunque, in assenza di qualsivoglia indicazione di fatti pretermessi nella valutazione giudiziale, chiede di introdurre nella ri-valutazione del fatto fonti di prova pretermesse, in contrasto con l’insegnamento di Cass. SU 7.04.2014 n.8053, successivamente ripresa, tra le altre, da Cass. sez.II ord. 29.10.2018 n.27415, nella quale è ulteriormente precisato che “l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie“. Laddove invece la Società ricorrente si duole, ai sensi dell’art.115 e 116 c.p.c., dell’erronea valutazione di non meglio individuati elementi di prova, di fatto propone una censura attinente all’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito integra un vizio denunciabile ai sensi dell’art. 360 n. 5, c.p.c., soltanto nei limiti in cui tale censura è proponibile in seguito alla riforma legislativa introdotta dall’art. 54 del d.l. n.83 del 2012, conv. in legge n.134 del 2012.
A ciò deve aggiungersi come ulteriore profilo di inammissibilità che, in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione o di falsa applicazione degli art.115 e 116 c.p.c.. non può consistere nell’erronea valutazione del materiale istruttorio da parte del giudice di merito, ma, soltanto nell’allegazione che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. n.27000/2016); allegazione del tutto assente nel motivo in esame. Le ulteriori doglianze di violazione di legge costituenti il secondo nucleo di censure sono parimenti inammissibili per ragioni diverse: quella sub 2.2, afferente la pretesa deducibilità dei costi, è assolutamente privo di sufficiente specificità, in quanto priva di concreti riferimenti alle singole operazioni alle quali si riferiscono i costi di cui si assume la deducibilità, né sotto quale profilo sarebbe ravvisabile la dedotta violazione di legge; quella sub 2.3 in quanto, avendo la CTR ritenuto l’inesistenza delle operazioni oggetto di ripresa a tassazione sulla scorta di precisi elementi indiziari ritenuti gravi precisi e concordanti, il motivo si sostanzia nella pretesa di una diversa rivalutazione di detti elementi di prova o di quelli di segno diverso (peraltro neppure analiticamente indicati) dedotti dalla stessa ricorrente; infine quello sub 2.4 appare inammissibile sia in quanto contiene una serie di censure relative a violazione di legge varie, senza illustrarne la rispettiva rilevanza, sia e soprattutto in ragione della circostanza che la sentenza impugnata contiene un preciso apprezzamento circa l’insussistenza della buona fede della ricorrente rispetto agli obblighi di diligenza nella scelta del fornitore e di accertamento dei suoi requisiti di effettiva operatività e di efficienza operativa necessarie al soddisfacimento delle obbligazioni contrattuali; sicché, non avendo la ricorrente censurato la sentenza sotto il profilo della completezza dell’esame di tale fatto, non appare configurabile alcun vizio di violazione dell’art.10 Legge n.212/2000 (norma del tutto inconferente alla buona fede di cui trattasi), né della normativa in tema di detraibilità dell’IVA, dedotta in modo assolutamente generico. Anche l’ultimo motivo è inammissibile in entrambe le critiche che lo compongono: in merito alla pretesa violazione da parte della CTR del principio della presunzione di non colpevolezza, va precisato che tale principio è applicabile esclusivamente in ambito penale, laddove nelle altre branche del diritto, come in quello tributario, possono legittimamente operare presunzioni, di diversa rigidità, al fine di accertare la responsabilità del soggetto accertato; e comunque la CTR ha fatto riferimento alla pronuncia penale di condanna, ancorché non definitiva, semplicemente al fine di trarne elementi di conferma dell’efficacia del corposo compendio presuntivo descritto in precedenza, e non già quale provvedimento contenente accertamenti in fatto irrevocabili e vincolanti nel giudizio tributario.
Quanto alla seconda parte del motivo la censura, oltre a fondarsi ancora una volta su documenti (sentenza penale n.645/2011 del Tribunale di Frosinone) dei quali non sono indicati momento e modalità di produzione nel giudizio di merito, esso non centra la reale ratio decidendi, rispetto alla quale gli elementi presuntivi derivanti dalla pronuncia del Tribunale Penale di Frosinone sono stati esaminati nel contesto di altri elementi fattuali, preponderanti numericamente e per incidenza presuntiva; tali carenze determinano quindi in capo alla ricorrente, il difetto d’interesse a proporre la censura (Cass. sez.I 10.04.2018 n.8755; Cass. sez.VI-V ord. 19.04.2017 n.9752), ovvero, una volta respinte le censure concernenti questi ultimi, l’assorbimento del motivo (Cass. sez.III 24.05.2006 n.12372; Cass. sez.I 18.05.2005 n.10420).
Il ricorso deve quindi essere rigettato, con la conseguente condanna della Società ricorrente al rimborso in favore dell’Agenzia controricorrente delle spese di questo giudizio, liquidate come da dispositivo.
Va dato atto altresì che sussistono le condizioni processuali per determinare, a carico della ricorrente soccombente, l’obbligo di versamento del contributo unificato in misura doppia rispetto a quella già versata con l’iscrizione a ruolo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la Società ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio all’Agenzia controricorrente, liquidate nell’importo complessivo di €.10.000,00=, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art.13 co.1 quater d.P.R. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale ex co.1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
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