CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 22 ottobre 2020, n. 23155
Licenziamento per superamento del periodo di comporto – Reintegro del dipendente nelle mansioni svolte – Mancata applicazione della c.d. equità integrativa e del comporto per sommatoria – Canoni legali di ermeneutica contrattuale – Interpretazione delle clausole di un contratto collettivo – Senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto – Rilievo verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale
Rilevato che
con sentenza del 23/8/2018, la Corte d’appello di Catanzaro, in parziale riforma della decisione di primo grado ed in parziale accoglimento dell’appello, ha dichiarato l’illegittimità ed annullato il licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato a F.M. da C.D. s.r.l., con lettera del 30.04.2008, ordinando alla società di reintegrare il dipendente nel posto di lavoro e nelle mansioni svolte al momento del licenziamento e condannando la Commerciale G. S.p.A. in quanto acquirente per fusione al risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate;
in particolare, la Corte territoriale ha ritenuto non corretta l’interpretazione del primo giudice della normativa contrattuale in tema di determinazione del periodo di comporto;
per la cassazione della sentenza propone ricorso la G. S.p.A., affidandolo a due motivi;
resiste, con controricorso, F.M..
Considerato che
con il primo motivo proposto, la difesa di parte ricorrente deduce, sotto il profilo dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la violazione degli artt. 1362 e segg. cod. civ. in relazione all’art. 175 del CCNL per i dipendenti delle aziende del settore terziario con riferimento al computo del periodo di comporto;
con il secondo motivo si deduce, sempre in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 2110 cod. civ. con riguardo all’art. 175 CCNL con riguardo alla mancata applicazione della c.d. equità integrativa e del comporto per sommatoria;
entrambi i profili, da esaminarsi congiuntamente per l’intima connessione, sono infondati;
va premesso che l’interpretazione delle clausole di un contratto costituisce, di norma, operazione riservata al giudice di merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità solo ex art. 360 n. 5 c.p.c. ovvero, ex art. 360 n. 3 c.p.c., in riferimento ai canoni legali di ermeneutica contrattuale, a condizione, tuttavia, che i motivi di ricorso non si limitino a contrapporre una diversa interpretazione rispetto a quella del provvedimento gravato (giurisprudenza costante: cfr., ex multis, in tal senso Cass. n. 5288/2018; Cass. n. 21888 del 2016);
più in particolare, questa Corte ha precisato che, fermo restando che, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo dev’essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale (cfr., ex coeteris, Cass. n. 4670 del 2009), la violazione del principio di interpretazione complessiva delle clausole contrattuali si configura soltanto nell’ipotesi della loro omessa disamina, ovvero quando il giudice utilizzi esclusivamente frammenti letterali della clausola da interpretare e ne fissi definitivamente il significato sulla base della sola lettura di questi, per poi esaminare ex post le altre clausole, onde ricondurle ad armonia con il senso dato aprioristicamente alla parte letterale, oppure espungerle ove con esso risultino inconciliabili (sul punto, Cass. n. 9755 del 2011);
nel caso di specie, la Corte d’appello ha offerto una lettura del combinato disposto degli artt. 175 e 177 nonché della dichiarazione a verbale in calce al predetto art. 177, del CCNL 17 luglio 2008 per i dipendenti delle aziende del settore terziario, in base alla quale ogni periodo di comporto ha durata di 180 giorni, talché, qualora all’infortunio succeda, come pacificamente avvenuto nel caso di specie, persino ove senza soluzione di continuità, un periodo di assenza per malattia, inizia a decorrere, dal momento dell’insorgenza della malattia, un distinto termine di 180 giorni solo alla cui scadenza può procedersi a licenziamento per superamento del periodo di comporto (si veda, al riguardo, Cass. n. 26005 del 2015);
tale lettura non appare in alcun modo espressa in violazione delle regole di ermeneutica contrattuale ed anzi valorizza la lettera del contratto nell’interpretazione delle clausole le une per mezzo delle altre;
giova evidenziare, a questo punto, che, essendo rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito l’interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune, appunto censurabile in cassazione solo per vizi di motivazione e violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale, eventuali pronunce emesse dal giudice di legittimità, ancorché in relazione ad identiche pretese sostanziali, non costituiscono “precedenti” in senso tecnico della giurisprudenza della Corte, in quanto il controllo di ciascuna di esse è delimitato dalle ragioni che sorreggono la statuizione impugnata, in relazione alla “causa petendi” prospettata nei giudizi di merito ed ai motivi di ricorso (cfr. la già richiamata Cass. n. 5288 del 2018);
nondimeno, va sottolineato che infruttuoso per le ragioni prospettate da parte ricorrente appare il richiamo a Cass. 26498 del 2018;
tale ultima pronuncia, infatti, deve ritenersi perfettamente in linea con quella adottata dal giudice di merito là dove, richiamando la già mentovata Cass. n. 26005 del 2015, ribadisce come questa Corte abbia chiarito, proprio in relazione al c.c.n.I. del settore terziario, come l’art. 175 c.c.n.I. preveda che il lavoratore durante la malattia abbia diritto alla conservazione del posto di lavoro per un periodo massimo di 180 giorni in un anno solare, trascorso il quale, perdurando la malattia, il datore di lavoro potrà procede al licenziamento;
ha aggiunto che l’art. 177 dello stesso c.c.n.l. prevede a sua volta, con riferimento all’ipotesi di infortunio, che per la conservazione del posto di lavoro valgono le stesse norme di cui all’art. 175 ma precisando che la dichiarazione a verbale che segue l’art. 177 c.c.n.l. citato statuisce che i periodi di comporto per malattia e per infortunio agli effetti del raggiungimento del termine massimo di conservazione del posto di lavoro sono distinti e hanno la durata di centottanta giorni cadauno; alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi, il ricorso deve essere respinto; le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo;
sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte deliri corrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dell’articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
Respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore del procuratore della parte controricorrente, dichiaratosi antistatario, delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 5250,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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