CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 36924 depositata il 22 dicembre 2020
Reati tributari – Omessa presentazione dichiarazione IVA – Società cooperativa – Responsabilità del legale rappresentante – Sequestro finalizzato alla confisca per equivalente
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 21/3/2019, la Corte di appello di Ancona, in parziale riforma della pronuncia emessa il 25/9/2017 dal Tribunale di Pesaro, disponeva a carico di F.M. la confisca per equivalente di beni e somme nella sua disponibilità, fino alla concorrenza di 74.051,00 euro; confermava, nel resto, la precedente pronuncia, con la quale l’imputato era stato giudicato colpevole del delitto di cui all’art. 5, d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74, quale legale rappresentante della “E.T. Società Cooperativa”, e condannato alla pena di nove mesi di reclusione.
2. Propone ricorso per cassazione il M., a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
– mancanza e manifesta illogicità della motivazione; violazione degli artt. 192, commi 1 e 2, 546, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., 13, comma 2, d. lgs. n. 74 del 2000. La Corte di appello avrebbe condannato il ricorrente per un’omissione a lui non imputabile: l’avviso bonario dell’Agenzia delle Entrate, infatti, sarebbe stato notificato nel settembre 2014, ossia successivamente al fallimento della società, dichiarato nel marzo dello stesso anno.
Ne consegue che, da quel momento, il M. non avrebbe più avuto la disponibilità della documentazione contabile, e non avrebbe potuto più adempiere all’obbligo dichiarativo, ormai in capo al solo curatore fallimentare. Quanto precede, inoltre, ben avrebbe consentito di applicare la causa di non punibilità di cui all’art. 13, comma 2, d. lgs. n. 74 del 2000, attesane la ratio per come individuata dal legislatore;
– mancanza o insufficienza di prova in punto di responsabilità. L’accertamento induttivo dell’imposta evasa non sarebbe stato corretto, mancando riscontri per l’intero anno interessato (2012); l’istruttoria, infatti, avrebbe confermato la presenza di mastrini per soli 11 mesi dello stesso anno, e la documentazione relativa all’ultimo mese – non conosciuta, né acquisita – ben avrebbe potuto avere portata decisiva quanto al raggiungimento della soglia di punibilità indicata dall’art. 5 in contestazione. Accertamento che, pertanto, non potrebbe definirsi avvenuto in modo integrale, con conseguente vizio della sentenza;
– erronea o illogica motivazione con riguardo alla disposta confisca per equivalente. La misura ablativa sarebbe stata applicata sui beni personali del M. senza una previa verifica di una possibile confisca diretta nei confronti della società.
Considerato in diritto
3. Il ricorso risulta manifestamente infondato.
4. Con la prima doglianza, il ricorrente evidenzia un rapporto che correrebbe tra la dichiarazione di fallimento della società (marzo 2014) e l’avviso bonario a lui inviato dall’Agenzia delle Entrate (settembre 2014), così concludendo che la prima lo avrebbe spogliato di ogni potere, oltre che della documentazione contabile, e che avrebbe imposto ogni obbligo dichiarativo al solo curatore fallimentare. Ebbene, questo argomento trascura un dato invero decisivo, ossia che – a prescindere da ogni accertamento di natura amministrativa – la scadenza di legge entro la quale la dichiarazione IVA avrebbe dovuto esser presentata era il 30/9/2013, ossia una data ben precedente alla dichiarazione di fallimento; dal che, la riferibilità dell’obbligo in esame al solo legale rappresentante dell’ente alla scadenza stessa, ossia all’imputato M.
5. In ordine, poi, alla possibile applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 13, comma 2, d. lgs. n. 74 del 2000, ne appare evidente la piena infondatezza. Premesso che non si comprende quale nesso opererebbe tra l’istituto in oggetto e l’avvenuta dichiarazione di fallimento della società prima dell’invio del citato avviso bonario, basti comunque qui sottolineare che la norma esclude la punibilità per il delitto ex art. 5 solo in presenza di un rigoroso e complesso presupposto, che il ricorso neppure accenna esser stato adempiuto: ossia, l’integrale pagamento del dovuto (comprese sanzioni ed interessi) a seguito della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali.
6. Alle medesime conclusioni, di seguito, la Corte perviene anche in ordine alla seconda censura, concernente la prova del raggiungimento della soglia di punibilità indicata nell’art. 5 in rubrica.
La doglianza, infatti, non contesta in sé l’utilizzo del metodo induttivo (che, peraltro, la sentenza accompagna all’esame di registri, prospetti e scritture provenienti proprio dalla società interessata), ma il fatto che l’accertamento avrebbe avuto ad oggetto soltanto 11 dei 12 mesi del 2012, difettando per l’ultimo la necessaria documentazione. Trattasi, tuttavia, di una questione manifestamente infondata, per palese irrilevanza: se, infatti, la soglia di punibilità era stata pacificamente raggiunta già con l’esame analitico delle prime undici mensilità, l’eventuale omessa valutazione della documentazione relativa all’ultima non avrebbe potuto in alcun modo alterare tale conclusione. Quel che, peraltro, ben emerge anche dalla lettera del motivo in esame, nel quale – con argomento del tutto ipotetico e generico – si afferma che il mastrino del dodicesimo mese, se acquisito, “avrebbe potuto cambiare completamente il conto finale dell’Iva da versare”, senza ulteriori chiarimenti o specificazioni.
7. Da ultima, la censura in punto di confisca, del pari manifestamente infondata.
Al riguardo, basti osservare che, in materia di reati tributari, la confisca, anche per equivalente, dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo di uno dei delitti previsti dal d. lgs. n. 74 del 2000 deve essere sempre disposta nel caso di condanna o di sentenza di applicazione concordata della pena, stante l’identità della lettera e la piena continuità normativa tra la disposizione di cui all’art. 12- bis, comma secondo, del predetto decreto (introdotta dal d. lgs. 24 settembre 2015, n. 158), e la previgente fattispecie prevista dall’art. 322-ter cod. pen., richiamato dall’art. 1, comma 143, I. 24 dicembre 2007, n. 244, abrogata dall’art. 14 del citato d. lgs. n. 158 del 2015 (per tutte, Sez. 3, n. 50338 del 22/9/2016, Lombardo, Rv. 268386). A ciò si aggiunga, peraltro, che il ricorso neppure deduce che la società sarebbe titolare di beni sui quali apporre il vincolo, quel che non risulta affatto dalla sentenza impugnata, anche alla luce dell’intervenuta dichiarazione di fallimento.
8. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
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