CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 marzo 2021, n. 7301
Tributi – Accertamento – Utilizzo di fatture per operazioni inesistenti – Componenti positivi direttamente afferenti alle spese fittizie – Esclusione dalla formazione del reddito oggetto di rettifica, nei limiti delle spese non ammesse in deduzione – Sanzioni – Cumulo giuridico
Svolgimento del processo
A seguito di p.v.c del 7 aprile 2009, l’Agenzia delle Entrate notificò in data 26.5.2011 alla contribuente E. Holding srl, già G.S.C.S. spa, l’avviso di accertamento n.T9B0813C01703/2011, con il quale venne contestata l’indebita deduzione di costi a fini lres, relativa all’anno 2006, nonché l’avviso di accertamento n.T9B08DC01716/2011, con il quale venne contestata l’indebita deduzione di costi a fini Irap e l’illegittima detrazione di Iva in relazione alla stessa annualità di imposta. La verifica fiscale e le conseguenti riprese a tassazione scaturivano da indagini di p.g. condotte nei confronti del gruppo societario “G.”, all’esito delle quali era emersa un’associazione a delinquere dedita alla realizzazione di una frode fiscale (c.d. “carosello”), consistente nell’emissione ed utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, aventi ad oggetto la commercializzazione di licenze relative ad un database, dirette alla costante costituzione di un credito Iva. Secondo quanto risultato dalle indagini, la frode veniva realizzata tramite società cartiere, che vendevano le licenze fittizie a distributori italiani, i quali agivano come società filtro e che a loro volta le rivendevano a società estere; tali società ne determinavano, infine, il ritorno nella disponibilità di una delle società del gruppo G..
La CTP di Milano, con due sentenze n. 219 e n. 220 del 2012 accolse i due ricorsi della contribuente, ritenendo fondata l’eccezione preliminare di difetto di motivazione dell’avviso di accertamento. La CTR della Lombardia, in accoglimento degli appelli dell’ufficio, disattesa l’eccezione di nullità per difetto di motivazione, con le sentenze n. 4653 e 4655 del 2014 confermò invece la legittimità dell’avviso di accertamento e la fondatezza, nel merito, di tutti rilievi ivi contenuti. Il giudice di secondo grado, in particolare, sull’eccezione relativa alla mancanza di una specifica motivazione, nell’avviso di accertamento, in ordine alle osservazioni rese dalla contribuente dopo la notifica del p.v.c., affermò che l’art. 12 comma 7 L. 212/00 non solo non prevedeva la sanzione della nullità, ma neppure che la valutazione delle deduzioni e osservazioni debba essere oggetto di motivazione, e riteneva che detta sanzione non potesse farsi derivare dal sistema tributario, in assenza di specifica previsione normativa. Rilevò altresí, nel merito, che era stata raggiunta la prova sia del carattere fittizio delle operazioni, che della consapevolezza ed attiva partecipazione al sistema di frode fiscale della contribuente. Respinse, inoltre, la domanda subordinata della contribuente di esclusione della applicazione delle sanzioni per carenza di “colpevolezza” ed affermò altresí che l’entità delle stesse era stata correttamente determinata dall’Ufficio.
Avverso dette sentenze propose due distinti ricorsi per cassazione, entrambi con dodici motivi, la contribuente.
Con due separate sentenze n. 7896 e 7897 del 9.2.2016 questa Corte rigettò i primi nove motivi di ricorso, che attenevano alla dedotta violazione dell’obbligo di motivazione degli accertamenti, alla dedotta inapplicabilità del divieto di deduzione dei costi in presenza di archiviazione ex art. 408 e segg. dell’unico procedimento penale avviato sui fatti in contestazione, al divieto di deduzione dei costi in presenza di operazioni oggettivamente inesistenti, alla violazione della regola dell’onere della prova in relazione a diversi profili ed alla pretesa violazione della normativa in materia di deducibilità dei costi fittizia( in presenza di ricavi superiori ai costi, prima della modifica legislativa di cui all’art. 8 comma 2 del dl. n. 16/2012, convertito dalla legge n. 44 del 2012, considerato che, anteriormente all’entrata in vigore della detta disposizione, sia in materia di accertamento dell’iva, che delle imposte sui redditi, qualora l’amministrazione, ritenendo fittizia (oggettivamente o soggettivamente) un’operazione di acquisto, ne avesse recuperato a tassazione i costi, non avrebbe dovuto correlativamente ridurre i ricavi, non sussistendo alcun automatismo tra la ritenuta fittizietà dell’operazione e tale riduzione, cosicché l’amministrazione non aveva alcun obbligo di escludere, in proporzione, i ricavi esposti dallo stesso contribuente, né era tenuta ad accertare la dichiarazione nella sua interezza, potendo limitarsi ad analizzare l’esistenza dei costi dichiarati.
Questa Corte accolse invece il decimo e l’undicesimo motivo dei ricorsi, annullando le sentenze impugnate in relazione ai motivi accolti e rinviando anche per le spese innanzi ad altra sezione della CTR della Lombardia. In proposito rilevò che, con riguardo alle operazioni inesistenti, quali configurabili nel caso di specie, l’art. 8, comma 2, del d.l. n.16/2012 come convertito nella I. n. 44/2012 – costituente ius superveniens, applicabile alla presente controversia in forza del successivo comma 3 – aveva stabilito che i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese. In tal caso, dunque, fermo l’onere a carico del contribuente di provare che i componenti positivi, in quanto correlati a componenti negativi ritenuti fittizi, siano anch’essi fittizi, detti componenti positivi vanno esclusi dalla base imponibile, fatta salva l’applicazione di una sanzione amministrativa.
Quanto all’undicesimo motivo con cui si denunziava la violazione e falsa applicazione dell’art. 12 comma 5 d.lgs. 472/1997, in relazione all’art. 360 n.3 cpc, per avere la CTR affermato che le sanzioni irrogate con l’atto impugnato, riguardando esclusivamente l’esercizio 2006, erano state correttamente calcolate, ritenne ugualmente fondato il motivo poiché l’art. 12 comma 5 D.lgs. 472/1997 prevede l’istituto del cumulo delle sanzioni amministrative nel caso di infrazioni della medesima indole, relative a più periodi d’imposta e a più tributi, stabilendo in particolare che, nel caso in cui la sanzione, in presenza dei relativi presupposti, non sia stata ab origine irrogata in modo unitario, la stessa venga successivamente determinata (dall’Ufficio o dal giudice di merito) tenendo conto di tutte le sanzioni separatamente irrogate, mentre invece la CTR, a fronte della specifica domanda della contribuente, non aveva valutato la sussistenza dei presupposti per l’applicazione del cumulo giuridico delle sanzioni (plurime violazioni della stessa specie, unificabili a titolo di concorso e progressività), limitandosi a rilevare che dette sanzioni si riferivano al solo anno 2006.
I due giudizi di rinvio, promossi a seguito di due distinti ricorsi per riassunzioni presentati dalla società E. HOLDING, furono riuniti dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, che, con sentenza n. 3240/2017, depositata in data 18.7.2017, ritenuta provata la diretta afferenza dei costi ai ricavi derivati dalle operazioni ritenute fittizie, annullò gli accertamenti quanto alle imposte per insussistenza della base imponibile. Quanto poi alla applicazione della sanzione amministrativa prevista dall’art. 8, comma 2, del d.l. n.16/2012, come convertito nella I. n. 44/2012, la Commissione Tributaria Regionale ritenne tale sanzione, in primo luogo, dovuta, benchè non prevista all’epoca del fatto, trattandosi in sostanza di una dichiarazione infedele e di una sanzione costituente un correttivo del precedente trattamento sanzionatorio più favorevole al contribuente e la determinò, avuto riguardo al minimo del 25% ed al massimo del 50%, nella misura del 33% dei costi indebitamente dedotti per euro 5.801.165,00, e cioè nell’importo di euro 1.914.384, che, tenuto conto del cumulo giuridico di cui all’art. 12, comma 5, del d. lgs. n. 472 del 1997, come disposto dalla sentenza di annullamento della Corte di Cassazione, trattandosi di violazioni della stessa indole perché conseguenti ad operazioni del tutto simili, ripetute per diverse annualità di imposta, dava luogo all’importo finale di euro 2.812.650,25, così come risultante dallo specchietto a pagina 46 dell’atto di riassunzione, non contestato dalla Agenzia delle Entrate.
Contro la sentenza emessa in sede di giudizio di rinvio, non notificata, ha presentato ricorso per cassazione la società contribuente con atto notificato in data 16-20 febbraio 2018, affidato a quattro motivi e successiva memoria, cui resiste con controricorso la Agenzia delle Entrate.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo la società contribuente lamenta, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cpc, violazione o falsa applicazione dell’art. 8 comma 2 del dl. n. 16 del 2012 per effetto dell’illegittimità costituzionale della detta disposizione nella parte in cui stabilisce l’irrogazione di una sanzione amministrativa dal 25 al 50 per cento dell’ammontare delle spese e degli altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati indicati nella dichiarazione dei redditi e quindi non proporzionata alla violazione contestata, per violazione degli artt. 3 e 117 della Costituzione.
2. Con il secondo motivo si duole, sempre sotto il profilo della non proporzionalità della sanzione alla violazione contestata, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cpc, di violazione del principio comunitario della proporzionalità, per non avere i giudici tributari disapplicato l’art. 8 comma 2 del dl. n. 16 del 2012, avuto in particolare riguardo all’obiettivo che la sanzione intendeva raggiungere, in assenza di imposta evasa e quindi di mancato incasso da parte dell’Erario.
3. Con il terzo motivo deduce inesistenza o nullità della sentenza per assenza di motivazione in ordine alle ragioni per cui la Commissione tributaria regionale aveva ritenuto applicabile la sanzione di cui all’art. 8, comma 2, del dl. n. 16 del 2012 nella misura del 33 per cento dei costi fittizi, per violazione degli artt. 156, comma 2, 132, comma 2, n, 4 del cpc, 118 dispos. att. cpc, 36, comma 2, n. 4, del d. lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cpc, non avendo la sentenza impugnato evidenziato le ragioni per cui aveva ritenuto di applicare la sanzione non nella misura minima, bensì in quella del 33 per cento, incombendo anche sui giudici, oltre che sull’Ufficio in sede di accertamento, l’obbligo di esplicitare i criteri seguiti per la determinazione delle sanzioni e della loro entità.
4. Con il quarto motivo, infine, lamenta, in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3, cpc, violazione o falsa applicazione dell’art. 12, comma 3, del d. Lgs. n. 472 del 1997 per non avere la sentenza impugnata considerato che, una volta dichiarata la applicabilità della sanzione di cui all’art. 8, comma 2, dei d.l n. 16 del 2012, l’incremento previsto dall’art. 12, comma 3, non poteva più operare, residuando le sole sanzioni IVA.
5. Il ricorso è infondato.
5. Il primo motivo investe la legittimità costituzionale della norma sanzionatoria applicabile alla fattispecie in esame a seguito delle sentenze di questa Corte n. 7896 e 7897 del 2016, che hanno rimesso i giudizi alla CTR affermando il principio di diritto applicabile nel caso in esame in punto sanzionatorio per cui, in primo luogo, restava salva l’applicazione della sanzione amministrativa di cui l’art. 8 comma 2, del dl. n.16/2012 come conv. nella l. 44/2012, costituente ius superveniens, qualora i componenti positivi, in quanto correlati a componenti negativi ritenuti fittizi, fossero ritenuti dal giudice del rinvio anch’essi fittizi e quindi da escludere dalla base imponibile (come poi è avvenuto, con la sentenza della CTR n. 3240 del 2017, ormai in giudicato sul punto perché non impugnata dalla Agenzia delle Entrate) e, in secondo luogo, con riguardo alla denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 12 comma 5 d.lgs. del D. Lgs. 472/1997, per avere la CTR affermato che le sanzioni irrogate con l’atto impugnato, riguardando esclusivamente l’esercizio 2006 erano state correttamente calcolate, mentre doveva invece trovare applicazione l’art. 12 comma 5 D.lgs. 472/1997, il quale prevede l’istituto del cumulo delle sanzioni amministrative nel caso di infrazioni della medesima indole, relative a più periodi d’imposta e a più tributi, stabilendo in particolare che, nel caso in cui la sanzione, in presenza dei relativi presupposti, non sia stata ab origine irrogata in modo unitario, la stessa venga successivamente determinata (dall’Ufficio o dal giudice di merito) tenendo conto di tutte le sanzioni separatamente irrogate.
5.1. La ricorrente sostiene, in particolare, che i parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 117 sarebbero stati violati dalla disposizione legislativa sopravvenuta, nella parte in cui stabilisce l’irrogazione di una sanzione amministrativa dal 25 al 50 per cento dell’ammontare delle spese e degli altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati indicati nella dichiarazione dei redditi, in quanto la sanzione non sarebbe proporzionata alla violazione contestata in confronto con altre sanzioni in materia di imposta sul reddito ed in particolare con quelle connesse all’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti per evasione, poiché, con riferimento al caso specifico e sul piano generale, la sanzione applicata eguagliava la sanzione per infedele dichiarazione che assumeva a presupposto la fattispecie di utilizzo di fatture inesistenti con evasione e nel nuovo sistema sanzionatorio il caso di utilizzo di fatture per operazioni inesistenti con evasione sarebbe addirittura punito con una minore sanzione, tanto più che l’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 8 del dl. In esame escludeva la applicabilità delle disposizioni di cui all’art. 12 del d. lgs. n. 472 del 2018 in materia di cumulo, mentre consentiva soltanto la riducibilità ai sensi dell’art. 16, comma 3, del d. lgs. n. 472 del 1997.
5.2. La questione, ad avviso di questa Corte, è manifestamente infondata alla luce di entrambi i parametri costituzionali invocati e non può quindi comportare l’investimento della Corte Costituzionale, in primo luogo per gli assorbenti rilievi che la sanzione ex art. 8, comma 2, più volte citata, non potrebbe mai determinare la applicazione di una sanzione superiore in caso di utilizzo di fatture per operazioni inesistenti senza evasione, rispetto al caso di utilizzo di evasione, poiché è la stessa disposizione che prevede la applicazione, sia per la determinazione delle imposte dovute che per la determinazione delle sanzioni, del trattamento più favorevole al contribuente e comunque prevede un minimo ed un massimo al cui interno può essere operato l’adeguamento della sanzione al caso concreto.
5.3. E’ stata la stessa Corte Costituzionale a ritenere che si tratta di una disposizione a favore del contribuente, poiché, investita della questione di legittimità costituzionale del pregresso art. 14, comma 4-bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, ha rilevato come, “successivamente all’ordinanza di rimessione, è intervenuto il decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, il quale, all’art. 8,, comma 1, ha disposto la sostituzione del comma censurato, cosicchè, con la nuova formulazione del censurato comma 4-bis, il legislatore, da un lato, ha ridotto l’ambito dei componenti negativi connessi ad illeciti penali e non ammessi in deduzione nella determinazione dei redditi e, dall’altro, ha richiesto che, in relazione a tale delitto, il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale e nel contempo ha previsto, con il comma 3, che i commi 1 e 2 si applicano retroattivamente, quale ius superveniens, in luogo di quanto disposto dal comma 4-bis dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, solo ove più favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al citato comma 4-bis previgente non si siano resi definitivi” (v. Corte Costituzionale, ordinanza n. 248 del 2012).
5.4. Questa Corte si è occupata più volte della adeguatezza delle sanzioni tributarie e della loro conformità ai parametri costituzionali in casi analoghi, ad esempio in tema d’imposta sui valore aggiunto, nella disciplina fissata dal d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, prima delle modifiche introdotte (con effetto retroattivo) dal d.P.R. 29 gennaio 1979 n. 24, allorché le sanzioni pecuniarie previste dall’art. 43 primo comma, per il caso di omessa presentazione della prescritta dichiarazione nel termine di legge, trovavano applicazione tanto nei confronti di chi ometta la dichiarazione medesima, quanto nei confronti di chi ottemperi tardivamente al relativo obbligo, salva restando, in questa seconda ipotesi, la riduzione delle sanzioni medesime in caso di adempimento entro trenta giorni dalla scadenza (art. 48 primo comma) ed ha ritenuto che tale principio manifestamente non pone la citata norma in contrasto con i precetti costituzionali in tema di uguaglianza e di delegazione della funzione legislativa, in quanto la norma medesima non interferisce sul criterio della correlazione delle sanzioni con l’entità delle infrazioni e del danno per l’erario, di cui all’art. 10 della legge di delega n. 825 del 1971, tenendo conto della suddetta riduzione e della possibilità, in concreto, di commisurare le sanzioni stesse entro i previsti limiti minimo e massimo (da due a quattro volte l’imposta dovuta), nonché della pari rilevanza giuridica dell’una e dell’altra infrazione, giustificativa della parità di trattamento (v. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 1991 del 26/03/1984 Rv. 434064 — 01).
5,5. Sussiste inoltre, in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, la disposizione contenuta nel comma quarto dell’art. 7 del d.lgs 18 dicembre 1997, n. 472 – che consente di ridurre la sanzione fino alla metà del minimo, quando concorrono eccezionali circostanze che rendono manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione stessa -, la quale si applica, in mancanza di specifiche eccezioni, ad ogni genere di sanzioni, comprese quelle che la legge stabilisce in misura proporzionale o fissa, dovendosi in tal caso considerare che il minimo ed il massimo si identificano in detta misura fissa o proporzionale (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 5209 del 04/03/2011 Rv. 617037 — 01 in fattispecie relativa a sanzione amministrativa di cui all’art. 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471).
5.6. E’ vero che, alla stregua del principio di proporzionalità in tema di sanzioni amministrative tributarie, la mancanza di evasione o di detrazione fiscalmente illegittime non è ininfluente, alla luce dei principi affermati dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, ai fini della determinazione della correlata sanzione, potendo assumere rilievo in relazione al parametro della proporzionalità (per cui, ad esempio, è stata disposta la disapplicazione, per contrasto con il diritto unionale, dell’art. 6, comma 6, del d.lgs. n. 471 del 1997, laddove stabilisce l’entità della sanzione per illegittima detrazione d’imposta nella misura pari allo stesso ammontare della detrazione illegittimamente compiuta, senza prevedere la possibilità di adeguarla alle circostanze specifiche di ogni singolo caso, dovendosi prevedere la possibilità di elevare progressivamente l’entità della sanzione al fine di assicurare l’esatta riscossione dell’IVA ed evitare l’evasione d’imposta: v. Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 1830 del 23/01/2019 Rv. 652460); nel caso in esame peraltro, come emerge anche dalla Relazione Illustrativa all’art. 8, citato, trascritta dalla ricorrente a pagina 6 del ricorso per la parte che interessa (La disposizione di cui al comma 2 intende, da un lato colpire con una specifica sanzione pecuniaria l’antigiuridicità dell’utilizzo di fatture per operazioni inesistente -con la sanzione amministrativa dal 25 al 50 per cento dell’ammontare delle spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati indicati nella dichiarazione dei redditi- e dall’altro, salvaguardare il principio di capacità contributiva), risulta evidente che il legislatore ha ritenuto la sanzione doverosa in conseguenza della condotta antigiuridica, cosicchè la sua determinazione in una misura modesta, nel minimo, ma anche nel massimo (rispettivamente 25 e 30 per cento), delle spese falsamente dichiarate, oltretutto riducibile ulteriormente per i meccanismi del diritto interno ed unionale, onde conformarla al principio di proporzionalità, non può essere ritenuta sproporzionata con riguardo alla dichiarazione infedele ed alla antigiuridicità della condotta del dichiarante, pur in assenza di evasione a seguito dello ius superveniens.
5.7. La argomentazione della ricorrente non coglie nel segno neppure con riguardo alla violazione della parità di trattamento fra situazioni diseguali, poiché le situazioni previste dall’art. 8, comma 2 e dall’art. 1, comma 2, del d.lgs n. 471 del 1997 (che prevede, nel caso di dichiarazione, ai fini delle singole imposte, di un reddito o un valore della produzione imponibile inferiore a quello accertato, o, comunque, un’imposta inferiore a quella dovuta o un credito superiore a quello spettante, la applicazione della sanzione amministrativa dal novanta al centoottanta per cento della maggior imposta dovuta o della differenza del credito utilizzato) sono diverse e non equiparabili e sono diversi pure i presupposti impositivi e la base imponibile.
5.8. E’ opportuno aggiungere che la distinzione tra fatture inesistenti con evasione e senza evasione è suggestiva, ma erronea, poiché in entrambi i casi vi è comunque evasione dell’IVA e la circostanza che l’imponibile non sia inciso non è significativa ponendosi la condotta in funzione di una strategia evasiva e frodatoria, diretta a favorire l’evasione propria e altrui. La differenza fra le due ipotesi è chiaramente veicolata sul piano sanzionatorio perché — a fronte di condotte parimenti evasive — nell’un caso l’indeducibilità dei costi si risolve direttamente sull’ammontare dell’imponibile (da cui la determinazione della sanzione) mentre nell’altro determina una falsificazione delle attività contabili, dei bilanci e una alterazione grave del mercato, da cui la commisurazione della sanzione ai costi fittizi. Peraltro l’ordinamento ha apprestato opportuni strumenti al fine di consentire l’adeguamento della sanzione al caso concreto.
5.9. Con riguardo poi alla esclusione dell’applicabilità del cumulo giuridico di cui all’art. 12 del D. Lgs. n. 472 del 1997 (prevista dall’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 8,) la questione è irrilevante nel caso in esame poiché la sentenza impugnata ha ritenuto applicabile il criterio del cumulo giuridico, così come disposto dalla sentenza n. 7897 del 2016 con cui questa Corte ha annullato con rinvio la sentenza di appello della Commissione Tributaria Regionale in materia di IRES. In ogni caso la disposizione novellata, pur escludendo la applicazione dell’art. 12, ha previsto espressamente la riducibilità della sanzione ai sensi dell’articolo 16, comma 3, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, con possibilità quindi di applicazione della definizione agevolata mediante il pagamento della sanzione nella misura di un quarto (ratione temporis, ora di un terzo) e cioè la applicazione generalizzata di un rilevante criterio moderatore.
6. Il secondo motivo, strettamente collegato al primo, è in primo luogo inammissibile, laddove lamenta la violazione del principio comunitario della proporzionalità, considerato che si tratta di principio applicabile ai soli tributi armonizzati, ma è ugualmente infondato.
6.1.Questa Corte, con orientamento ampiamente consolidato, ha ritenuto che le modalità di determinazione delle sanzioni previste, ad esempio, dagli artt. 5, comma 4, e 6, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997, che le ragguagliano ad una forbice dal cento al duecento per cento della differenza rispetto all’imposta dovuta e dell’imposta relativa all’imponibile non correttamente documentato o registrato nel corso dell’esercizio, eccedono il limite necessario per assicurare l’esatta riscossione dell’imposta ed evitare l’evasione attesa l’entità minima della percentuale fissata per la maggiorazione e l’impossibilità di adeguarla alle circostanze specifiche di ogni singolo caso, per cui vanno disapplicate in quanto contrarie al diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di giustizia nella sentenza 17 luglio 2014 in C- 272/13 (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 14767 del 15/07/2015 Rv. 636159 – 01). Ed ha ritenuto altresì, come si è già rilevato, che, sempre in tema di sanzioni amministrative tributarie, la mancanza di evasione o di detrazione fiscalmente illegittime non è certamente ininfluente, alla stregua dei principi affermati dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, ai fini della determinazione della correlata sanzione, potendo assumere rilievo in relazione al parametro della proporzionalità, con la conseguenza che è stato disapplicato, per contrasto con il diritto unionale, l’art. 6, comma 6, del d.lgs. n. 471 del 1997, laddove stabilisce l’entità della sanzione per illegittima detrazione d’imposta nella misura pari allo stesso ammontare della detrazione (illegittimamente) compiuta, senza prevedere la possibilità di adeguarla alle circostanze specifiche di ogni singolo caso, dovendosi prevedere la possibilità di elevare progressivamente l’entità della sanzione al fine di assicurare l’esatta riscossione dell’IVA ed evitare l’evasione d’imposta (v. Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 1830 del 23/01/2019 Rv. 652460 —02).
6.2. La sanzione amministrativa di cui all’art. 8 comma 2 del d. l. n. 16 del 2012, che viene in considerazione nel caso in esame, è però, da un lato correlata all’illegittimo computo di imposta in detrazione ed, essendo relativa ad un caso di operazioni inesistenti, non integra una violazione di carattere meramente formale – come tale non punibile – poiché, anche quando non determina in concreto l’omesso versamento dell’IVA od un’indebita detrazione, arreca un pregiudizio alle azioni di controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria che deve valutare la correttezza delle operazioni e la loro effettività e, da altro lato, prevede un minimo ed un massimo (rispettivamente del 25 e dal 50 per cento) che sono ben lontani dal 100 o dal 200 per cento e sono poi ulteriormente riducibili in virtù dei meccanismi sopra indicati oltre che ai sensi dell’art. 16, comma 3, del d. lgs. n. 472 del 1997 espressamente previsto dall’ultima parte del comma 2 dell’art. 8, che consente una rilevante riduzione della sanzione. A ciò si aggiunge la possibilità di applicazione dell’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 472 del 1997 (nel testo applicabile “ratione temporis”), che sanciva, al cospetto di circostanze eccezionali che rendessero manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo e la sanzione, la possibilità di riduzione di quest’ultima fino alla metà del minimo, il che consente di escludere la violazione del principio unionale di proporzionalità nel caso in esame (v. Cass. Sez. 5 – Ordinanza n. 12639 del 19/05/2017 Rv. 644691 – 02).
7. Il terzo motivo presenta in primo luogo ampi profili di inammissibilità poiché deduce la inesistenza o nullità della sentenza per omessa pronuncia sulla determinazione in concreto della misura della sanzione (fissata per legge fra il 25 ed il 50 per cento), avendo la sentenza di appello fissato in concreto la misura del 33 per cento, condividendo quella determinata dall’ente impositore nell’atto di accertamento, senza tuttavia spiegare per quali motivi non avrebbe valutato il differente grado di offensività fra la condotta ipotizzata nell’accertamento (omesso versamento della imposta) e quella per cui era stata invece applicata la sanzione nel giudizio di rinvio (infedele dichiarazione).
7.1. Orbene, il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360, primo comma, cod. proc. civ., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del primo comma dell’art. 360 cod. proc. civ., con riguardo all’art. 112 cod. proc. civ., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (v. Cass. Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24/07/2013 (Rv. 627268 – 01). Nel caso in esame, pur essendo stata dedotta la omessa pronuncia anche con riferimento all’art. 360 n. 4 cpc, non si tratta però chiaramente di omessa pronuncia perché il giudice ha determinato la sanzione ed ha fissato la sua misura fra il minimo ed il massimo edittale, spiegando altresì che non veniva violato il principio di legalità poiché si trattava di norma con applicazione retroattiva, peraltro più favorevole al contribuente anche dal punto di vista sanzionatorio.
7.2. Fra l’altro la sentenza impugnata fa riferimento anche allo “specchietto” predisposto dal contribuente ed inserito a pagina 46 dell’atto di riassunzione, il che rende evidente che la misura della sanzione non era oggetto di contestazione.
7.3. La questione avrebbe dovuto essere quindi posta, eventualmente, sotto il profilo della violazione di legge o di omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti, a norma dei commi 3 o 5 dell’art. 360 cpc, di cui peraltro non sussistevano ugualmente i presupposti, sol che si consideri la parte espositiva della sentenza impugnata che aveva accertato — così come risulta anche dalle due sentenze di annullamento con rinvio di questa Corte — come l’attività della ricorrente fosse inquadrabile, al fine di costituzione di falsi crediti IVA, nell’ambito non solo di una attività illecita bensì di una rilevante frode realizzata tramite società cartiere, che vendevano le licenze fittizie a distributori italiani, i quali agivano come società filtro e che a loro volta le rivendevano a società estere, le quali ultime ne determinavano, infine, il ritorno nella disponibilità di una delle società del gruppo G..
8. E’ infondato anche il quarto motivo con cui si deduce, sotto il profilo della violazione di legge, che, una volta affermata l’applicabilità della sanzione ai sensi dell’art. 8 comma 2 del d.l. n. 16 del 2012, la CTR avrebbe dovuto escludere la applicazione dell’incremento previsto dal comma 3 dell’art. 12 del D. Lgs. n. 472 del 1997 (previsto nel caso in cui le violazioni rilevano a fini di più tributi) ed applicare solo l’incremento previsto ai sensi del comma 5 dell’art. 12, poiché l’art. 8, comma 2, ultimo periodo, escludeva la applicabilità delle disposizioni di cui all’art. 12 del D. Lgs. n. 472 del 1997.
8.1. In proposito si deve infatti considerare che le sentenze di annullamento da cui è derivato il giudizio di rinvio hanno ritenuto che l’unica contestazione mossa in sede di ricorso per cassazione avesse riguardato l’applicazione dell’art. 12 comma 5 d.lgs. del D. Lgs. 472/1997, per avere la CTR affermato che le sanzioni irrogate con l’atto impugnato, riguardando esclusivamente l’esercizio 2006, erano state correttamente calcolate con riferimento a quella annualità di imposta, mentre invece doveva trovare applicazione l’art. 12 comma 5 D.lgs. 472/1997, il quale prevede l’istituto del cumulo delle sanzioni amministrative nel caso di infrazioni della medesima indole, relative a più periodi d’imposta e a più tributi, stabilendo in particolare che, nel caso in cui la sanzione, in presenza dei relativi presupposti, non sia stata ab origine irrogata in modo unitario, la stessa venga successivamente determinata (dall’Ufficio o dal giudice di merito) tenendo conto di tutte le sanzioni separatamente irrogate.
8.2. Il giudice del rinvio si è quindi attenuto al principio di diritto affermato dalle sentenze di annullamento ed ai limiti della questione rimessa al suo esame per cui doveva essere applicato l’aumento ex art. 12 comma 5 in relazione alle tre annualità di imposta interessate (2004, 2005 e 2006), mentre la questione posta dalla ricorrente — secondo cui dal calcolo dovrebbe essere espunta la maggiorazione ex art. 12 comma 3, poiché l’art. 8 comma 2 del d.l. n. 16 del 2012 escludeva la applicabilità della continuazione- esula dal presente giudizio e tanto meno doveva o poteva essere esaminata d’ufficio dal giudice del rinvio, oltretutto a fronte del conteggio predisposto dalla stessa ricorrente in sede di atto di riassunzione e recepito nel giudizio di rinvio (pag. 5 della sentenza impugnata e pag. 18 del ricorso per cassazione), in assenza di contestazioni da parte della Agenzia delle Entrate.
9. Il ricorso deve essere in definitiva rigettato con la condanna della ricorrente alle spese del presente giudizio. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. 115 del 2002, si deve dare atto, ratione temporis, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio in favore della Agenzia delle Entrate che liquida in euro 12.000, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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