CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 31 marzo 2021, n. 8886
Imposte – Omesso pagamento – Responsabilità dell’amministratore – Violazione dei doveri – Condizioni
Rilevato che
Rigettando l’impugnazione spiegata dal contribuente, la Commissione Tributaria Centrale – sezione di Milano (in appresso, per brevità: C.T.C.), con la sentenza n. 1210/2013 del 19 marzo 2013, dichiarava G.H., consigliere di amministrazione (dal 28 febbraio 1975 al 5 luglio 1976) della società T.C. S.p.A. posta in liquidazione nel gennaio 1978, responsabile con il proprio patrimonio, ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, per l’omesso pagamento delle imposte sui redditi ad opera della predetta società per tutti i periodi (segnatamente, le annualità dal 1972 al 1976) contestati nell’atto impositivo.
Avverso detta sentenza ricorre per cassazione G.H., articolando sette motivi illustrati da memoria; resiste, con controricorso, l’Agenzia delle Entrate.
Considerato che
1. Il primo motivo denuncia «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1306 cod. civ. con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ./motivazione completamente omessa». Si assume, in particolare, come la C.T.C. non abbia tenuto conto della produzione, avvenuta all’udienza di discussione celebrata innanzi tale A.G., della sentenza n. 1225/2007 della stessa C.T.C. con cui, in accoglimento dell’impugnativa proposta da G.V., consigliere di amministrazione della stessa società nel medesimo arco temporale del ricorrente, era stato pronunciato l’annullamento, per ragioni non attinenti alla persona del contribuente, del medesimo avviso di accertamento per le stesse responsabilità “d’imposta”. Da tale omissione è derivata la mancata valutazione del giudicato formatosi a favore di coobbligato solidale e della estensione degli effetti favorevoli di esso a vantaggio dell’odierno impugnante.
1.1. Con il secondo motivo, rubricato «omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., ovvero totale omissione di motivazione ai sensi dell’art. 111 Cost.». si eccepisce (ove non ritenuta la reiezione implicita dell’eccezione di giudicato esterno) la nullità della sentenza impugnata per radicale omissione di pronuncia «con riferimento alla mancata considerazione della produzione documentale» di cui al motivo precedente.
1.2. Ragioni di evidente intrinseca connessione impongono uno scrutinio unitario dei motivi.
Essi, pur a tacer delle ambiguità dell’esposizione (la quale appare invero evocare un’omessa valutazione di un documento e non già di un’istanza di estensione in utilibus di un giudicato favorevole, della quale non si indicano modi e tempi di proposizione) sono infondati.
Anche a ritenere ritualmente dedotta innanzi la C.T.C. l’esistenza del giudicato qui invocato dal ricorrente, essa non conduce comunque all’annullamento dell’avviso di accertamento, per difetto del presupposto (indefettibile ai fini dell’estensione degli effetti prevista dall’art. 1306 cod. civ.) della ricorrenza di un’obbligazione solidale. Tra gli amministratori della società (nonché tra questi e i liquidatori) non sussiste, tanto nella fattispecie disciplinata dall’art. 36 del d.P.R. n. 602 del 1973 quanto in quella regolata dall’art. 265 del d.P.R. 29 gennaio 1958, n. 265, responsabilità solidale.
Si spiega: la responsabilità dell’amministratore (al pari di quella del liquidatore) di una estinta società di capitali per le imposte sui redditi non versate dall’ente configura una obbligazione ex lege nei confronti dell’amministrazione finanziaria, avente natura civilistica (riconducibile alle previsioni comuni degli artt. 1176 e 1218 cod. civ.) e titolo autonomo rispetto all’obbligazione fiscale vera e propria, che della prima costituisce il necessario ed ineludibile presupposto.
Si versa allora in una tipica ipotesi di responsabilità per fatto proprio che trova la sua fonte immediata nella violazione dei doveri comportamentali fissati dalle disposizioni di legge testé citate, le quali pongono a carico diretto degli amministratori o liquidatori di un soggetto tassabile uno specifico obbligo nei confronti del fisco, avente quale contenuto il provvedere, nella loro qualità, al pagamento delle imposte con l’attivo sociale.
In dettaglio, tale responsabilità è integrata: per gli amministratori in carica al momento di scioglimento della società ed ove non si proceda alla nomina di liquidatori, dal fatto obiettivo della sussistenza di attività nel patrimonio della società e della distrazione di tali attività a fini diversi dal pagamento delle imposte; per tutti gli amministratore, anche non in carica all’epoca di scioglimento della società, dal compimento, negli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione, di operazioni liquidatorie o di occultamento di attività sociali.
Così inquadrata la vicenda, il debito fiscale non costituisce dunque l’oggetto della responsabilità degli amministratori (e dei liquidatori) ma il parametro di commisurazione del danno cagionato, il quantum del risarcimento dovuto all’erario.
In sintesi: non obbligazione o coobbligazione nel debito tributario dell’amministratore e del liquidatore (e nemmeno successione nello stesso, ove la società sia cancellata dal registro delle imprese) ma autonoma obbligazione personale, nel presupposto dell’esistenza di quel debito della società (in tal senso, Cass., Sez. U., 09/06/1978, n. ..9) 2925; Cass. 24/01/1981, n. 549; Cass. 04/03/1989, n. 2079; Cass., 07/06/1989, n. 2768; Cass. 10/11/1989, n. 4765; Cass. 14/09/1995, n.9688; Cass. 15/10/2001, n. 12546; Cass. 11/05/2012, n. 7327; Cass. 25/06/2019, n. 17020; Cass. 20/07/2020, n. 15377).
Nella descritta prospettiva, alcun vincolo di solidarietà passiva può ravvisarsi tra i vari amministratori sociali, chiamati a rispondere ciascuno per il “fatto proprio”, cioè a dire in forza di un distinto ed autonomo titolo di responsabilità: e la decisione che, per qualsivoglia ragione, dichiari l’illegittimità della pretesa risarcitoria azionata nei confronti di un amministratore accerta unicamente l’insussistenza del fatto idoneo ad integrare l’obbligazione legale di quel soggetto, con efficacia circoscritta alle sole parti processuali di quel giudizio.
2. Con il terzo motivo, proposto in relazione all’art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., si eccepisce – quale ragione di nullità parziale della sentenza gravata – l’omessa pronuncia sul motivo di gravame con cui era stata dedotta l’illegittimità della pretesa per le annualità 1972 e 1973, argomentata sull’assunto che l’art. 265 d.P.R. n. 645 del 1958 (norma applicabile rettone temporis alle anzidette annualità, per essere il d.P.R. n. 602 del 1973 vigente dal 1 gennaio 1974) stabiliva la responsabilità degli amministratori per le imposte non versate esclusivamente nell’ipotesi in cui non si fosse proceduto alla nomina di liquidatori.
2.1. Con il quarto motivo, per violazione e falsa applicazione degli artt. 264 e 265 del d.P.R. n. 645 del 1958 in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., si lamenta l’errore di diritto in cui è incorsa la C.T.C. nell’aver affermato la responsabilità dell’amministratore in questa sede ricorrente per il pagamento dei debiti tributari della società relativi ai periodi d’imposta 1972 e 1973, pur nella riscontrata sottoposizione della società ad una regolare procedura di liquidazione.
2.2. Anche queste doglianze sono valutabili congiuntamente e sono destituite di fondamento.
Esse si infrangono – senza addurre elementi per un ripensamento critico – contro un monolitico orientamento di questa Corte. Secondo un consolidato principio di diritto, la responsabilità per il mancato pagamento, con le attività della liquidazione, delle imposte dovute da società tassabile in base a bilancio, prevista dall’art. 265 del d.P.R. n. 645 del 1958 a carico dei “liquidatori”, sussiste a carico di tutti coloro che, pure a prescindere da formale investitura, si siano concretamente occupati della realizzazione del patrimonio sociale (cioè a dire dell’attività di liquidazione in senso sostanziale), al fine di estinguere le passività e distribuire gli eventuali residui fra gli aventi diritto. La responsabilità fissata dalla citata norma, pertanto, analogamente a quella poi introdotta dall’art. 36 del d.P.R. n. 602 del 1973, grava non soltanto su chi venga nominato liquidatore, ovvero, in caso di mancata nomina del liquidatore, su chi sia amministratore in carica all’atto dello scioglimento, ma anche sull’amministratore che abbia in effetti compiuto attività di liquidazione, prima del formale instaurarsi della liquidazione medesima e della nomina di altri come liquidatore (tra le tantissime, cfr. Cass., Sez. U., 09/06/1978, n. 2925; Cass. 02/06/1980, n. 3593; Cass. 14/01/1981, n. 328; Cass. 24/01/1981, n. 549; Cass. 24/03/1981, n. 1703; Cass. 08/06/1981, n. 3685; Cass. 03/12/1981, n. 6403; Cass. 15/03/1984, n. 1761; Cass., Sez. U., 27/03/1985, n. 2145; Cass. 07/08/1989, n. 3617).
Il dettato dell’art. 265 del d.P.R. n. 645 del 1958 fa dunque riferimento all’attività di liquidazione intesa in senso sostanziale e non meramente formale, per cui trova applicazione anche qualora, prima della (ed a prescindere dalla) apertura di una rituale procedura liquidatoria, operazioni concretamente liquidatorie siano compiute (omettendo di pagare, con il relativo realizzo, le imposte dovute dalla società) dagli amministratori, la cui responsabilità non è esclusa dalla successiva nomina formale di altri come liquidatore.
Risulta chiara, in tale impostazione, come la correlazione tra le norme dell’art. 265 del d.P.R. n. 645 del 1958 e dell’art. 36 del d.P.R. n. 602 del 1973 si ponga in termini di continuità, non di innovazione. Più precisamente, in punto di responsabilità degli amministratori che abbiano compiuto operazioni di liquidazione la norma successiva ha natura meramente esplicativa della norma previgente, nel senso che si rende esplicito il contenuto precettivo già in via di esegesi individuabile nell’art. 265 del d.P.R., soltanto limitandone nel tempo (con il circoscrivere le operazioni rilevanti agli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione) l’ambito di applicazione (su tali aspetti, cfr. Cass., Sez. U., 10/06/1978, n. 2925; Cass. 24/03/1981, n. 1703; Cass., 07/06/1989, n. 2767).
3. Con il quinto mezzo di gravame, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., si rileva come la Commissione tributaria di secondo grado abbia ritenuto la pretesa azionata dall’A.F. giustificata da una norma (l’art. 264 del d.P.R. n. 645 del 1958) diversa da quella addotta dall’Ufficio nell’atto impositivo (l’art. 265 dello stesso d.P.R.), in tal guisa incorrendo nella violazione dell’art. 37 di tale d.P.R. n. 645 del 1958 nella parte in cui statuiva che «gli avvisi di accertamento debbono esser analiticamente motivati a pena di nullità», errore di diritto replicato dalla C.T.C. «laddove in tal modo si volesse intendere il silenzio di quest’ultima sul punto».
3.1. La doglianza è infondata.
Basata su una (ipotetica finanche nelle premesse) attribuzione di significato a quanto “non detto” dalla sentenza gravata, essa si rivela inconferente rispetto al percorso argomentativo seguito dalla C.T.C., nel quale, diversamente dalle (ed in emenda delle) motivazioni della Commissione di secondo grado, la sussistenza della responsabilità dell’amministratore viene affermata senza alcun riferimento al disposto dell’art. 264 del d.P.R. n. 645 del 1958.
4. Il sesto motivo denuncia «violazione e falsa applicazione dell’art. 37 del d.P.R. n. 645 del 1958, dell’art. 36, quinto comma, del d.P.R. n. 602 del 1973 e dell’art. 42, secondo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ.».
Ad avviso dell’impugnante, corollario dell’obbligo di analitica motivazione degli atti fiscali è la loro assoluta immutabilità e non integrabilità nell’eventuale successiva fase contenziosa: principio nel caso di specie violato, dacché, formulato l’avviso di accertamento con riguardo al pagamento di debiti di ordine inferiore a quello tributario, l’A.F., con la memoria difensiva depositata nel corso del primo grado di giudizio, aveva imputato all’amministratore un differente titolo di responsabilità, costituito dalla dolosa sottrazione di «materia imponibile alle imposte dirette».
4.1. La censura è inammissibile.
Nella stessa prospettazione del ricorrente, l’asserita violazione si è verificata nel primo grado di giudizio; in tal guisa, però, essa ha integrato un vizio della sentenza resa all’esito del grado stesso, da denunciare, per il noto principio della conversione dei vizi di nullità in motivi di gravame, con il rimedio dell’appello (in via incidentale, atteso l’esito favorevole al contribuente in prime cure) e da riproporre con la successiva impugnazione innanzi alla C.T.C..
Dell’attivazione di tali strumenti di tutela (necessari perché la postulata nullità possa essere sottoposta al sindacato del giudice di legittimità) il ricorrente non ha tuttavia dato minimamente conto.
5. Il settimo motivo è rubricato «violazione e falsa applicazione dell’art. 36, secondo e quarto comma, del d.P.R. n. 602 del 1973, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ.». Si evidenzia come la pronuncia gravata non distingua «tra i limiti temporali relativi alla responsabilità d’imposta e quelli relativi alle condotte che la determinano», condotte positivamente descritte in termini amplissimi (con riferimento ad ogni possibile «operazione di liquidazione, sia essa realizzata in maniera aperta o occulta»), mentre invece l’art. 36, quarto comma, del d.P.R. n. 602 del 1973 «pone dei limiti temporali estremamente precisi non agli anni d’imposta di cui si può essere chiamati a rispondere ma a quelli in cui si possono verificare le condotte rilevanti […] limitati ai due periodi d’imposta antecedenti alla formale messa in liquidazione».
Muovendo da queste premesse e richiamato il disposto dell’art. 10 del d.P.R. n. 600 del 1973, il ricorrente individua i periodi d’imposta antecedenti alla messa in liquidazione (avvenuta con delibera del 16 gennaio 1978) rilevanti nella specie in quelli correnti tra il 10 e il 15 gennaio 1978 e tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 1977, periodi non intersecanti il lasso temporale di assunzione e svolgimento della carica di amministrazione del ricorrente (durata dal 28 febbraio 1975 al 5 luglio 1976): da ciò inferisce l’insussistenza di responsabilità per il mancato pagamento delle imposte delle annualità 1974-1976.
5.1. La articolata doglianza è infondata.
È doveroso puntualizzare i termini della questione.
A fondamento della responsabilità ascritta a G.H., la C.T.C. pone il compimento, nelle vesti di amministratore della società, di operazioni liquidatorie negli ultimi due esercizi di imposta anteriori alla messa in liquidazione (richiamando quali fonti di prova il p.v.c. dell’A.F. e la sentenza resa all’esito del giudizio penale, asseverative del contegno doloso preordinato a sottrarre attivo al fine di non pagare le imposte), con la precisazione che detta responsabilità «non è limitata alle azioni compiute dagli amministratori soltanto in quegli ultimi due periodi, ma a tutti gli anni in cui il pagamento delle imposte della società è stato omesso».
Con la spiegata censura, il ricorrente non solleva rilievi in ordine al compimento di operazioni liquidatorie (limitandosi, sul punto, a brevissime contestazioni del tutto generiche e lapidarie, irrilevanti poiché non tradotte in un motivo d’impugnazione) e nemmeno circa la misura della derivante responsabilità in capo agli amministratori (estesa anche alle annualità precedenti lo svolgimento delle funzioni gestorie); sostiene, invece, che le condotte contestate esulino dal perimetro applicativo dell’art. 36, quarto comma, del d.P.R. n. 602 del 1973 per quanto concerne l’aspetto temporale. L’argomentazione non persuade il Collegio.
5.2. Giova rammentare che il più volte citato art. 36, quarto comma, del d.P.R. n. 602 del 1973, con la univoca previsione testuale contenuta nell’incipit («le responsabilità previste dai commi precedenti sono estese»), definisce una piena omologia di oggetto tra la responsabilità degli amministratori sociali e quella dei liquidatori e dei soci: mancando un’espressa (o anche mediata) correlazione con il periodo di svolgimento delle mansioni gestorie ed in difetto di altri limiti ravvisabili nei principi di sistema, dunque, gli amministratori che hanno i contegni previsti sono responsabili verso l’erario nella stessa misura dei liquidatori, cioè a dire anche per il mancato pagamento delle imposte (cui, in via prioritaria, devono considerarsi finalizzate le operazioni liquidatorie o destinate le attività occultate) relative alle annualità di imposta antecedenti all’assunzione della carica sociale. Come si è già sopra evidenziato, l’aspetto innovativo dell’art. 36 del d.P.R. n. 602 del 1973 rispetto al previgente art. 265 del d.P.R. n. 645 del 1958 (sul tema, vedi le citate Cass., Sez. U., 10/06/1978, n. 2925; Cass. 24/03/1981, n. 1703; Cass., 07/06/1989, n. 2767) è rappresentato dall’aver circoscritto al biennio anteriore alla messa in liquidazione il periodo di compimento delle azioni liquidatorie o distrattive rilevante ai fini della integrazione della fattispecie di responsabilità degli amministratori, sotto l’egida dell’art. 265 del d.P.R. n. 645 del 1958 invece scaturente dalle operazioni di concreta realizzazione del patrimonio sociale in qualsivoglia momento poste in essere dall’amministratore.
5.3. Per delimitare correttamente gli «ultimi due periodi d’imposta precedenti alla messa in liquidazione», tuttavia, non assume valenza dirimente, diversamente da quanto opinato dal ricorrente, il disposto dell’art. 10 del d.P.R. n. 600 del 1973, laddove statuisce che «in caso di liquidazione di società o enti soggetti all’imposta sul reddito delle persone giuridiche, il liquidatore deve presentare entro quattro mesi dalla data in cui ha effetto la deliberazione di messa in liquidazione la dichiarazione relativa al periodo compreso tra l’inizio del periodo d’imposta e la data stessa».
Non v’è dubbio che la norma operi una suddivisione del periodo d’imposta durante il quale si verifica la messa in liquidazione: ma tale considerazione frazionata assume rilevanza esclusivamente ai fini dell’assolvimento degli obblighi dichiarativi gravanti sul liquidatore (che risultano duplicati e differenziati), nella prospettiva della netta divaricazione (necessaria per assicurare il diverso trattamento fiscale previsto dalla legge) tra le attività e le passività esistenti al momento di scioglimento dell’ente e quelle determinatesi pendente liquidazione.
Ad ogni altro scopo, differente da quelli intrinsecamente connessi alla realizzazione della procedura liquiciatoria, il periodo d’imposta è e rimane unitario, essendo costituito, ai sensi dell’art. 4 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 598 (ratione temporis applicabile al caso in esame), dall’anno solare nella sua interezza, in difetto dell’allegazione di una diversa durata dell’esercizio o periodo di gestione determinata dalla legge o dall’atto costitutivo dell’ente.
Sulla scorta dei principi testé enunciati, risultando la messa in liquidazione della società T.C. S.p.A. avvenuta il 16 gennaio dell’anno 1978 (dato pacifico), i due periodi d’imposta anteriori valutabili per la responsabilità degli amministratori, vanno individuati negli archi temporali intercorsi tra il 10 gennaio ed il 31 dicembre 1977 e tra il 10 gennaio ed il 31 dicembre 1976, anno, quest’ultimo, nel quale il ricorrente ha rivestito (sino al 5 luglio) la carica di amministratore della predetta società di capitali. Tanto spiega l’infondatezza dell’assunto del ricorrente.
6. Rigettato il ricorso, il regolamento delle spese del grado segue la soccombenza, con liquidazione operata come in dispositivo alla stregua dei parametri fissati dal D.M. 55/2014.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento in favore del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 7.800 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
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