CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 giugno 2021, n. 16762
Tributi – IRPEF – Accertamento – Indagini bancarie – Operazioni elusive – Redditi formalmente intestati ad un altro soggetto – Interposizione fittizia – Presunzioni – Effettivo titolare – Accredito sul conto corrente – Attribuzione redditi di capitale
Rilevato
1. Il contribuente F.R., socio e amministratore di varie società – immobiliari o di costruzione, di capitali e di persone – era oggetto di una verifica fiscale presso diversi istituti di credito, che culminava in un avviso di accertamento con cui veniva rettificato il suo reddito per l’anno d’imposta 2003. Segnatamente l’Ufficio, avuto riguardo a plurime movimentazioni bancarie, ricostruiva un complesso disegno di operazioni societarie e immobiliari, diverse tra loro, ma tutte ravvicinate nel tempo (alcune venivano concluse nell’arco dello stesso giorno), e prive di effettivo significato economico se non l’intento elusivo dalle imposte della plusvalenza realizzata dalle cessioni degli immobili, ora in forma diretta, ora attraverso passaggi di partecipazioni societarie. Ed infatti, rispetto al contribuente l’Ufficio accertava che una cospicua parte della plusvalenza, pari ad euro 6.184.847,51 era stata accreditata sul suo conto corrente personale. Su tali presupposti l’Ufficio accertava a suo carico il maggior reddito di capitale ai sensi dell’art. 37, comma 3, del d.p.R. n. 600/1973.
2. Alle stesse conclusioni l’Ufficio giungeva in merito alla somma di euro 598.554,80, ripresa a tassazione nei confronti del sig. A.D.D., altro socio delle medesime società e partner delle stesse operazioni, il cui iter giudiziario è già giunto allo scrutinio di questa Corte.
3. Instaurato il giudizio di primo grado, la Commissione tributaria provinciale respingeva il ricorso. Il contribuente adiva pertanto il Giudice di secondo grado, chiedendo la riforma della decisione. La Commissione tributaria regionale, in parziale accoglimento dell’appello, annullava l’atto impositivo in relazione al primo motivo svolto e rigettandolo per il resto.
4. Ricorre per la cassazione della sentenza l’Avvocatura generale dello Stato che svolge un unico motivo di impugnazione.
Resiste il contribuente con tempestivo controricorso, depositando altresì memoria in prossimità della adunanza camerale.
Considerato
1. In via preliminare occorre respingere l’eccezione di inammissibilità svolta dalla difesa del contribuente, essendo il motivo di ricorso pienamente intellegibile, alla luce del più recente orientamento di questa Corte.
1.1 Invero, ai fini del rispetto dei limiti contenutistici di cui all’art. 366, comma 1, n. 3) e 4), c.p.c., il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità al dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva, dovendo il ricorrente selezionare i profili di fatto e di diritto della vicenda “sub iudice” posti a fondamento delle doglianze proposte in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c.; solo, l’inosservanza di tale dovere che nella specie non sussiste […] pregiudica l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata e, pertanto, comporta la declaratoria di inammissibilità del ricorso, ponendosi in contrasto con l’obiettivo del processo, volto ad assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa (art. 24 Cost.), nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali del giusto processo (artt. 111, comma 2, Cost. e 6 CEDU), senza gravare lo Stato e le parti di oneri processuali superflui (cfr. Cass. V, n. 8425/2020).
2. È ora possibile passare allo scrutinio dell’unica censura svolta e con cui l’Avvocatura generale dello Stato si duole della motivazione omessa ed insufficiente su un punto decisivo della controversia in parametro all’art. 360 n. 5 c.p.c., nel testo applicabile alla sentenza qui in esame, depositata prima dell’11 settembre 2012.
2.1 In particolare, il patrono erariale censura l’illegittimità della sentenza nella parte in cui la CTR ha affermato che l’Ufficio, dopo aver ricavato l’intento elusivo dalle operazioni compiute, non avrebbe ricostruito l’operazione commerciale corretta, oltre a non aver addebitato al contribuente la differenza tra quanto era stato percepito e quanto era invece stato corrisposto a titolo d’imposta. Osserva, infatti, che le operazioni avevano portato ad evitare tout court la tassazione in ragione della condotta elusiva, poi ripresa per effetto dell’accertamento eseguito dall’Ufficio. Di qui la classificazione di tali somme come redditi di capitali giacché, ove non fossero state condotte tutte le operazioni commerciali (antielusive), la plusvalenza sarebbe matura in capo alle società. E tale circostanza era la dimostrazione che il contribuente, per interposizione fittizia, si era appropriato di tali redditi.
2.2 Così opinando, la CTR aveva dimostrato di non aver vagliato le deduzioni offerte dall’Ufficio, nelle quali era stato precisato che la ripresa a tassazione era stata operata ai sensi dell’art. 37, comma 3, e dell’art. 38, commi 1° e 2°, d.P.R. n. 600/1973, a titolo di redditi di capitali.
Il motivo è fondato.
3. Occorre premette che con l’ordinanza n. 33637 del 2018 questa Corte si è già pronunciata sulla vertenza parallela, e relativa al sig. A.D.N.. In particolare è stato ivi accolto il motivo di ricorso (incidentale) svolto dall’Amministrazione finanziaria, che aveva censurato la decisione della CTR per aver negato l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 37, comma 3° del d.P.R., 29 settembre 1973, n. 600.
3.1 Segnatamente, è stato stabilito che “Il motivo è fondato, dovendosi peraltro evidenziare come, sia pure invocando nella rubrica del motivo in esame un vizio di motivazione, la ricorrente incidentale denuncia in realtà in questa sede una falsa applicazione del cennato art. 37 del d.P.R. n. 600 del 1973, norma che – com’è noto – imputa al contribuente i redditi formalmente intestati ad un altro soggetto quando, in base a presunzioni gravi, precise e concordanti, egli ne risulti l’effettivo titolare. Orbene, secondo il costante orientamento di questa Corte, l’applicazione della norma in parola non resta limitata alle sole operazioni simulate, ma è consentita anche in presenza di atti negoziali veri, purché sia stata raggiunta la prova che i redditi oggetto di ripresa a tassazione siano riconducibili alla sfera giuridica del contribuente (Cass. 30/10/2018, n. 27625; Cass. 29/07/2016, n. 15830; Cass. 15/11/2013, n. 25671; Cass. 10/06/2011, n. 12788).
Nella vicenda che ci occupa, invece, la commissione tributaria regionale ha ritenuto che il reddito da capitale tratto dalla vendita di taluni immobili appartenenti a società di capitali di cui il D.N. era socio di maggioranza, non potesse essere ricondotto al predetto, ai sensi della richiamata disciplina, solo perché il negozio di trasferimento dei detti immobili doveva ritenersi effettivamente voluto dalle parti, non essendo stata raggiunta alcuna prova di una interposizione fittizia tra le società venditrici e il contribuente. In realtà, come osservato in precedenza, al fine di imputare il reddito derivante dall’esecuzione di una determinata operazione economica ad un soggetto diverso da quello risultante dall’atto negoziale, è sufficiente che lo stesso sia individuato quale “effettivo possessore” del reddito, id est quale beneficiario ultimo delle utilità economiche nascenti dal medesimo atto, ancorché non si tratti di negozio simulato in via assoluta o relativa (anche nella nota forma soggettiva dell’interposizione personale), bensì di un atto effettivamente voluto dalle parti che hanno partecipato al rogito. È chiaro, allora, che il giudice di merito avrebbe dovuto valutare l’esistenza o meno di presunzioni gravi precise e concordanti in ordine al fatto che le somme confluite sul conto corrente del D.N., nella stessa giornata in cui venne perfezionata la vendita degli immobili e di importo pari esattamente al prezzo corrisposto dall’acquirente, potessero costituire o meno reddito da capitale derivante dal ridetto atto di trasferimento e, quindi, assoggettabile ad imposizione fiscale; e tale accertamento spettava comunque alla commissione tributaria, a prescindere dalla esatta qualificazione dell’operazione negoziale posta in essere come di interposizione reale e non fittizia” (Cfr. Cass., V, n. 33637/2018).
4. In considerazione dell’identità dei fatti e collaborazione fra i soggetti coinvolti nei diversi giudizi, le ragioni ivi espresse dalla Corte sono condivise da questo Collegio, non ravvisando motivi per discostarsene.
4.1. Anche nella fattispecie in esame, infatti, sono stati compiuti nello stesso giorno (30.12.2003) sia gli atti di cessione delle quote, sia quelli di cessione degli immobili. Ancora nello stesso giorno risulta essere stato accreditato sul conto personale del contribuente di cui oggi si tratta, F.I., un bonifico per l’importo di euro 6.184.847,51 quale cospicua parte della plusvalenza maturata, senza che alcuna specifica contestazione sul punto emerga dalla lettura della sentenza ovvero della difesa del controricorrente.
Il motivo è quindi fondato e il ricorso va pertanto accolto.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR per l’Abruzzo – Sez. distaccata di Pescara, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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