CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 3700 depositata il 2 febbraio 2022
Reati tributari – Omesso versamento Iva – Rilevanza penale – Prescrizione del reato
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza dell’8 luglio 2020 la Corte d’Appello di Perugia ha confermato la condanna inflitta, con sentenza del 28 gennaio 2019 dal Tribunale di Perugia, a G.P.D. alla pena di quattro mesi di reclusione, riconosciute le attenuanti generiche, per il reato di cui all’art 10-ter D.Igs. 74/2000 in quanto, come rappresentante pro-tempore della C.F.M Nuova Società Cooperativa, ometteva di versare la somma di 416.293 euro a titolo di IVA riferita all’anno 2011, fatto commesso in Corciano il 27 dicembre 2012, disponendo la confisca diretta del profitto del reato e, in via subordinata, in caso di incapienza del patrimonio sociale, la confisca per equivalente sui beni dell’imputato.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, tramite il proprio difensore di fiducia, articolato su tre motivi di doglianza.
2.1. Con il primo motivo si deduce vizio di mancanza e contraddittorietà della motivazione con riferimento al mancato adempimento degli oneri di allegazione gravanti sull’imputato per far operare la causa di esclusione della colpevolezza fondata sulla impossibilità oggettiva di osservare il precetto penale tributario. In particolare la Corte territoriale avrebbe omesso di valutare le prove dichiarative assunte in dibattimento, che risultavano decisive a dimostrare l’espletamento da parte dell’imputato di azioni idonee al recupero della liquidità necessaria per assolvere il debito tributario. Il Collegio avrebbe ritenuto necessaria la produzione documentale comprovante le iniziative giudiziarie intraprese dall’imputato per il recupero dei crediti, senza considerare che la documentazione societaria era nella disponibilità solo del curatore fallimentare e quindi non poteva essere prodotta dalla difesa. Nello specifico, la Corte non si è confrontata con le deposizioni testimoniali rilasciate in udienza dai testi a discarico, che dimostravano l’adozione da parte del D. di misure idonee a fronteggiare la crisi e ad effettuare il versamento di imposta, avendo l’imputato rinunciato agli emolumenti a lui spettanti per un valore superiore a 200.000 euro ed avendo anche deciso di non procedere alla ripartizione degli utili tra i soci sin dall’esercizio 2010. Inoltre, i giudici di appello non hanno fornito risposta alle censure difensive, che avevano segnalato da un lato, che il pagamento dell’Iva viene effettuato quando tutti i costi sono stati già stati sostenuti, dall’altro, che la crisi di liquidità generale del mercato di settore era iniziata nel 2008 ed aveva raggiunto il suo apice nel periodo 2011- 2012 per il verificarsi di inadempimenti contrattuali di rilevante entità (di 402.000 euro quanto a fatture emesse nei confronti di ENI R. e di circa un milione di euro per il mancato pagamento da parte di S. di due fatture), del tutto imprevedibili da parte delle società committenti, situazione che aveva indotto l’imputato a stipulare un preliminare di vendita di un’area edificabile del valore di 10.500.000 di euro per reperire la liquidità necessaria per assolvere il debito tributario, senza poi riuscire a perfezionare la stipula del contratto definitivo per causa imputabile alla controparte.
2.2. Con il secondo motivo si deduce vizio di violazione di legge e vizio motivazionale in relazione al mancato riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena. Invero, la Corte territoriale avrebbe fondato il giudizio prognostico sulla base di elementi illogici, tra i quali la prosecuzione dell’attività societaria fino al fallimento intervenuto nel 2015 pur presenza di una crisi aziendale antecedente, la cui esistenza veniva tuttavia soltanto prospettata a partire dal 2008, e l’omesso versamento dell’IVA relativa alle annualità 2009 e 2010, pur in presenza di un giudizio assolutorio per intervenuta prescrizione e dunque in assenza di una pronuncia di condanna sul punto. In aggiunta, si lamenta l’omessa valutazione complessiva di tutti i criteri previsti all’art. 133 cod. pen. In sede di giudizio prognostico ai sensi dell’art 164 cod. pen. Nello specifico la Corte territoriale avrebbe disatteso i parametri di rilevanza della condotta susseguente al reato e delle condizioni individuali e sociali del reo, atteso che con la dichiarazione di fallimento intervenuta nel 2015 era cessata la carica di rappresentante legale dell’imputato, che non esercitava alcuna attività di impresa essendo ormai in pensione dal compimento dell’età di 70 anni, nonché era privo di precedenti specifici.
2.3. Con il terzo motivo si deduce la violazione di legge penale in relazione all’applicazione della misura della confisca per equivalente ai sensi dell’art 12-bis del d.lgs. 74/2000 disposta da entrambi i giudici di merito in via subordinata rispetto alla confisca diretta sul patrimonio della società. Attesa la spiccata natura sanzionatoria dell’istituto, la confisca per equivalente può essere disposta solo nell’ipotesi in cui il reo abbia beneficiato di un profitto effettivo dal reato, circostanza che non si sarebbe verificata nel caso de quo in quanto l’imputato non ha ricevuto alcun vantaggio patrimoniale personale dal fatto illecito. In via subordinata, si prospetta una questione di illegittimità costituzionale in relazione all’art 12-bis del D.Igs. 74/2000 per violazione del principio di uguaglianza nella parte in cui equipara irragionevolmente, come destinatari della misura reale, chi abbia tratto utilità diretta dal fatto e chi non abbia percepito alcun incremento patrimoniale personale, subordinandone l’applicazione alla capienza finanziaria della persona giuridica.
Considerato in diritto
1. Come è stato più volte affermato da questa Corte, quando le sentenze di primo e secondo grado concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo, sicché è possibile, sulla base della motivazione della sentenza di primo grado, colmare eventuali lacune della sentenza di appello.
Tale principio va condiviso, con la precisazione che l’integrazione delle motivazioni tra le conformi sentenze di primo e secondo grado è possibile soltanto se nella sentenza d’appello sia riscontrabile un nucleo essenziale di argomentazione, da cui possa desumersi che il giudice del secondo grado, dopo avere proceduto all’esame delle censure dell’appellante, ha fatto proprie le considerazioni svolte dal primo giudice. Più specificamente, va rilevato che l’ambito della necessaria autonoma motivazione del Giudice d’appello risulta correlato alla qualità e alla consistenza delle censure rivolte dall’appellante. Orbene nel caso di specie la sentenza di appello risulta congruamente motivata quanto all’affermazione di responsabilità.
2. Infatti, va osservato che in riferimento al primo motivo di ricorso la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che possono esserci casi nei quali possa invocarsi l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere l’obbligazione tributaria, casi il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito e come tale insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato (cfr. Sez., 3, 05/12/2013, n. 5467/14, Mercutello, Rv. 258055), all’esito dell’adempimento degli oneri di allegazione e di prova che evidenzino l’assoluta impossibilità incolpevole ad adempiere da parte del soggetto tenuto al pagamento dell’imposta. Infatti, l’omesso versamento dell’IVA, dipendente dal mancato incasso per inadempimento contrattuale dei clienti, non esclude la sussistenza del dolo richiesto dall’art. 10-ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, atteso che l’obbligo del versamento prescinde dall’effettiva riscossione delle relative somme e che il mancato adempimento del debitore è riconducibile all’ordinario rischio di impresa (cfr., tra le molte, Sez. 3, n. 6506 del 24/09/2019, dep. 19/02/2020, Mattiazzo, Rv. 278909 – 01).
2.1. Pertanto l’avere i giudici di merito ritenuto insufficiente quanto asserito dall’imputato in relazione alle inadempienze segnalate per la mancata allegazione di elementi di prova circa l’attivazione di azioni volte al recupero del credito, risulta motivazione adeguata, come pure il rilievo della non rilevanza della richiesta di rateazione del debito tributario avanzata nel 2013, successivamente alla consumazione del reato.
3. Di contro risulta presentare motivi di fondatezza il secondo motivo, posto che il giudizio prognostico in ordine alla prognosi di recidivanza è stato ancorato in via esclusiva da un lato, alle vicende di crisi societaria che condussero alla dichiarazione di fallimento del 2015, dall’altro, alle precedenti condotte di omesso versamento dell’IVA per gli anni precedenti. Tale motivazione non costituisce una risposta del tutto pertinente all’articolato motivo di appello – formulato a seguito della mancata concessione del beneficio, invocata nelle conclusioni del giudizio di primo grado – qui riproposto.
3.1. Questo Collegio intende meglio precisare il principio di diritto espresso da un orientamento di questa Corte (cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 42737 del 06/07/2016, R., Rv. 267906 – 01), in contrasto con altro indirizzo (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 17953 del 07/02/2020, Filipache, Rv. 279206 – 02; Sez. 5, n. 57704 del 14/09/2017, P., Rv. 272087 – 01) ed affermare che in tema di sospensione condizionale della pena, nell’esprimere il giudizio prognostico richiesto dalla legge sul comportamento futuro dell’imputato, il giudice deve prendere in considerazione le circostanze indicate dall’art. 133 cod. pen., con riguardo alla personalità dell’imputato stesso e qualora taluni elementi vengano ritenuti prevalenti in senso ostativo alla concessione del beneficio, mentre quelli sottoposti all’esame del giudice di appello a seguito dell’impugnazione possano indurre a propendere per un diverso esito, è necessario che dia conto, con adeguata motivazione, di tale prevalenza, al fine di consentire un controllo sull’uso del potere discrezionale esercitato.
3. Per quanto attiene al terzo motivo, lo stesso non è fondato, atteso che la confisca sarebbe stata ben possibile anche per equivalente, a prescindere da ogni verifica sull’avvenuto arricchimento da parte dell’imputato.
3.1. Giova premettere che l’istituto della confisca per equivalente ha trovato applicazione con riferimento ai reati tributari con la legge 244/2007 che ha disposto l’applicazione dell’art 322-ter c.p. per i delitti agli articoli 2 ad 11 del d.lgs. 74/2000. Successivamente, per mezzo dell’articolo 10 del d.lgs. 158/2015, è stato introdotto l’articolo 12-bis all’interno del d.lgs. 74/2000 che prevede, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 c.p.p. per un illecito tributario, la confisca obbligatoria dei beni che ne costituirono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato (c.d. confisca diretta); ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto (c.d. confisca per equivalente o “di valore”). Il profitto confiscabile, anche nella forma per equivalente, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e può dunque consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovute a seguito dell’accertamento del debito tributario. Per quanto attiene alla natura giuridica della confisca per equivalente, quest’ultima, andando a incidere su beni estranei al fatto di reato, al fine di privare il reo del profitto illecitamente conseguito, persegue finalità afflittive e general-preventive, tali da evidenziarne la natura sanzionatoria. (Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, 255037 – 01)
3.2. Va però osservato, come d’altra parte sottolineato nelle memorie depositate dalla difesa, che in considerazione della declaratoria di prescrizione del reato ascritto, la disposta confisca per equivalente deve essere revocata, atteso che la stessa, essendo orami sottratta al regime delle misure di sicurezza, è soggetta al regime giuridico delle pene, informato ai principi di legalità e irretroattività sanciti dagli art. 25 comma 2 Cost., 7 CEDU e 2 cod. pen.
3.3. Infatti va condiviso l’approdo ermeneutico di alcuni precedenti decisioni di questa stessa Sezione in analoga fattispecie, che ha affermato il principio secondo cui la disposizione dell’art. 578-bis cod. proc. pen., che ha disciplinato la possibilità di mantenere la confisca con la sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione del reato nel caso in cui sia accertata la responsabilità dell’imputato, è applicabile anche alla confisca tributaria ex art. 12-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, ma, ove questa sia stata disposta per equivalente, non può essere mantenuta in relazione a fatti anteriori all’entrata in vigore del citato art. 578-bis cod. proc. pen., atteso il suo carattere afflittivo (così Sez. 3, n. 20793 del 18/03/2021, Rotondi, Rv. 281342 — 01 e Sez. 3, n.39157 del 07/09/2021, Sacrati, non massimata).
Nel caso in esame la confisca per equivalente è stata disposta in relazione a fatti commessi in data 27 dicembre 2012 e quindi in epoca antecedente l’entrata in vigore dell’art. 578- bis, cod. proc. pen., pertanto essa deve essere revocata.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione. Revoca la confisca per equivalente.
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