CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 aprile 2022, n. 12455
Prestazione assistenziale – Assegno mensile di assistenza – Riconoscimento del requisito sanitario – Configurabilità della lite temeraria
Fatti di causa
Con sentenza depositata il 16.3.2016, il Tribunale di Arezzo, decidendo in sede di opposizione ad accertamento tecnico preventivo obbligatorio ex art. 445-bis c.p.c., ha rigettato la domanda di C.C. volta al riconoscimento del requisito sanitario utile ai fini dell’assegno mensile di assistenza e, pur dando atto che la ricorrente doveva essere tenuta esente dalla rifusione delle spese di lite, avendo tempestivamente depositato la prescritta dichiarazione ex art. 152 att. c.p.c., l’ha condannata ex art. 96, comma 3°, c.p.c., a rifondere all’INPS la somma di € 1.800,00.
Il Tribunale, in particolare, ha ritenuto che, in ragione dello scarto esistente tra la percentuale invalidante riscontrata in sede di accertamento tecnico preventivo e quella occorrente per guadagnare la prestazione invocata, la domanda giudiziale dovesse reputarsi meramente speculativa e dannosa per il buon funzionamento del sistema processuale. Avverso tali statuizioni, C.C. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo un motivo di censura, successivamente illustrato con memoria. L’INPS ha resistito con controricorso. La causa è stata rimessa all’udienza pubblica a seguito d’infruttuosa trattazione camerale con ordinanza interlocutoria n. 8218/2018 della Sesta sezione civile di questa Corte, in relazione alla complessità della questione devoluta con il motivo. Il Pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.
Ragioni della decisione
Con l’unico motivo di censura, la ricorrente denuncia violazione degli artt. 96 c.p.c.e 152 att. c.p.c., nel testo modificato dall’art. 42, comma 11, d.l. n. 269/2003 (conv. con l. n. 326/2003), nonché dell’art. 24 Cost., per avere il Tribunale pronunciato condanna ai sensi dell’art. 96, comma 3°, c.p.c.: ad avviso di parte ricorrente, infatti, la circostanza che l’art. 152 att. c.p.c. faccia salva l’applicabilità alle controversie previdenziali e assistenziali del solo primo comma dell’art. 96 c.p.c. renderebbe necessaria, ai fini della condanna per responsabilità aggravata, una esplicita istanza di parte, che nel caso di specie era affatto mancata, nonché un espresso addebito di grave negligenza, che non potrebbe ravvisarsi nella finalità asseritamente speculativa con cui ella aveva coltivato la domanda giudiziale volta ad accertare una condizione di invalidità di cui era stata peraltro portatrice negli anni precedenti (e di cui testimonierebbe lo scarto tra l’invalidità vantata e quella accertata) senza con ciò stesso compromettere il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.
Il motivo è fondato.
Va premesso che l’art. 152 att. c.p.c., nel testo risultante dalla modifica apportata dall’art. 42, comma 11, d.l. n. 269/2003 (conv. con l. n. 326/2003), prevede, per quanto qui rileva, che “nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali o assistenziali la parte soccombente, salvo comunque quanto previsto dall’articolo 96, primo comma, del codice di procedura civile, non può essere condannata al pagamento delle spese, competenze e onorari quando risulti titolare, nell’anno precedente a quello della pronuncia, di un reddito imponibile ai fini IRPEF, risultante dall’ultima dichiarazione, pari o inferiore a due volte l’importo del reddito stabilito ai sensi degli articoli 76, commi da 1 a 3, e 77 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115“.
La norma, come emerge chiaramente dal testo della disposizione cit., assoggetta alla disciplina della soccombenza di cui agli artt. 91 ss. c.p.c.le parti che posseggano redditi superiori al doppio dell’importo del reddito utile ai fini dell’ammissione al gratuito patrocinio, mentre circoscrive alla previsione dell’art. 96 comma 1° c.p.c. la rilevanza della disciplina generale della soccombenza per le parti che posseggano redditi di importo pari o inferiore a tale soglia; e se ciò rende la parte abbiente senz’altro soggetta alle regole generali della soccombenza (in esse incluse, per quanto rileva in questa sede, tutte quelle desumibili dall’art. 96 c.p.c.), si deve per converso ritenere che la parte non abbiente resti sanzionabile in caso di soccombenza solo in caso di responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 comma 1° c.p.c., ossia se “ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave” e sempre che vi sia “istanza dell’altra parte”, specificamente volta, “oltre che alle spese, al risarcimento dei danni”.
Deve pertanto escludersi che alla parte soccombente non abbiente sia applicabile la previsione di cui all’art. 96, comma 3°, c.p.c., la quale, introdotta – com’è noto – dall’art. 45, comma 12, l. n. 69/2009, prevede che “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”: sebbene la locuzione “in ogni caso” possa indurre, prima facie, ad opinare il contrario, militano per l’esclusione solide ragioni di carattere letterale e logico-sistematico.
Da un punto di vista squisitamente letterale, infatti, è agevole rilevare che la formulazione attuale dell’art. 152 att. c.p.c. fa salva l’applicazione alle controversie in esame del solo primo comma dell’art. 96 c.p.c.; e non rileva in contrario che la disposizione di cui al terzo comma sia stata introdotta dopo l’entrata in vigore dell’art. 42, comma 11, d. l. n. 269/2003, giacché un’elementare applicazione del principio lex posterior generaiis non derogat priori speciali vale piuttosto a supportare l’argomento (squisitamente letterale, appunto) dell’ubi lex tacuit noluit.
Da un punto di vista logico-sistematico, poi, affatto diversa è la ratio della previsione del terzo comma dell’art. 96 c.p.c. rispetto a quella desumibile dal precedente primo comma: mentre quest’ultimo configura una forma speciale di responsabilità extracontrattuale derivante da un illecito processuale (così, tra le numerosissime, Cass. nn. 5022 del 1994, 253 del 1999, 3573 del 2002, 16308 del 2007 e 9080 del 2013, nonché Cass. S.U. n. 28226 del 2008), che peraltro resta assoggettata alla regola generale dell’art. 2697 c.c. in ordine all’onere della prova del danno (così già Cass. n. 1384 del 1980, sulla scorta di Cass. n. 110 del 1972, che aveva a sua volta precisato che alla liquidazione del danno non si può procedere neppure equitativamente se mancano elementi idonei ad attestarne l’esistenza), la condanna ex art. 96 comma 3° non richiede né la domanda di parte né la prova del danno, venendo piuttosto in rilievo finalità pubblicistiche correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi e di comminare una sanzione per quella specifica violazione dei doveri di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c. che si sia realizzata attraverso l’abuso della potestas agendi (così, da ult., Cass. S.U. n. 22405 del 2018).
Sotto questo profilo, non possono essere condivise le conclusioni del Pubblico ministero secondo cui l’art. 152 att. c.p.c., lì dove dispone che, nonostante l’esenzione, resta salvo “comunque” quanto previsto dall’art. 96 comma 1° c.p.c., avrebbe voluto precisare, a meri fini di chiarezza interpretativa, ciò che già poteva desumersi sulla base della lettera dell’art. 96 c.p.c., che disciplinerebbe una conseguenza della soccombenza che prescinde dalla pronuncia sulle spese: anzitutto perché l’art. 96, comma 1°, richiede testualmente che la parte sia condannata anche alle spese di lite (“oltre che alle spese”, dice la norma cit. nell’abilitare il giudice procedente anche alla condanna al risarcimento del danno); in secondo luogo perché, quand’anche si volesse supporre che la condanna per lite temeraria possa prescindere da una condanna alle spese, resterebbe comunque indimostrato, per le ragioni anzidette, che il primo e il terzo comma dell’art. 96 c.p.c configurino forme di responsabilità analoghe quanto a finalità e presupposti operativi, ciò che vulnera in radice qualsiasi possibilità di ricorso all’ubi eadem ratio ibi eadem dispositio. E ciò senza considerare che la più recente giurisprudenza di questa Corte – nonostante il contrario avviso di Cass. S.U. nn. 9912 e 22405 del 2018 – ha ritenuto che, ai fini della responsabilità ex art. 96 comma 3° c.p.c., non sarebbe necessario il riscontro dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, essendo all’uopo sufficiente una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di abuso del processo, quale l’avere agito o resistito pretestuosamente (così da ult. Cass. nn. 29812 del 2019, 20018 del 2020, 3830 del 2021).
Né può convenirsi con il Pubblico ministero nell’ulteriore rilievo secondo cui non sarebbe ragionevole che il litigante temerario non abbiente, pur potendo essere condannato ai sensi del primo comma dell’art. 96, non possa esserlo ai sensi del terzo: la disciplina delle spese dei processi per prestazioni previdenziali e assistenziali è storicamente connotata da una sua specialità, a sua volta espressione della discrezionalità rimessa al legislatore al fine di garantire l’effettivo accesso al giudizio da parte dei soggetti meno abbienti (così, tra le tante, Corte cost. nn. 135 del 1987 e 134 del 1994), e non spetta all’interprete alcun sindacato su tale discrezionalità, salvo che il suo esercizio non abbia debordato nell’irrazionalità manifesta e irrefutabile costituzionalmente rilevante (nel senso indicato, ad es., da Corte cost. n. 86 del 2017).
Si deve piuttosto aggiungere che, presupponendo l’art. 96 comma 1° c.p.c. la condanna della parte soccombente alle spese, il significato letteralmente attribuibile al rinvio che ad esso opera l’art. 152 att. c.p.c. non può che consistere nell’esclusione della parte soccombente non abbiente, che abbia agito o resistito con malafede o colpa grave, sia dall’esonero dalle spese che dall’eventuale risarcimento del danno cagionato alla controparte: non vi sono infatti ragioni testuali per ritenere che il possesso di un reddito pari o inferiore al doppio di quello utile ai fini dell’accesso al gratuito patrocinio possa preservare il litigante temerario dalla prima conseguenza connessa alla sua soccombenza, vale a dire la condanna alla rifusione delle spese sopportate dalla controparte, e sarebbe anzi illogico supporre il contrario. Fermo restando che a tanto non potrà pervenirsi che in esito ad apposita domanda dell’ente previdenziale, che assolva agli oneri di allegazione e prova concernenti quanto meno l’an della supposta temerarietà della pretesa (ossia la malafede o la colpa grave della controparte), essendo i poteri ufficiosi del giudice in specie limitati alla liquidazione del danno di cui si siano comunque allegati gli elementi di fatto idonei a dimostrarne l’effettività (così, tra le più recenti, Cass. n. 17902 del 2010).
Pertanto, tenuto conto che la sentenza impugnata ha ritenuto di poter condannare l’odierna ricorrente ai sensi dell’art. 96 comma 3° c.p.c. e che non vi è stato nella specie né alcuna domanda dell’INPS finalizzata alla condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 comma 1° c.p.c. né alcun accertamento dei requisiti necessari a configurare la lite temeraria, il ricorso va accolto e la sentenza cassata ex art. 382 comma 3° c.p.c. nella parte in cui ha disposto la condanna dell’odierna ricorrente al pagamento della somma di € 1.800,00.
Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano e distraggono come da dispositivo.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata nella parte in cui ha disposto la condanna dell’odierna ricorrente al pagamento della somma di € 1.800,00.
Condanna parte controricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in € 2.000,00, di cui € 1.800,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge, e si distraggono in favore del difensore di parte ricorrente, antistatario.
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