CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 4426 depositata il 13 febbraio 2023
Tributi – Indebita detrazione di IVA internazionale – Consolidato nazionale per il 2007 – Registrazione di fatture in omessa svalutazione dei beni – Rimanenze di magazzino – Rigetto
Fatti di causa
A seguito di verifica avviata nel 2009, la società contribuente operante nel settore della concia di pellame era attinta da avvisi di accertamento per l’anno di imposta 2007 sul rilievo di operazioni soggettivamente inesistenti con società di mera facciata che generava una frode carosello, cui seguivano rilievi sulle discrepanze delle rimanenze di magazzino, presunzione di cessione irregolare di beni per decremento magazzino, spese non inerenti, indebita detrazione di IVA internazionale.
Avendo aderito al consolidato nazionale per il 2007, la ripresa a tassazione verso la verificata società si ripercuoteva nei confronti della sua controllante soc. D.M.G. s.p.a., attinta parimenti da consequenziale atto impositivo, donde reagivano le diverse società con distinti ricorsi: qui rilevano i ricorsi proposti da C.T. s.r.l. e dalla consolidante D.M.G., parzialmente accolti in primo grado, con sentenza poi riformata in appello che ha sostanzialmente confermato quindi la ripresa a tassazione, per cui propongono ricorso per cassazione le due società, nelle rispettive posizioni di contribuente direttamente incisa e di controllante solidalmente responsabile per il consolidato nazionale, affidandosi a cinque articolati motivi, cui replica con tempestivo controricorso l’Avvocatura generale dello Stato.
Ragioni della decisione
Vengono proposti cinque mezzi di ricorso.
.I. Con il primo motivo si prospetta censura ex art.360 n. 4 c.p.c. per violazione dell’art. 112 c.p.c., nella sostanza lamenta ultrapetizione e mancata corrispondenza fra chiesto e pronunciato, per aver respinto la CTR il motivo di impugnazione con cui si contestava il capo di sentenza della CTP che aveva accolto la tesi dell’Ufficio tesa a derubricare il rilievo di omessa registrazione di fatture in omessa svalutazione dei beni.
Il profilo è trattato a pagina 4 e in principio di pagina 5 della sentenza in scrutinio, ove il collegio d’appello rileva essere stato fatto buon governo dei principi del processo tributario, a cognizione piena e plasmato sul paradigma dell’annullamento-merito, in cui coesiste la cognizione sui profili procedimentali dell’atto impositivo assieme alla riqualificazione (e rideterminazione) del rapporto tributario sottostante.
In questo senso, sussiste un potere novativo del giudice che si affianca al potere di autotutela dell’Amministrazione finanziaria con l’effetto di riduzione del thema decidendum, senza che sia violato il diritto di difesa.
La questione è stata affrontata più volte da questa Corte con un orientamento cui merita dare continuità. Ed infatti, la natura impugnatoria accertatoria della giurisdizione tributaria, si riflette nel suo carattere misto oggettivo e soggettivo e muove da un atto introduttivo teso alla demolizione di un provvedimento amministrativo a contenuto impositivo al fine di accertare l’esatto perimetro dell’obbligazione tributaria, sicché resta preclusa al giudice di merito la cognizione di vizi del provvedimento non esplicitamente prospettati nel termine decadenziale fissato per la notifica del ricorso. (cfr. Cass. V, n. 10779/2007; n. 13742/2015; Cass.VI – 5, n. 11223/2016; n. 15769/2017). Pertanto, il giudice tributario, nell’ambito di un processo a cognizione piena diretto ad una decisione sostitutiva tendente all’accertamento sostanziale del rapporto controverso, quando ravvisi l’infondatezza parziale della pretesa dell’Amministrazione, non deve, né può, limitarsi ad annullare “in toto” l’atto impositivo, ma deve accertare e quantificare entro i limiti posti dal “petitum” delle parti l’entità della pretesa fiscale, dandone un contenuto quantitativo diverso da quello sostenuto dai contendenti, avvalendosi degli ordinari poteri di indagine e di valutazione dei fatti e delle prove consentiti dagli artt. 115 e 116 c.p.c. in tal modo determinando l’ammontare effettivo delle imposte e delle sanzioni dovute dal contribuente, senza che ciò violi il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e senza che ciò costituisca attività amministrativa di nuovo accertamento, rappresentando invece soltanto l’esercizio dei poteri di controllo, di valutazione e di determinazione del “quantum” della pretesa tributaria (cfr. Cass. V, n. 3080/2021).
Il motivo è pertanto infondato.
.II. Con il secondo motivo si propone censura ex art. 360 n. 4 c.p.c., nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 della Carta repubblicana, nella sostanza lamentando che la riqualificazione operata dal giudice del rilievo contestato dall’ufficio abbia compulsato il diritto di difesa del contribuente, trovatosi di fronte ad una mutazione dell’oggetto.
Secondo codesta Corte la violazione delle norme costituzionali non può essere prospettata direttamente come motivo di ricorso per cassazione ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., in quanto il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri costituzionali, realizzandosi sempre per il tramite dell’applicazione di una norma di legge, deve essere portato ad emersione mediante l’eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata. (Cass. S.U. n. 25573/2020). L’assunto è successivamente affinato, affermando che la violazione o falsa applicazione delle norme costituzionali può essere prospettata direttamente come motivo di ricorso per cassazione ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. quando tali norme siano di immediata applicazione, non essendovi disposizioni di rango legislativo di cui si possa misurare la conformità ai precetti della Carta fondamentale. (Cfr. Cass. S.U. n. 11167/2022). Non rientra fra questi l’art 24 della vigente Costituzione repubblicana, ove predica ” il diritto inviolabile di difesa in ogni stato e grado del procedimento” come norma programmatica, attuata dalle innumerevoli disposizioni di rango legislativo presenti nella disciplina del diritto tributario sostanziale e processuale.
Né può essere invocata la violazione dell’art. 112 c.p.c., poiché – come messo in evidenza nel motivo che precede- la rimodulazione dell’atto impositivo, peraltro in derubricazione, è il riflesso processuale del generale potere di autotutela dell’amministrazione, per le ragioni già indicate nell’esame del precedente motivo.
Il motivo è pertanto inammissibile.
.III. Con il terzo motivo si prospetta censura ex art. 360 n. 3 c.p.c. per violazione degli articoli 2, 3, 23, 53 della Costituzione per aver equiparato la conciliazione giudiziale di cui all’art. 48 d.lgs. n. 546/1992 ad un accordo transattivo, nella sostanza censurando l’affermazione che prevede la disponibilità delle parti sull’obbligazione tributaria, invece attratta al principio di stretta legalità.
Occorre rilevare che la censura non coglie la ratio decidendi, laddove il collegio d’appello si riferisce alla conciliazione solo in modo incidentale, muovendo dalla procedura legislativamente codificata dell’accertamento con adesione, redatto sullo schema del 2patteggiamento o della transazione appunto, per argomentare che il suo mancato perfezionamento non può vincolare né le parti, né tantomeno il giudice nel suo potere-dovere di corretta qualificazione dell’obbligazione tributaria.
Peraltro, il motivo censura – nuovamente – una serie di norne costituzionali programmatiche, insuscettibili di costituire parametro diretto di ricorso per cassazione, secondo le precisazioni indicate dalle Sezioni Unite di questa Corte negli arresti indicati al motivo che precede.
Il motivo è pertanto inammissibile.
.IV. Con il quarto motivo si profila censura ex art. 360 n. 3 c.p.c. per violazione dell’art. 360 n. 3 per violazione degli articoli 1 e 4 del d.P.R. n. 441/1997, per non aver la CTR preso atto che la discrepanza nella riduzione di magazzino fra inizio e fine dell’anno fiscale accertato non deriva da variazione fisica (quantitativa o qualitativa) della merce in rimanenza, ma per una diversa quantificazione finanziaria in base al diverso metodo di valutazione.
La presunzione di cessione irregolare extracontabile (“in nero”) di cui alla citata disposizione legislativa si concreta con il riscontro di mancanza fisica della merce, che si presume quindi venduta, oppure dalla discrepanza fra le diverse scritture contabili. Non di meno, non è questa l’unica presunzione di cessione onerosa non dichiarata prevista dall’ordinamento, poiché residua sempre il sistema delle presunzioni su indizi gravi, precisi e concordanti che impongono un’inversione dell’onere della prova in capo al contribuente. Ed infatti, la verifica, l’atto impositivo e la sentenza qui in scrutinio (fine di pag. 5 e tutta pag. 6) evidenziano tutti gli indizi che sostengono tale presunzione, non smentiti da controprova di parte privata, donde la presunzione sussiste e la sentenza non è affetta dal vizio sollevato, trovando fondamento sugli indicati elementi presuntivi.
Sul punto questa Corte ha ritenuto che in tema di accertamento dell’IVA e delle imposte sui redditi, il rilievo di ammanchi di beni sulla base di scritture contabili non obbligatorie esclude l’applicabilità della disciplina dettata dal d.P.R. n. 441 del 1997, in materia di presunzioni di cessione e di acquisto di beni, la quale presuppone che gli ammanchi siano riscontrati a seguito di un inventario fisico dei beni o di un confronto basato su documentazione contabile obbligatoria. Non sono tuttavia inapplicabili le disposizioni generali che consentono la rettifica delle dichiarazioni fiscali anche sulla base di presunzioni semplici dotate dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c., in quanto queste possono essere desunte anche da documentazione contabile non obbligatoria tenuta dal contribuente e rinvenuta dai verificatori o spontaneamente esibita (cfr. Cass. V, n. 12245/2018, n. 9628/2012).
Il motivo è dunque infondato.
.V. Con il quinto motivo, infine, si prospetta censura ex art. 360 n. 5 c.p.c. per omesso esame di fatto decisivo, oggetto di discussione fra le parti, consistente nella rilevanza che il valore delle rimanenze di magazzino sarebbero diverse in base al criterio applicabile e che il recupero a tassazione sarebbe irrealistico e inverosimile.
Il motivo propone due elementi che non costituiscono fatto storico non considerato, bensì profili valutativi su cui il giudice si è pronunciato espressamente o implicitamente e nella sentenza in scrutinio.
Ed infatti, per completezza argomentativa, quanto alla denuncia di vizio di motivazione, poiché è qui in esame un provvedimento pubblicato dopo il giorno 11 settembre 2012, resta applicabile ratione temporis il nuovo testo dell’art. 360, comma primo, n. 5) c.p.c. la cui riformulazione, disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, secondo le Sezioni Unite deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez.Un. 7 aprile 2014 n. 8053).
Peraltro, il fatto di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 deve concretarsi in un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c. (cioè un “fatto” costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o anche, secondo parte della dottrina e giurisprudenza, un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché controverso. E di tale fatto deve essere indicata anche la natura “decisiva” ai fini del decidere (Cass., Sez. V, n. 16655/2011).
Il motivo è quindi inammissibile.
In definitiva, il ricorso è infondato e dev’essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso, condanna la parte contribuente alla rifusione delle spese di lite del presente giudizio di legittimità che liquida in €.ventiduemila/00 oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R. 115/2002 la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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