Corte di Cassazione, sentenza n. 34092 depositata il 12 novembre 2021
controllo a distanza dell’attività dei lavoratori – controlli difensivi in senso lato – controlli difensivi in senso stretto, diretti ad accertare specificamente condotte illecite – l’onere di dimostrare la sussistenza del motivo ritorsivo, unico e determinante alla base del recesso datoriale ricade sul lavoratore
Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 492/2019 la Corte di appello di Milano, pronunciando in sede di reclamo ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 58, in riforma della sentenza del locale tribunale, ha dichiarato giustificato il licenziamento intimato da T.I.P. s.p.a. (da ora TIP) al dirigente F.A., vicedirettore generale della società, e condannato la società reclamante al pagamento in favore del suddetto dell’indennità sostitutiva del preavviso quantificata nella misura di Euro 193.333,60, oltre accessori dal dovuto al saldo; ha condannato il F. alla restituzione della maggior somma eventualmente percepita in esecuzione della sentenza di primo grado.
2. La Corte territoriale, per quel che ancora rileva, esclusa la natura ritorsiva del recesso datoriale, premesso che al dirigente era stata contestata una rilevante trasgressione del codice etico e una seria violazione dei principi di riservatezza, ha ritenuto priva di riscontro probatorio la contestazione relativa all’inoltro all’esterno a mezzo della posta elettronica aziendale di allegati individuati dalla società come documenti sensibili di proprietà aziendale, dal contenuto altamente riservato e strettamente confidenziale, tali che la loro conoscenza da parte di terzi avrebbe potuto influire in maniera sensibile sul valore del titolo azionario di TIP; ha, invece, ritenuto provati gli addebiti riferiti alla trasmissione all’esterno (a indirizzi personali del F. e del di lui padre) di mail scambiate in azienda, relative a conversazioni riservate con il presidente e con i colleghi conversazioni “che, in quanto attinenti ad operazioni finanziarie in corso, avevano senza alcun dubbio un contenuto riservato e rispetto ai quali vi era un evidente obbligo di riservatezza”, ulteriormente osservando che “la condotta addebitata, così ridimensionata rispetto a quanto formulato in contestazione in assenza della prova dell’inoltro anche di documenti riservati, appare comunque idonea a ledere il rapporto fiduciario e a integrare il concetto di giustificatezza “; il giudice del reclamo ha escluso la violazione da parte della società della L. n. 300 del 1970, art. 4, in quanto la contestazione era stata predisposta sulla base delle risultanze dei file di log in cui l’indicazione dell’oggetto consentiva di individuare le mail inoltrate all’esterno dall’account aziendale del F.; i file di log non erano infatti collocabili tra gli strumenti utilizzati da dipendente per rendere la prestazione lavorativa ed il controllo richiesto da TIP al service provider era conseguenza di un alert verificatosi nel sistema informatico, la tesi del lavoratore secondo la quale tale alert era stato intenzionalmente e ggtoulgrp2gMi provocato dalla società era rimasta priva di riscontro probatorio; la giustificatezza del licenziamento comportava che al dirigente in conseguenza dello stesso spettasse solo l’indennità di preavviso rideterminata come da dispositivo.
3. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso F.A. sulla base di undici motivi; la società intimata ha resistito con controricorso e ricorso incidentale affidato ad un unico motivo; F.A. ha depositato controricorso per resistere al ricorso incidentale;
4. Il PG ha depositato, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, convertito in L. n. 176 del 2020, requisitoria scritta con la quale ha concluso per l’accoglimento del ricorso incidentale assorbito il ricorso principale.
5. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 p.c..
Motivi della decisione
Ricorso principale.
di ricorso principale il ricorrente F. deduce violazione; L. n. 300 del 1970, e dell’art. 34 c.c.n.l. per i Dirigenti Aziende commerciali, Distribuzioni e Servizi, censurando la sentenza impugnata per avere affermato la giustificatezza del licenziamento sulla base di fatti che assume essere diversi da quelli oggetto della lettera di addebito.
Premesso che al dirigente era stato contestato l’invio, attraverso diverse mail, di allegati aventi carattere strettamente confidenziale e contenenti informazioni privilegiata e che, quindi, ciò che rilevava non erano le mail accompagnatorie ma solo gli allegati documenti sensibili, sostiene che, non avendo egli inviato alcun allegato agli account dii posta elettronica menzionati nella contestazione, i fatti oggetto di addebito risultavano materialmente insussistenti e pertanto del tutto inidonei a giustificare il licenziamento ex art. 34 c.c.n.l.; la lettera di contestazione non avrebbe mai potuto fare riferimento alle mail accompagnatorie posto che la medesima sentenza gravata aveva dato atto che la società al momento della contestazione non aveva una visione integrale delle dette mail.
2. Con il secondo motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c., della L. n. 604 del 1966, art. 5, (ove ritenuto applicabile) e dell’art. 34 c.c.n.l. applicabile, censurando la sentenza impugnata laddove, pur avendo affermato non essere stati provati dall’azienda i fatti contestati, aveva ritenuto ingiustificato il licenziamento “in quanto non sarebbero condivisibili le giustificazioni del ricorrente”.
3. Con il terzo motivo di ricorso deduce omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti, censurando la sentenza impugnata per mancato esame della circostanza dedotta dal ricorrente per cui le mail citate nella lettera di contestazione riguardavano società delle quali il F. era Amministratore e, come tale, aveva ampia autonomia e libertà di accesso nella gestione della relativa documentazione, ovvero riguardavano operazioni in cui il ricorrente era membro del Comitato strategico. Tanto rendeva prive di rilevanza disciplinare le condotte
4. Con il quarto motivo di ricorso deduce omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti, censurando l’omesso esame della circostanza dedotta dal ricorrente per cui le mail riportate nella lettera di contestazione non erano state inviate, inviate, come sostenuto da controparte, nel corso del normale orario di lavoro e dal computer assegnato dalla società.
5. Con il quinto motivo di ricorso deduce nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., denunziando omessa pronunzia sulla domanda concernente la generalità della contestazione.
6. Con il sesto motivo di ricorso deduce nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., denunziando omessa pronunzia sulla domanda concernente la inutilizzabilità delle mail alla base della contestazione disciplinare, che assume inopinatamente prodotte ex adverso, e dal documento n. 19 allegato alla memoria in fase sommaria di TIP, in ragione della precisa statuizione inter partes del Garante della Privacy.
7. Con il settimo motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione della n. 300 del 1970, artt. 4 e 8, censurando la sentenza impugnata per avere escrindiRcyzialè3jingi da parte di TIP dell’art. 4 cit. nell’acquisizione dei dati relativi alle mail da cui erano tratte le informazioni alla base della lettera di addebito; ribadisce, inoltre, sulla base delle richiamate risultanze, che TIP aveva provocato intenzionalmente l’incidente dal quale era scaturito l’alert alla base delle verifiche sfociate nel procedimento disciplinare.
8. Con l’ottavo motivo di ricorso deduce omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti, rappresentato dalla richiesta del F. di essere sentito dalla società per rendere le proprie giustificazioni alla contestazione disciplinare; tanto – assume – si evinceva dalla istanza formulata in sede di giustificazioni scritte, di prendere visione, “al fine di integrare le proprie giustificazioni”, dei documenti oggetto di contestazione; sostiene che il mancato accoglimento della richiesta aveva leso i più elementari diritti di difesa del lavoratore.
9. Con il nono motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1345 c.c., in relazione all’art. 2697 c.c., e alla L. n. 300 del 1970, art. 18, censurando la sentenza impugnata impugnata per avere ritenuto non provato il carattere ritorsivo del licenziamento; il giudice del reclamo aveva errato nel porre a carico del F. un onere probatorio di carattere meramente formale in ordine alla natura ritorsiva del licenziamento, pretendendo una “documentazione” del motivo, unico e determinante, del recesso rispetto a ciascuna delle critiche avanzate; insiste, inoltre, sul fatto che l’alert che aveva dato luogo ai controlli sfociati nella contestazione disciplinare era stato artatamente creato dalla società datrice di lavoro.
10. Con il decimo motivo di ricorso deduce nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 p.c., per omessa pronunzia sulla eccezione di decadenza dalla prova di TIP eccezione fondata sul tardivo deposito della memoria in opposizione ex art. 416 c.p.c.; come già evidenziato nella memoria difensiva depositata nel giudizio di appello la memoria di controparte nel giudizio di opposizione era stata depositata in data 11.12.2017, oltre il termine di dieci giorni liberi fissati per la udienza del 21.12. 2017.
11. Con l’undicesimo motivo di ricorso deduce nullità della sentenza per avere omesso di pronunziare sulla istanza ex art. 89 c.p.c., volta ad ottenere la cancellazione di frasi asseritamente sconvenienti utilizzate negli scritti difensivi di TIP. Ricorso incidentale.
12. Con l’unico motivo di ricorso incidentale la società deduce violazione e /o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., e dell’art. 34 c.c.n.l. applicabile, censurando la valutazione di giustificatezza del licenziamento per essere la condotta del dipendente riconducibile alla giusta causa di recesso ex art. 2119 c.c., implicante il venir meno del diritto all’indennità sostitutiva del preavviso.
Esame dei motivi di ricorso principale.
13. Il primo motivo di ricorso principale è infondato.
13.1 Il giudice del reclamo, nel ritenere sfornita di riscontro probatorio la parte della contestazione relativa all’inoltro a terzi di documenti di contenuto altamente riservato e provata, viceversa, la parte della contestazione relativa alla trasmissione all’esterno di mail scambiate con il presidente della società e con i colleghi, ha mostrato di interpretare l’oggetto della lettera di contestazione disciplinare come comprensivo non solo dell’addebito relativo relativo all’inoltro all’esterno di documenti altamente riservati ma anche della ipotesi “minore”, poi ritenuta in concreto sussistente, rappresentata dalla diffusione all’esterno di mail aziendali che per il loro contenuto imponevano un obbligo di riservatezza.
13.2 Posto che la ricostruzione del contenuto della lettera di contestazione è il risultato o di un procedimento interpretativo della medesima, per scalfire le conclusioni attinte dal giudice di merito circa la esistenza di un duplice ordine di addebiti formulato dalla società datrice, occorreva la deduzione di violazione dei criteri legali di interpretazione ex art. 1362 e sgg., applicabili anche agli atti unilaterali ove compatibili, deduzione neppure formalmente prospettata dall’odierno ricorrente; tanto assorbe il profilo di inammissibilità collegato alla violazione del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, per la mancata integrale trascrizione del contenuto della lettera di contestazione riprodotta in ricorso solo parzialmente (v. ricorso, pag. 8, primo rigo).
14. Il secondo motivo di ricorso è da respingere.
14.1 La censura che ascrive al giudice del reclamo la errata applicazione del criterio di riparto dell’onere della prova in tema di licenziamento non trova riscontro nella decisione impugnata.
14.2 Le doglianze formulate con il motivo in esame muovono dalla inesatta prospettiva che oggetto di contestazione fosse solo l’invio di documenti contenenti informazioni privilegiate e non anche la condotta di diffusione all’esterno di mail aziendali riservate. Ciò posto, considerato che alla stregua di quanto osservato in sede di esame del motivo precedente, il giudice del reclamo ha mostrato di considerare compreso nella lettera di contestazione anche l’addebito consistente nell’invio all’esterno delle mail con le conversazioni riservate, non sussiste alcuna violazione del criterio dell’onere della prova avendo il giudice di appello espressamente ritenuto accertata la parte di addebiti riferiti a tale seconda ipotesi (sentenza, 6, terzo capoverso); l’accertamento operato dal giudice di merito sulla base delle risultanze di causa esclude in radice che la questione sia stata decisa sulla base di un sovvertimento del criterio di distribuzione della prova, nel senso di di porre a carico del F. la dimostrazione dell’assenza di responsabilità per la condotta contestata, in violazione dell’onere pacificamente gravante sulla parte datoriale ai sensi dell’art. 2697 c.c., e della L. n. 604 del 1966, art. 5; la valutazione di non condivisibilità delle giustificazioni addotte dal F., nel contesto argomentativo della decisione, non si configura quale elemento sulla cui base è stato fondato l’accertamento delle sussistenza delle condotte addebitate ma si colloca in un momento successivo, di valutazione del complessivo comportamento del dirigente alla luce delle spiegazioni dallo stesso offerte, ritenute non persuasive e quindi inidonee ad escludere la giustificatezza del recesso datoriale.
15. il terzo motivo di ricorso deve essere esaminato per connessione unitamente al settimo motivo.
16. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile per difetto di decisività delle circostanze delle quali si denunzia omesso esame, come invece prescritto al fine della valida censura della decisione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (v. per tutte, Sez. Un. 8053 del 2014); gli elementi relativi all’orario di invio delle mail e al fatto che le stesse fossero o meno state inviate dal pc aziendale in orario di lavoro, non appaiono, infatti, decisivi nel senso che la relativa considerazione avrebbe determinato, con carattere di certezza e non di mera probabilità un diverso esito della lite (v. tra le altre, Cass. n. 24092 del 2013); la Corte di merito ha, infatti, mostrato di interpretare il tenore della lettera di contestazione come inteso a far valere essenzialmente la violazione dell’obbligo di riservatezza gravante sul dirigente e non la violazione del dovere di diligenza in ipotesi connesso all’invio delle mail nell’ambito dell’orario di lavoro, violazione peraltro incongrua considerato il livello elevato nella gerarchia aziendale rivestito dal F..
17. Il quinto e il sesto motivo di ricorso sono inammissibili alla luce del condivisibile orientamento di questa Corte secondo il quale non è configurabile il vizio di omessa pronunzia su una eccezione (così riqualificata la deduzione del ricorrente principale svolta nei motivi in oggetto) di merito qualora essa, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione in concreto adottata deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima, sicchè il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 c.p.c.), bensì come violazione di legge e difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto non preso in considerazione (v., tra le altre, Cass. n. 14953 del 2020).
16.1. Tale è la situazione verificatasi nel caso in esame in quanto l’accertamento della giustificatezza del licenziamento implica il rigetto della eccezione di genericità della contestazione (quinto motivo) così come implica, per le ragioni che sostengono l’accertamento di fondatezza dell’addebito, il rigetto della eccezione relativa alla inutilizzabilità delle mail e del documento n. 19 allegato alla memoria in fase sommaria di TIP (sesto motivo). Quest’ultima considerazione assorbe il profilo di inammissibilità del sesto motivo derivante dalla mancata integrale trascrizione, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, dei documenti alla base delle censure articolate.
18. L’ottavo ed il nono motivo del ricorso principale, che per il carattere dirimente collegato al relativo accoglimento sono esaminati con priorità rispetto al settimo motivo, sono da respingere.
19. La sentenza impugnata ha ritenuto correttamente espletata la procedura disciplinare ed escluso violazioni del diritto di difesa del dirigente “non avendo il lavoratore richiesto di essere sentito” ed avendo inviato una lettera di giustificazioni dalla quale risultava che egli aveva ben compreso a quali atti la contestazione faceva riferimento. Tanto premesso, l’omesso esame denunziabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per costante giurisprudenza di questa Corte (v., tra le altre, oltre Cass. Sez. Un. 8053/2014 cit. Cass. n. 27325 del 2017, Cass., n. 9749 del 2016) deve riguardare un fatto inteso nella sua accezione storico-fenomenica, principale (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria), la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che abbia carattere decisivo, laddove le censure articolate dal ricorrente, volte a contestare la ricostruzione del contenuto della lettera di giustificazione inviata da F. con riferimento alla richiesta di essere sentito, pongono un problema di corretta interpretazione della stessa che avrebbe dovuto più propriamente essere veicolato con la deduzione di violazione dei criteri legali di interpretazione ex art. 1362 c.c. e ss., applicabile anche agli atti unilaterali, come invece non avvenuto.
20. Il nono motivo di ricorso è infondato.
20.1 La sentenza impugnata, osservato che la società aveva provato la esistenza di ragioni giustificative del recesso, ha ritenuto che il F., sul quale incombeva il relativo onere, non aveva offerto dimostrazione dell’assunto relativo all’esistenza del motivo ritorsivo non avendo trovato sostegno probatorio il generico e imprecisato quadro di vessazioni lamentate, quadro smentito dalla documentazione prodotta e tra l’altro dalle mail scambiate con il presidente della società dalle quali emergeva una situazione lavorativa che si protraeva in maniera soddisfacente, come confermato dalla carriera ai vertici della società; neppure trovava riscontro il fatto della sottoposizione del dirigente ad una situazione di superlavoro. Tanto premesso non sussiste il denunziato errore di diritto posto che l’onere di dimostrare la sussistenza del motivo ritorsivo, unico e determinante alla base del recesso datoriale ricade sul lavoratore (Cass. n. 23583 del 2019; Cass. n. 9468 del 2019; Cass. n. 14753 del 2000). Le ulteriori censure sono inammissibili in quanto investono la valutazione delle emergenze in atti che è riservata al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità., ove sorretta da argomentazioni congrue e logiche, come nello specifico.
21. Il settimo motivo di ricorso è fondato.
21.1 La questione posta con il motivo in esame investe il tema della sopravvivenza dei controlli d. difensivi anche dopo la modifica dell’art. 4 St. lav. ad opera del D.Lgs. n. 151 del 2015, art. 23, applicabile ratione temporis.
21.2 Nella formulazione previgente la norma contemplava due livelli di protezione della sfera privata del lavoratore: uno pieno, mediante la previsione del divieto assoluto di uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori non sorretto da ragioni inerenti all’impresa (ossia, il cd. controllo fine a sè stesso); l’altro affievolito, ove le ragioni del controllo fossero state riconducibili ad esigenze oggettive dell’impresa, ferma restando l’attuazione del controllo stesso con l’osservanza di determinate “procedure di garanzia”.
21.3 La giurisprudenza di questa Corte nel ricostruire la ratio ispiratrice della disciplina dettata dall’art. 4 St. Lav. ha evidenziato che la disposizione statuaria si inscrive in quella complessa normativa diretta da un lato a contenere in vario modo le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore, sul presupposto – espressamente precisato nella Relazione ministeriale – che la vigilanza sul lavoro, ancorchè necessaria nell’organizzazione produttiva, vada mantenuta in una dimensione umana, e cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro. Si è altresì precisato, d’altro canto, che la garanzia procedurale prevista per impianti ed apparecchiature ricollegabili ad esigenze produttive contempera l’esigenza di tutela del diritto dei lavoratori a non essere controllati a distanza e quello del datore di lavoro, o, se si vuole, della stessa collettività, relativamente alla organizzazione, produzione e sicurezza del lavoro, individuando una precisa procedura esecutiva e gli stessi soggetti ad essa partecipi (Cfr., per tutte, Cass. n. 15892 del 2007, in motivazione, sulla scorta di Cass. n. 8240 del 2000, del pari in motivazione, richiamata, sul punto, in quasi tutte le sentenze successive vertenti sul tema).
21.4 Questione centrale, dal punto di vista del tema che oggi occupa la Corte, era verificare se l’esigenza di tutela del patrimonio aziendale potesse esonerare il datore intenzionato ad installare apparecchiature di controllo a distanza indipendentemente dall’autorizzazione sindacale od amministrativa.
21.5 La soluzione che ha tale questione è stata offerta dal più evoluto indirizzo giurisprudenziale di legittimità, frutto dell’elaborazione della categoria dei controlli c.d. difensivi, è stata nel senso che “esulano dall’ambito di applicazione dell’art. 4, comma 2, St. lav. (nel testo anteriore alle modifiche di cui al D.Lgs. n. 151 del 2015, art. 23, comma 1) e non richiedono l’osservanza delle garanzie ivi previste, i controlli difensivi da parte del datore se diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale, tanto più se disposto ex post, ossia dopo l’attuazione del comportamento in addebito, così da prescindere dalla mera sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa“. (Cass. n. 13266 del 2018).
In altri termini, in sintesi (rinviando per una più completa ricognizione delle problematiche sottese alla verifica dei presupposti di legittimità dei controlli a distanza a Cass. 25732 del 2021 e a Cass. n. 25731 del 2021), nella disciplina previgente, al fine della legittimità del controllo difensivo, si richiedeva: a) che l’iniziativa datoriale avesse la finalità specifica di accertare determinati comportamenti illeciti del lavoratore; b) che gli illeciti da accertare fossero lesivi del patrimonio o dell’immagine aziendale (v., tra le altre, Cass. n. 2722 del 2012); c) che i controlli fossero stati disposti ex post, vale a dire dopo l’attuazione del comportamento in addebito tenuto dal lavoratore, così da prescindere dalla mera sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa; nella elaborazione giurisprudenziale tale ultimo presupposto, a differenza dei primi due ritenuti indispensabili, era solo eventuale nel senso che ad esso si riconosceva valenza meramente confermativa della effettività del controllo difensivo (Cass. n. 19922 del 2016, Cass. n. 3590 del 2011). Restava, in ogni caso ferma, la esigenza che i “controlli difensivi”, pur sottratti all’area di operatività dell’originaria versione dell’art. 4, comma 2, St. lav., fossero comunque esercitati dal datore di lavoro nel rispetto delle regole di civiltà e di criteri ragionevoli volti a garantire, con l’impiego di determinati accorgimenti e cautele, un adeguato bilanciamento tra le esigenze di salvaguardia della dignità e riservatezza del dipendente e quelle di protezione, da parte del datore di lavoro, dei beni (in senso lato) aziendali. (cfr. Cass. n. 10955 del 2015, in motivazione; Cass. n. 17723 del 2017, in motivazione).
21.6 Occorre ora esaminare se ed in che termini tale impianto concettuale ed in particolare la ammissibilità di “controlli difensivi”, nel senso ora precisato, sia sopravvissuto nel regime normativo fissato dalla nuova formulazione dell’art. 4 St. , ad opera del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151, art. 23, il quale, per quanto qui interessa, prevede: “1. La L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 4, è sostituito dal seguente: Art. 4 (Impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo). – 1. Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo gli impianti e gli strumenti di cui al periodo precedente possono essere installati previa autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più Direzioni territoriali del lavoro, del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. 2. La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze. 3. Le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196”. Il D.Lgs. 24 settembre 2016, n. 185, art. 5, comma 2, dispone: “Alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 4, comma 1, il terzo periodo è sostituito dai seguenti: In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione delle (recte: della) sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi”.
21.7 A riguardo il Collegio condivide la soluzione e le argomentazioni che sulla questione hanno dato le richiamate sentenze nn. 25731 e 25732 del 2021 alle quali, per quanto qui non esplicitato, rinvia anche ai sensi dell’art. 118 att. c.p.c.. In tali pronunzie è stato precisato che la nuova formulazione dell’art. 4 St. lav., ribadisce implicitamente la regola che il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori non è legittimo ove non sia sorretto dalle esigenze indicate dalla norma stessa. Sicchè il controllo “fine a sè stesso”, eventualmente finalizzato ad accertare inadempimenti del lavoratore che attengano alla effettuazione della prestazione, continua ad essere vietato. Ciò non esclude, però, come si era ritenuto con riguardo alla superata disposizione dell’art. 4 St.lav., che ove il controllo sia invece legittimo, le informazioni raccolte in esito ad esso possano essere utilizzate dal datore di lavoro per contestare al lavoratore ogni sorta di inadempimento contrattuale.
E’ stato evidenziato inoltre che i controlli aventi ad oggetto il patrimonio aziendale sono, ai sensi della nuova versione dell’art. 4 St.lav., assoggettati ai presupposti di legittimità ivi previsti, per cui si pone la questione se essi non debbano oramai ritenersi completamente attratti nell’area di operatività dell’art. 4 St. lav., avendo il legislatore indicato, tra le esigenze da soddisfare mediante l’impiego dei dispositivi potenzialmente fonte di controllo, accanto a quelle organizzative e produttive e a quelle relative alla sicurezza del lavoro, per l’appunto quelle di “tutela del patrimonio aziendale”, ovvero se anche sotto l’impero della nuova versione dell’art. 4 St. lav. debba continuare a riconoscersi ai controlli difensivi diritto di cittadinanza.
In tale ottica, tenuto conto della elaborazione giurisprudenziale maturata nel vigore della disciplina previgente, si è avvertita la necessità di distinguere tra i controlli difensivi in senso lato, vale a dire quelli a difesa del patrimonio aziendale che riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di dipendenti) nello svolgimento della loro prestazione di lavoro che li pone a contatto con tale patrimonio, controlli che dovranno necessariamente essere realizzati nel rispetto delle previsioni dell’art. 4 novellato in tutti i suoi aspetti e controlli difensivi in senso stretto, diretti ad accertare specificamente condotte illecite ascrivibili – in base a concreti indizi – a singoli dipendenti, anche se questo si verifica durante la prestazione di lavoro; si è ritenuto che tali ultimi controlli, anche se effettuati con strumenti tecnologici, non avendo ad oggetto la normale attività del lavoratore, si situino, anche oggi, all’esterno del perimetro applicativo dell’art. 4. Ciò in quanto la istituzionalizzazione della procedura richiesta dall’art. 4, per l’installazione dell’impianto di controllo appare coerente con la necessità di consentire un controllo sindacale, e, nel caso avrebbe l’applicazione della stessa procedura anche nel caso di eventi straordinari ed eccezionali costituiti dalla necessità di accertare e sanzionare gravi illeciti di un singolo lavoratore.
21.8 La tesi della sopravvivenza dei controlli cd. difensivi è stata in linea di principio ritenuta compatibile con la tutela della riservatezza di cui all’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, trovando la stessa conforto nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo (in particolare nella sentenza di Grande Camera del 17 ottobre 2019, nel caso Lopez Ribalda e altri c. Spagna).
21.9 Una volta collocato il tema dei controlli difensivi cd. in senso stretto al di fuori dell’ambito applicativo dell’art. 4 St. lav., comma 1, si è posta tuttavia l’esigenza di individuare dei limiti all’esercizio del relativo potere datoriale di controllo ed in questa prospettiva è stato osservato: ” Innanzitutto, va riaffermato il principio, già richiamato, espresso dalla giurisprudenza di questa Corte formatasi nel vigore della precedente formulazione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, secondo cui in nessun caso può essere giustificato un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore (Cass. n. 15892 del 2007, cit.; Cass. n. 4375 del 2010,cit. ; Cass. n. 16622 del 2012, cit.; Cass. n. 9904 del 2016; Cass. n. 18302 del 2016, cit.).
Occorrerà dunque, nel rispetto della normativa Europea, e segnatamente dell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo come interpretato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, assicurare un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, con un contemperamento che non può prescindere dalle circostanze del caso concreto (Cass. 26682/2017, cit.). Non va infatti dimenticato che, nel caso Barbulescu c. Romania, sentenza della Grande Camera del 5 settembre 2017, la Corte Europea dei diritti dell’uomo, chiamata a pronunciarsi – in relazione al detto art. 8 – con riguardo ad un caso in cui un datore di lavoro aveva sottoposto a controllo il software aziendale Yahoo Messenger in uso al lavoratore, onde verificarne un indebito utilizzo, ha fornito una interpretazione estensiva del concetto di “vita privata”, tanto da includervi la “vita professionale”, così ritenendo che lo Stato rumeno avesse tenuto un comportamento non conforme alle garanzie accordate dalla norma della Convenzione, per avere le Corti nazionali omesso di accertare se il lavoratore avesse ricevuto una preventiva informazione dal suo datore di lavoro della possibilità che le sue comunicazioni su Yahoo Messenger potessero essere controllate; inoltre, per non avere valutato se il lavoratore medesimo fosse stato posto a conoscenza della natura e della estensione del controllo o del grado di intrusione nella vita e nella corrispondenza privata; infine, per non avere accertato le specifiche ragioni che giustificavano l’adozione di dette misure di controllo e se il datore di lavoro avrebbe potuto utilizzare misure meno intrusive, nè se l’accesso al contenuto delle comunicazioni fosse stato compiuto senza che il lavoratore ne avesse consapevolezza. Inoltre, e il punto è particolarmente rilevante nel caso in esame, per essere in ipotesi legittimo, il controllo “difensivo in senso stretto” dovrebbe quindi essere mirato, nonchè attuato ex post, ossia a seguito del comportamento illecito di uno o più lavoratori del cui avvenuto compimento il datore abbia avuto il fondato sospetto, sicchè non avrebbe ad oggetto Imattività” – in senso tecnico – del lavoratore medesimo. Il che è sostanzialmente in linea con gli ultimi approdi della giurisprudenza di questa Corte, più sopra richiamati, in materia di controlli difensivi nella vigenza della superata disciplina.
Occorre però chiarire cosa si intenda per tale controllo. Esso infatti non dovrebbe riferirsi all’esame ed all’analisi di informazioni acquisite in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 4 St.lav., poichè, in tal modo opinando, l’area del controllo difensivo si estenderebbe a dismisura, con conseguente annientamento della valenza delle predette prescrizioni. Il datore di lavoro, infatti, potrebbe, in difetto di autorizzazione e/o di adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, nonchè senza il rispetto della normativa sulla privacy, acquisire per lungo tempo ed ininterrottamente ogni tipologia di dato, provvedendo alla relativa conservazione, e, poi, invocare la natura mirata (ex post) del controllo incentrato sull’esame ed analisi di quei dati. In tal caso, il controllo non sembra potersi ritenere effettuato ex post, poichè esso ha inizio con la raccolta delle informazioni; quella che viene effettuata ex post è solo una attività successiva di lettura ed analisi che non ha, a tal fine, una sua autonoma rilevanza. Può, quindi, in buona sostanza, parlarsi di controllo ex post solo ove, a seguito del fondato sospetto del datore circa la commissione di illeciti ad opera del lavoratore, il datore stesso provveda, da quel momento, alla raccolta delle informazioni. Facendo il classico esempio dei dati di traffico contenuti nel browser del pc in uso al dipendente, potrà parlarsi di controllo ex post solo in relazione a quelli raccolti dopo l’insorgenza del sospetto di avvenuta commissione di illeciti ad opera del dipendente, non in relazione a quelli già registrati” (Cass. Sentenze nn. 25731 e 25732 del 2021).
21.10 Così ricostruito il quadro entro il quale i “controlli difensivi” tecnologici possono considerarsi ancora legittimi dopo la modifica dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, si deve rilevare che la sentenza impugnata non è con esso coerente in quanto nel ritenere utilizzabili le informazioni alla base della contestazione disciplinare ha fatto riferimento alla circostanza che esse erano state acquisite tramite file di log che non rientravano tra gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e che il controllo richiesto da TIP al service provider era conseguenza dell’alert verificatosi”. Tali elementi non sono tuttavia decisivi al fine della verifica di ammissibilità dei controlli in quanto occorreva indagare sia sulla esistenza di un fondato sospetto generato dall’alert proveniente dal sistema informatico in ordine alla commissione di attività illecita da parte dei dipendenti sia se i dati informatici rilevanti, utilizzati poi in sede disciplinare, fossero stati raccolti prima o dopo l’insorgere del fondato sospetto, in violazione dei principi esposti. E’ pure mancata ogni valutazione circa il corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore. Come si è osservato, il controllo ex post non può riferirsi all’esame ed all’analisi di informazioni acquisite in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 4 St.lav. prima dell’insorgere del “fondato sospetto”, poichè, in tal modo opinando, l’area del controllo difensivo si estenderebbe a dismisura, con conseguente annientamento della valenza delle predette prescrizioni. Il datore di lavoro, infatti, potrebbe, in difetto di autorizzazione e/o di adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, nonchè senza il rispetto della normativa sulla privacy, acquisire per lungo tempo ininterrottamente ogni tipologia di dato, provvedendo alla relativa conservazione, e, poi invocare la natura mirata (ex post) del controllo incentrato sull’esame ed analisi di quei dati.
21.11 In base alle considerazioni che precedono il settimo motivo deve essere accolto e la sentenza cassata con rinvio ad altro giudice di secondo grado per il riesame della concreta fattispecie alla luce dei principi enunciati.
22. L’accoglimento del settimo motivo di ricorso determina l’assorbimento dell’esame del terzo motivo di ricorso principale e del ricorso incidentale.
23. Il decimo motivo di ricorso è inammissibile in quanto non è configurabile il vizio di omesso esame di una questione (connessa ad una prospettata tesi difensiva) o di un’eccezione di nullità (ritualmente sollevata o sollevabile d’ufficio), quando debba ritenersi che tali questioni od eccezioni siano state esaminate e decise implicitamente; peraltro, il mancato esame da parte del giudice, sollecitatone dalla parte, di una questione puramente processuale non può dar luogo al vizio di omessa pronunzia, il quale è configurabile con riferimento alle sole domande di merito, e non può assurgere quindi a causa autonoma di nullità della sentenza, potendo profilarsi al riguardo una nullità (propria o derivata) della decisione, per la violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c., in quanto sia errata la soluzione implicitamente data dal giudice alla questione sollevata dalla parte (Cass. n. 7406/2014, Cass. n. 13649 del 2005).
24. E’ inammissibile l’undicesimo motivo del ricorso principale dovendo darsi continuità al condivisibile l’orientamento di questa Corte secondo il quale l’ordine di cancellazione di frasi sconvenienti ed offensive connessa all’esigenza di assicurare il decoro del procedimento e la serenità del giudizio è affidata al potere discrezionale del giudice (esercitabile anche d’ufficio) ed è insindacabile in Cassazione non solo per il modo di esercizio di tale potere, ma anche in caso di mancata pronuncia in relazione ad una specifica richiesta di parte atteso che tale istanza è configurabile come una semplice sollecitazione ed il silenzio del giudice implica esercizio negativo del suo potere (Cass. n. 12479 del 2004; Cass. n. 9040 del 1994; Cass. n. 4237 del 1987).
25. Al giudice del rinvio è demandato il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il settimo motivo di ricorso principale, dichiara assorbiti il terzo motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale, e rigetta gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche ai fini del regolamento delle spese del giudizio di legittimità alla Corte di appello di Milano in diversa composizione.
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