CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 24813 depositata il 18 agosto 2023
Lavoro – Violazioni dei doveri d’ufficio Polizia municipale – Sanzione disciplinare del licenziamento con preavviso – Reclamo – Trasmissione di una notizia di reato – Indagini autonome – Riferire la notizia di reato – Precedenti disciplinari – Gradazione sanzione – Rigetto
Fatti di causa
La Corte d’Appello di Catania, rigettando il reclamo ex art. 1, commi 58 e ss., della legge n. 12 del 2012, ha confermato la sentenza del tribunale della medesima città, in funzione di giudice del lavoro, che aveva a sua volta respinto il ricorso di F.G., già dipendente del Comune di Calatabiano operante nel corpo della Polizia Municipale, contro la sanzione disciplinare del licenziamento con preavviso irrogatagli per violazioni dei doveri d’ufficio di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto.
Contro tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi. Il Comune di Calatabiano ha presentato controricorso. La causa, inizialmente fissata per la trattazione in camera di consiglio davanti all’apposita sezione indicata nell’art. 376, comma 1, c.p.c., è stata rimessa alla pubblica udienza, ai sensi dell’art. 380-bis, comma 3, c.p.c., con ordinanza interlocutoria del 30.11.2022. Il Pubblico Ministero ha depositato le proprie conclusioni scritte per la dichiarazione di inammissibilità o, in subordine, per il rigetto, del ricorso. Il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. Alla pubblica udienza le parti non sono intervenute.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia «violazione degli artt. 116 c.p.c., 1362, 1363, 1366, 1367 c.c. con conseguente falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 55 e 57 c.p.p., artt. 329 c.p.p., 331 c.p.p., 347 c.p.p., 354 e 361 c.p.p. nonché dell’art. 9 della legge n. 65 del 1986, art. 4 legge regionale Sicilia n. 17 del 1°.8.1990 e art. 113 disp. att. c.p.p.».
In sintesi, il ricorrente si lamenta che la corte territoriale non abbia riconosciuto nei fatti a lui contestati nel provvedimento disciplinare i connotati dell’adempimento di un dovere d’ufficio.
1.1. Il fatto – come accertato nel giudizio di merito e con riguardo al quale questa Corte è chiamata ora a svolgere il controllo sull’esatta applicazione delle norme di diritto – consiste nello svolgimento di indagini di polizia giudiziaria di iniziativa del ricorrente, senza preventiva informazione alla Procura della Repubblica, su un possibile reato commesso dal Sindaco del Comune e da un altro agente della Polizia Municipale, i quali, secondo non meglio precisate «voci di piazza», avrebbero fatto uso di un’auto di servizio per scopi non istituzionali.
1.2. Il motivo è infondato.
Il ricorrente dichiara di avere appreso da «voci di piazza» che un suo collega e il Sindaco del Comune si sarebbero recati a Catania, per una riunione politica, utilizzando indebitamente l’automobile della Polizia Municipale. Tale notizia venne da lui tempestivamente e formalmente comunicata al suo superiore gerarchico. Alcuni giorni più tardi egli convocò un altro agente della Polizia Municipale e lo stesso superiore gerarchico per interrogarli quali persone informate sui fatti e negò al suo superiore l’indicazione della fonte della notizia di reato, giustificandosi col prospettare un suo possibile futuro coinvolgimento nel procedimento penale.
La sentenza impugnata precisa che «l’illecito disciplinare [consiste] non nella trasmissione di una notizia di reato ma nello stesso svolgimento di indagini autonome nei confronti dei colleghi, disconoscendo il ruolo e le funzioni del responsabile della Polizia Municipale e sulla base di asserite “voci di piazza”». Il ricorrente cerca di sostenere che, al contrario, con tali indagini egli avrebbe semplicemente adempiuto il proprio dovere di agente di polizia giudiziaria, in una situazione in cui «le ragioni di necessità e di urgenza probatoria erano legate proprio alle particolari funzioni rivestite dai soggetti che si assumeva[no] avere compiuto un possibile atto illecito».
A tale argomento è agevole replicare – sulla scorta delle stesse disposizioni di legge invocate dal ricorrente – che il primo obbligo dell’ufficiale e dell’agente di polizia giudiziaria è proprio quello di riferire la notizia di reato al pubblico ministero, cosa che deve essere fatta «senza ritardo» (art. 347 c.p.p.). Il fatto che la notizia di reato si riferisca a persone della medesima amministrazione e dello stesso reparto di cui fa parte anche l’agente che l’ha acquisita non può certo attenuare l’obbligo di tempestiva informazione all’autorità giudiziaria, ma anzi lo rende ancor più stringente, dovendosi evitare anche solo il sospetto che le indagini penali vengano utilizzate come strumento indebito per regolare conti all’interno dell’ente pubblico. Nel contesto indicato dal ricorrente sarebbe stato giustificato piuttosto trasmettere immediatamente la notizia di reato al pubblico ministero, senza avvisare i colleghi potenzialmente coinvolti, ma non certo ritardare l’adempimento di cui all’art. 347 c.p.p. e svolgere nel frattempo indagini di propria iniziativa.
I poteri di iniziativa che gli artt. 55, 352, 354 c.p.p. e 113 disp. att. c.p.p. attribuiscono, in caso di necessità ed urgenza, agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria non riguardano l’assunzione di sommarie informazioni da parte di persone facilmente identificabili e già identificate (quali sono chiaramente i colleghi dell’agente), ma soltanto la perquisizione personale e locale, nonché gli accertamenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone. In ogni caso, nella situazione descritta dal ricorrente non si ravvisano gli estremi della «particolare necessità e urgenza» di compiere atti istruttori, né tale preciso requisito di legge può essere superato con l’apodittica affermazione che la «urgenza probatoria era in re ipsa» (pag. 3 della memoria illustrativa per parte ricorrente).
In definitiva, trascurati i riferimenti normativi che, seppure inseriti nella rubrica del motivo, sono assolutamente non pertinenti e non vengono più menzionati nella successiva illustrazione (artt. 1362 e ss. c.c.), si deve escludere che la sentenza impugnata, confermando l’illiceità disciplinare del comportamento tenuto dal ricorrente, abbia fatto falsa (dis)applicazione delle norme di diritto che impongono agli agenti di polizia giudiziaria l’adempimento delle loro funzioni nell’ambito del procedimento penale.
2. Il secondo motivo di ricorso censura un’asserita «violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., degli artt. 2119, 2104 e 2106 c.c., dell’art. 54bis del d.lgs. n. 165 del 2001, dell’art. 1 della legge n. 604 del 1966, dell’art. 18 legge n. 300 del 1970, dell’art. 3, comma 7, lett. i, del CCNL comparto Regioni e Autonomie locali dell’11.4.2008».
Il ricorrente contesta, con questo motivo, la violazione del principio di proporzionalità tra la gravità dell’illecito disciplinare contestato e la sanzione applicata.
2.1. Il motivo è inammissibile.
La corte d’appello ha riempito di contenuto il «principio di gradualità e proporzionalità delle sanzioni in relazione alla gravità della mancanza» avendo riguardo ai pertinenti criteri tra quelli indicati dall’art. 3, comma 1, del CCNL Regioni e Autonomie locali dell’11.4.2008 (disposizione contrattuale che ha dato attuazione alla delega contenuta nell’art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001): «l’intenzionalità del comportamento, la rilevanza degli obblighi violati, la responsabilità connessa alla posizione di lavoro occupata dal dipendente, la sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti, con particolare riguardo al comportamento del lavoratore e ai precedenti disciplinari nell’ambito del biennio previsto dalla legge, [il] grado di danno o di pericolo di danno causato all’ente».
Per quanto riguarda i precedenti disciplinari nel biennio, non è rilevante che essi fossero soltanto due (e non tre come indicato nella sentenza, essendo il terzo precedente anteriore rispetto al biennio), posto che il licenziamento non venne comminato ai sensi dell’art. 3, comma 7, lett. a, del CCNL («recidiva plurima, almeno tre volte nell’anno»), bensì ai sensi della successiva lett. I («violazione dei doveri di comportamento non ricompresi specificatamente nelle lettere precedenti di gravità tale secondo i criteri di cui al comma 1, da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro»). I precedenti, pertanto, in questo caso non connotano la fattispecie dell’illecito disciplinare, ma rilevano soltanto ai fini della graduazione della sanzione, secondo la disposizione generale contenuta nel comma 1 dell’art. 3 del CCNL.
Una volta escluso che la corte territoriale abbia commesso errori nell’individuazione dei criteri da utilizzare, il concreto apprezzamento sulla congruità della sanzione rientra nel perimetro del giudizio di merito, che non è sindacabile in sede di legittimità, tanto più in un caso di doppia decisione conforme dei giudici di primo e di secondo grado (art. 348ter, commi 4 e 5, c.p.c., ora trasfusi nell’art. 360, comma 4, c.p.c.). Del resto, il motivo di ricorso non indica i parametri integrativi del precetto normativo elastico che sarebbero stati violati dai giudici di merito, ma si limita a contrapporre una valutazione dei fatti diversa rispetto a quella posta a base della decisione impugnata (v., per tutte, Cass. n. 13534/2019).
3. Respinto il ricorso, le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Respinge il ricorso;
condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 4.000,00 per compensi, oltre alle spese generali al 15%, a € 200,00 per esborsi e agli accessori di legge;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
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