CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 25509 depositata il 31 agosto 2023
Tributi – Rimborso IRPEF – Dirigente – Prelievo supplementare – Silenzio rifiuto – Articolo 33 D.L. n. 78/2010 – Presupposto soggettivo – Appartenenza dell’azienda al settore finanziario – Cartolarizzazione indiscriminata – Sistema di regolamentazione finanziaria globale – Retribuzione variabile – Pregiudizio per la stabilità finanziaria – Clausola generale – “Bonus” e “stock options” – Accoglimento
Fatti di causa
1. B.I.E.E., dirigente della L. Srl, domandava il 28.2.2018 all’Amministrazione finanziaria il rimborso di una parte dell’Irpef trattenuta e versata dal datore di lavoro in relazione all’anno 2014. Il contribuente riteneva che non fosse dovuto il prelievo supplementare del 10% di cui all’art. 33 del d.l. n. 78 del 2010. Questo perché, nel caso di specie, non risultava integrato il presupposto soggettivo dell’imposizione supplementare, in quanto il datore di lavoro non poteva ritenersi appartenere al settore finanziario. L’Amministrazione finanziaria non rispondeva.
2. Formatosi il silenzio rifiuto dell’Agenzia delle Entrate, il B. impugnava il diniego tacito innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano. La CTP rigettava il ricorso del contribuente.
3. B. spiegava appello avverso la decisione sfavorevole conseguita nel primo grado del giudizio, innanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia. La CTR accoglieva il suo ricorso, ed affermava il pieno diritto del contribuente a conseguire il rimborso domandato.
4. Ha impugnato per cassazione la pronuncia adottata dalla CTR l’Agenzia delle Entrate, affidandosi ad un motivo di ricorso. Resiste mediante controricorso il contribuente. Sia l’Amministrazione finanziaria sia il B. hanno depositato memorie.
4.1. Ha fatto pervenire le proprie conclusioni scritte il P.M., nella persona del Procuratore Generale P.F., ed ha sostenuto che “il ricorso è infondato”.
Ragioni della decisione
1. Con il suo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., l’Amministrazione finanziaria contesta la violazione dell’art. 33 (Stock options ed emolumenti variabili) del Dl n. 78 del 2010, del d.lgs. n. 385 del 1993, artt. 59 e 1, comma 2, lett. f)), nonché dell’art. 3, nn. 22 e 23, della Direttiva 2013/36/UE, per avere la CTR erroneamente affermato la necessità che, ai fini dell’applicazione della ritenuta, il datore di lavoro svolga esclusivamente attività nel settore finanziario, e comunque per aver errato nell’individuazione delle imprese appartenenti al settore finanziario.
2. Al fine di meglio chiarire la questione controversa, pare opportuno ricordare innanzitutto la normativa interna più direttamente interessata, l’art. 33 (Stock options ed emolumenti variabili), del d.l. n. 78 del 2010, come conv. e mod. La disposizione prevede, nella formula in vigore dal 17 luglio 2011:
“1. In dipendenza delle decisioni assunte in sede di G20 e in considerazione degli effetti economici potenzialmente distorsivi propri delle forme di remunerazione operate sotto forma di bonus e stock options, sui compensi a questo titolo, che eccedono il triplo della parte fissa della retribuzione, attribuiti ai dipendenti che rivestono la qualifica di dirigenti nel settore finanziario nonché ai titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa nello stesso settore è applicata una aliquota addizionale del 10 per cento.
– 2. L’addizionale è trattenuta dal sostituto d’imposta al momento di erogazione dei suddetti emolumenti e, per l’accertamento, la riscossione, le sanzioni e il contenzioso, è disciplinata dalle ordinarie disposizioni in materia di imposte sul reddito.
– 2-bis. Per i compensi di cui al comma 1, le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano sull’ammontare che eccede l’importo corrispondente alla parte fissa della retribuzione”.
2.1. Come risulta evidente dallo stesso testo del comma 1 riportato, la finalità della normativa era, sin dall’origine, quella di scoraggiare l’attribuzione ai dirigenti del settore finanziario di parti rilevanti della retribuzione in forma variabile, in considerazione degli effetti potenzialmente distorsivi del mercato che queste attribuzioni possono provocare. La disposizione prevede quindi che l’imposta addizionale debba essere applicata quando ricorrano presupposti oggettivi e soggettivi.
Nel caso di specie la controversia attiene soltanto al rispetto del presupposto soggettivo sintetizzabile nell’appartenere, o meno, la L. Srl, datore di lavoro del dirigente B., al settore finanziario.
3. Scrive la CTR che “l’Ufficio non ha raggiunto alcuna prova circa lo svolgimento ‘in concreto ed esclusivamente’ dell’attività di consulenza in materia finanziaria da parte della società L. Srl. La CTP adita ha deliberato erroneamente, ritenendo che la Società medesima sia ricompresa nel novero delle società di cui al d.lgs. n. 87 del 1992 esercenti attività finanziarie di cui al d.lgs. n. 385 del 1993, art. 59, 1 lett. b), che rinvia all’art. 1, 2 lett. f) nn. da 2 a 12 del medesimo TUB… Pregevole appare anche il richiamo operato dall’Appellante” alla pronuncia Cass. 19/10/2020, n. 22692, “che ha fornito una definizione del ‘settore finanziario’ rilevante per la identificazione del ‘requisito soggettivò… si può giungere ad affermare che: 1) la nozione del ‘settore finanziario’ richiamata dalla normativa tributaria in esame va definito a norma del TUB, e 2) che l’elemento distintivo del suddetto settore è caratterizzato dallo svolgimento di un’attività di natura bancaria o finanziaria rivolta nei confronti del pubblico… è facile giungere alla conclusione, in contrasto con gli argomenti del resistente Ufficio, che la società erogante il compenso oggi all’attenzione di questo collegio, L. srl, è esclusa dalla disciplina tributaria sull’addizionale IRPEF, in quanto non svolge attività bancaria e finanziaria ai sensi del TUB, e men che meno svolge questa attività nei confronti del pubblico. Non è condivisibile il tentativo dell’Ufficio appellato di ricomprendere le società di consulenza, come la L. srl, nel novero delle società finanziarie appartenenti a gruppi bancari, a vigilanza consolidata e l’Appellante è del tutto estranea a questa realtà. Se infatti la disciplina sulla maggiorazione IRAP, all’epoca vigente, richiamava in maniera inequivoca il disposto dell’art. 59 del TUB, nel caso oggi all’esame di questo Collegio, disciplina dell’addizionale IRPEF, siffatto richiamo manca del tutto” (sent. CTR, p. II ss.).
4. Contesta la ricorrente Amministrazione finanziaria, in primo luogo, che la CTR ha erroneamente ritenuto che per potersi considerare una società appartenente al settore finanziario debba svolgere ‘esclusivamente ed in concreto’’ attività di consulenza nel settore finanziario, mentre è pacifico che la L. svolge attività di consulenza anche in settori diversi. In effetti la normativa innanzi richiamata non consente di ritenere che l’attività finanziaria debba essere svolta dal datore di lavoro in forma ‘esclusiva’, in tal senso la critica della ricorrente appare fondata. Tuttavia la CTR afferma pure, con chiarezza, che, per le proprie caratteristiche, la L. Srl non rientra tra le società operanti nel settore finanziario, con la conseguenza che l’imposta addizionale sulla retribuzione variabile dei dirigenti non deve in alcun caso essere applicata, difettando comunque il presupposto soggettivo.
5. L’Agenzia delle Entrate sostiene inoltre che, per individuare quali siano i soggetti appartenenti al settore finanziario cui si riferisce l’art. 33 del d.l. n. 78 del 2010, occorre premettere che la norma non fornisce una definizione di che cosa debba intendersi per ‘settore finanziario’. Dovrebbe quindi operarsi riferimento all’art. 3 della Direttiva n. 2013/36 che detta una definizione di ente finanziario molto ampia, e non richiede lo svolgimento di attività finanziaria nei confronti del pubblico. Può quindi richiamarsi anche l’art. 59, comma 1, lett. b), del TUB che, nella formulazione vigente nel 2014, definiva le “società finanziarie” come quelle “che esercitano, in via esclusiva o prevalente: l’attività di assunzione di partecipazioni aventi le caratteristiche indicate dalla Banca d’Italia in conformità alle delibere del CICR; una o più delle attività previste dall’art. 1, comma 2, lettera f), numeri da 2 a 12; altre attività finanziarie previste ai sensi del numero 15 della medesima lettera; le attività di cui al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 1 comma 1, lettera n)” (ric., p. 9). L’Agenzia delle Entrate esamina quindi le successive riformulazioni della norma.
5.1. Occorre rilevare, in proposito, che l’Ente impositore non indica, in base alla normativa applicabile al caso di specie, in quale categoria la L. Srl dovrebbe ritenersi compresa, in modo da poter verificare se i requisiti di legge risultino soddisfatti, si pensi al parametro dell’attività di assunzione di partecipazioni svolta però in forma (almeno) “prevalente” (art. 59, comma 1, lett. b), del TUB). Neppure spiega perché dovrebbe ritenersi che le società appartenenti al “settore finanziario” ai sensi del più volte ricordato d.l. n. 78 del 2010, art. 33 come conv. e mod., coincidano con le “società finanziarie” di cui all’art. 59 del TUB nel testo applicabile. La carenza, però, in considerazione di quanto si rileverà nel prosieguo, non incide sulla valutazione da esprimere in questo giudizio.
6. Sostiene il contribuente che, diversamente, al fine di definire la nozione di settore finanziario deve operarsi riferimento al TUB che, in particolare all’art. 106, individua gli intermediari finanziari autorizzati in coloro che esercitano ‘nei confronti del pubblico attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma’, e sono ‘iscritti in un apposito albo tenuto dalla Banca d’Italia’. Il B. ha quindi evidenziato che la società L. “svolge esclusivamente attività di consulenza, prestando cioè servizi di natura intellettuale, peraltro neppure esclusivamente in campo ‘finanziario’; non svolge attività di concessione dei finanziamenti nei confronti del pubblico, non è annoverabile tra gli ‘operatori finanziari’ così come descritti dalle norme legislative in vigore, né è iscritta presso l’Albo degli intermediari finanziari tenuto presso la Banca d’Italia” (controric., p. 6 s.). Risulterebbe allora evidente, secondo la prospettazione del controricorrente che, al fine di rientrare nella nozione di soggetti finanziari, occorre svolgere un’attività finanziaria nei confronti del pubblico ed essere sottoposto alla vigilanza della Banca d’Italia, mentre resterebbero esclusi da tale nozione le società che svolgono attività di consulenza in materia finanziaria, come ritenuto anche dall’Assonime.
7. Sembra allora opportuno premettere, come recentemente e condivisibilmente osservato da questa Corte regolatrice con la pronuncia Cass. sez. V, 8/6/2023, n. 16257, cui si intende assicurare continuità, che risulta unanime la critica, sia in dottrina che nella giurisprudenza di merito (pervenuta, sul punto, ad approdi non omogenei), alla non immediata evidenza del significato testuale della norma di cui all’innanzi trascritto d.l. n. 78 del 2010, art. 33 come conv., già nella versione originaria, ed a maggior ragione in quella modificata con l’inserimento del comma 2 bis. In particolare, con riferimento al requisito soggettivo, tale critica censura la mancata individuazione, eventualmente attraverso un rinvio esplicito ad altre norme fiscali o meno, di che cosa debba intendersi per “settore finanziario”. Tale presa d’atto costituisce in genere la premessa per la delimitazione del concetto in esame attraverso la riconduzione ad altre disposizioni, ciascuna dettata per specifiche finalità di disciplina, non necessariamente coincidenti con la ratio esplicita che, come si evidenzierà, innerva il d.l. n. 78 del 2010, art. 33.
7.1. Risulta allora opportuno ricordare il contesto storico che costituisce l’immediato antecedente della disposizione in esame ed è rappresentato dalla crisi finanziaria del periodo 2006/2009. Dal documento ufficiale della Consob sulle “crisi finanziarie” emerge che, grazie alla cartolarizzazione indiscriminata, le entità finanziarie poterono espandere enormemente le attività in rapporto al capitale proprio (fenomeno del leverage o leva finanziaria). Ciò consentiva loro di realizzare profitti molto elevati, ma le esponeva anche al rischio di perdite ingenti, perché rientravano in tempi rapidi nella disponibilità del denaro prestato, che poteva essere riutilizzato per erogare altri finanziamenti a clienti la cui affidabilità veniva valutata in maniera sempre meno accurata. Le entità più coinvolte registrarono pesanti perdite e si susseguirono vari declassamenti del merito di credito dei titoli cartolarizzati, ma tali titoli, ormai ampiamente diffusi sul mercato, persero ogni valore e diventarono non liquidabili, costringendo le società veicolo a chiedere fondi alle banche che li avevano emessi e che avevano garantito linee di liquidità. La Consob stigmatizza inoltre che, a fronte dell’opacità dei prodotti e della difficoltà di apprezzarne il valore, il giudizio delle agenzie di rating ha evidenziato i suoi limiti quando fu chiaro che le agenzie avevano utilizzato modelli basati su ipotesi dell’evoluzione del quadro congiunturale troppo ottimistici ed avevano assegnato rating troppo generosi (anche per effetto di conflitti di interessi che creavano incentivi in tale direzione), dimostrandosi troppo caute nel rivedere il proprio giudizio sugli emittenti che incominciavano a manifestare i primi segnali di crisi.
La crisi apparve sempre più nella sua natura sistemica, con turbolenze senza precedenti che si estesero dal mercato dei prodotti strutturati ai mercati azionari e, progressivamente, all’intero sistema economico, attingendo l’economia reale statunitense ed Europea. La patologia della crisi del 2006/2009, sulla quale occorreva intervenire per evitare che potesse ripetersi, non riguardava dunque soltanto il mondo bancario, ma tutte quelle compagini coinvolte, a vario titolo, nel fenomeno dell’espansione tossica della leva finanziaria nelle imprese, anche per effetto di conflitti di interessi che creavano incentivi in tale direzione. In particolare, la crisi ha evidenziato l’attitudine del sistema, nel suo complesso, a creare per gli operatori un metodo di incentivi distorto e deresponsabilizzante, con la conseguente necessità di intervenire, con funzione generale e preventiva, soprattutto in materia di politiche di remunerazione dei manager e di gestione dei rischi.
7.2. Nel quadro sintetizzato si colloca l’intervento dell’organismo di consultazione economica mondiale del G20, frutto del summit del settembre 2009 e riassunto nel conseguente Leaders’ Statement, nell’ambito del quale (in particolare nei paragrafi da 10 a 13) si menziona, tra le cause della crisi mondiale, l’assunzione di rischi sconsiderati e irresponsabili da parte non solo di banche, ma anche di altri “istituti finanziari”, espressione che, in un contesto internazionale necessariamente sintetico rispetto alle fattispecie nazionali di varia natura e conformazione normativa interna, deve interpretarsi in senso ampio, essendo caratterizzata ed unificata dall’esposizione a rischio dell’economia reale in seguito alle possibili condotte degli operatori.
Infatti nel documento, al p.13, secondo alinea, si parla di “excessive compensation in financial sector” senza ulteriori specificazioni, per indicare una direzione d’intervento general-preventiva, e si evidenzia la necessità di intervenire sul sistema di regolamentazione finanziaria globale, con riferimento a tutte le imprese il cui operato potrebbe rappresentare un rischio per la stabilità finanziaria, al fine di proteggere i consumatori, i depositanti e gli investitori, da pratiche di mercato abusive, promuovere elevati standard di qualità e aiutare a garantire che il mondo non affronti una nuova crisi della medesima portata di quella già verificatasi. E’ in questa chiave che nel Leaders’ Statement si prospettano interventi volti ad allineare la remunerazione dei dirigenti alla creazione di valore a lungo termine, non all’assunzione di rischi eccessivi, e di conseguenza anche a limitare la remunerazione variabile per garantire il mantenimento di una solida base patrimoniale ed aumentare la stabilità finanziaria (così come prospettato già all’esito della riunione informale dei Capi di Stato o di governo dell’UE tenutasi a Bruxelles il 17 settembre 2009, ove ci si riprometteva di promuovere pratiche retributive responsabili nel settore finanziario).
7.2.1. Allo stesso tempo, anche in ambito UE non sono mancate iniziative programmatiche. Il 29 aprile 2009 la Commissione Europea ha presentato una raccomandazione sulla remunerazione del personale di tutto il comparto dei servizi finanziari la cui attività professionale ha un’incidenza materiale sul profilo di rischio degli istituti finanziari, intesa ad evitare politiche sconsiderate di incentivi, ed è seguita una seconda raccomandazione sul sistema di remunerazione degli amministratori delle società quotate. Inoltre, all’esito della riunione dei Capi di Stato e di governo tenutasi a Bruxelles il 17 settembre 2009, è stato predisposto un testo che mirava, tra l’altro, a “Promuovere pratiche retributive responsabili nel settore finanziario”, contenente riferimenti ad istituti finanziari e banche, ma anche espressioni generiche e polisense.
L’8 ottobre 2009, quindi, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che, al p. 16, “accoglie con favore l’appello lanciato ai ministri delle Finanze del G20 e ai governatori delle banche centrali al fine di raggiungere un accordo su un quadro internazionale di riforma nelle seguenti aree critiche del settore finanziario: (…) riformare le pratiche in materia di incentivi retributivi per sostenere la stabilità finanziaria (…)”. Il 7 luglio 2010 il Parlamento Europeo ha poi approvato una risoluzione di iniziativa sulla remunerazione degli amministratori delle società quotate. Nel luglio 2010 il Parlamento Europeo ha approvato, inoltre, la proposta di direttiva per la modifica delle direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE sui requisiti patrimoniali (COM(2009)362, cosiddetta Basilea III), nel cui contesto si prospetta la necessità di interventi volti a favorire “pratiche sane in materia di incentivi retributivi”, allo scopo di porre fine agli incentivi comportanti rischi eccessivi che hanno contribuito alla crisi finanziaria in corso.
7.3. In tale contesto è intervenuto il legislatore italiano con il d.l. n. 78 del 2010, art. 33 senza effettuare alcun rinvio ad altra fonte che disciplini il “settore finanziario” (ed in particolare non richiamando il TUB, né facendo riferimento alla qualifica e definizione degli “intermediari finanziari”). Soluzione, quest’ultima, ascrivibile ad un’opzione consapevole, piuttosto che ad una censurabile dimenticanza, atteso che già nei lavori preparatori, ed in particolare nella scheda di lettura dell’art. 33 predisposta per l’esame del disegno di legge dal Dipartimento Bilancio del Servizio Studi della Camera dei deputati, veniva annotato “Si valuti se la genericità del riferimento al “settore finanziario” possa ingenerare dubbi nell’individuazione dei soggetti tenuti al pagamento dell’imposta”.
Nella sostanza, se (come pure sostiene un orientamento giurisprudenziale del quale infra si dirà) il legislatore del 2010 avesse voluto limitare il riferimento del D.L. n. 78, art. 33 agli intermediari regolati dal TUB, o ad altra specifica categoria di operatori, lo avrebbe fatto con una previsione esplicita o, quanto meno, con un rinvio all’art. 106 dello stesso TUB, ovvero avrebbe rinviato ad altra disposizione, ma tanto non ha fatto.
In realtà, la peculiarità del d.l. n. 78 del 2010, art. 33 comma 1, deve cogliersi nell’avere il legislatore esplicitato (anche) nel dato normativo positivo quella che è la ratio teleologica del suo intervento, attraverso la formula testuale “In dipendenza delle decisioni assunte in sede di G20 e in considerazione degli effetti economici potenzialmente distorsivi propri delle forme di remunerazione operate sotto forma di bonus e stock option (…)”. Invero, il riferimento agli esiti del G20 rimarca l’inserimento della norma nel flusso del più ampio movimento che, a livello internazionale, come già descritto, aveva individuato la necessità, per prevenire nuove possibili crisi, di intervenire su alcune forme di incentivi retributivi.
Contemporaneamente la scelta, da parte del legislatore, di descrivere contestualmente come “economici” gli effetti potenzialmente distorsivi che intende prevenire, evidenzia come la ratio essenziale e selettiva dell’intervento normativo stia proprio nella pericolosità di condotte dei dirigenti, che siano stimolate da forme di retribuzione variabile, per l’economia reale, ed è tale potenzialità nociva che quindi caratterizza la delimitazione del “settore”, rilevante ai fini dell’imposta addizionale.
La ragione socio-economica del d.l. n. 78 del 2010, art. 33 era quindi quella di intervenire ad ampio raggio sul “settore finanziario”, per comprendere, con imposizione ancorata ad un pericolo astratto (o presunto), tutti gli attori che, operando sulla scena finanziaria globale, sono in grado, direttamente e/o indirettamente, di indurne torsioni pregiudizievoli per effetto di abnormi incentivi retributivi. In questo senso, significativa è peraltro l’estensione dell’addizionale anche ai “titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa nello stesso settore”, che evidenzia come la funzione general-preventiva fondata su un pericolo astratto (o presunto) sia stata estesa persino al di fuori dei normali rapporti di preposizione organica, per cogliere posizioni soggettive che, pur collaterali, hanno comunque attitudine potenziale ad incidere sulla leva finanziaria. Altrettanto significativa è pure l’accentuazione della funzione general preventiva dell’addizionale derivata dal successivo ampliamento, mediante il d.l. 6 luglio 2011, n. 98, art. 23 comma 50 bis, convertito con modificazioni dalla l. 15 luglio 2011, n. 111, della platea dei soggetti passivi dell’imposizione, attraverso l’aggiunta, al d.l. n. 78 del 2010, art. 33 del comma 2 bis, che ha reso applicabile l’addizionale sull’intero ammontare che eccede l’importo corrispondente alla parte fissa della retribuzione.
7.4. In tale prospettiva generale di prevenzione anticipata del rischio di effetti economici potenzialmente distorsivi, deve quindi ritenersi che il ricordato art. 33, comma 1, contenga una clausola generale riferita al “settore finanziario” approcciato nella sua globalità e complessità, la cui nozione fiscale è derivata da quella socioeconomica, sì da ricomprendere tutti quegli attori di compagini (anche non necessariamente soggette a vigilanza e/o che svolgano attività rivolta al pubblico) che, essendo attive sulla scena finanziaria, sono in grado, direttamente e/o indirettamente, di indurne torsioni pregiudizievoli per effetto di incentivi retributivi.
Appare peraltro sintomatica dell’ampiezza di tale clausola generale la circostanza che, in prima battuta, con una sorta di “tassazione analitico-aziendale”, diversi operatori economici imprenditoriali e professionali, operando quali sostituti d’imposta, pure nella fattispecie oggetto del presente giudizio, abbiano per primi auto-qualificato la loro attività come appartenente al “settore finanziario”, anche a prescindere dalla riconducibilità della stessa a quella di “intermediazione finanziaria” rivolta al pubblico in ragione di specifiche disposizioni del TUB.
7.5. La Corte costituzionale ha ritenuto legittima la norma in questione, essendo circoscritta la categoria dei soggetti passivi incisi dal prelievo addizionale a coloro che “in ragione del tasso di professionalità, della autonomia operativa, del potere decisionale di cui godono e dell’aspirazione a maggiori guadagni personali (per il legame tra l’andamento del titolo da un lato ed il riconoscimento e l’ammontare del beneficio correlato a dette forme di compenso dall’altro), sono in grado di porre in essere attività speculative suscettibili di pregiudicare la stabilità finanziaria” (Corte Cost., sentenza n. 201 del 17 luglio 2014). Sembra invero opportuno ricordare che il vincolo negativo d’interpretazione non sussiste quando la Corte costituzionale respinga la tesi dell’autorità rimettente in base ad argomenti puramente ermeneutici, senza presupporre o addirittura escludendo l’incostituzionalità della disposizione denunciata nella esegesi del giudice a quo (Cass. 21/07/1995, n. 7950).
Tanto premesso, deve darsi atto che comunque, anche secondo la motivazione resa dalla Consulta, il fulcro della fattispecie risiede nell’attitudine potenziale della retribuzione variabile, in relazione all’attività di alcuni contribuenti, a pregiudicare la stabilità finanziaria. Ne’, del resto, la Consulta definisce diversamente ed ulteriormente la categoria dei contribuenti sottoposta al prelievo, non delimitando in altro modo il concetto del “settore finanziario” e non supportando quindi interpretazioni restrittive della platea dei soggetti passivi, ed in particolare quella secondo cui essa dovrebbe coincidere esclusivamente con gli “intermediari finanziari”, o comunque con soggetti destinati ad operare nei confronti del pubblico e sottoposti a vigilanza della Banca d’Italia. Vale allora la pena di sottolineare che la stessa Corte costituzionale, nella motivazione della medesima decisione, da un lato non richiama affatto norme nazionali; dall’altro richiama la direttiva 2013/36/UE, ed in particolare non il testo di quest’ultima, ma specificamente il solo contenuto programmatico dei “considerando” da 62 a 69, che a loro volta richiamano le già anticipate conclusioni del G-20 in tema di pratiche sane in materia di remunerazione e dell’effetto dannoso che strutture di remunerazione mal concepite possono avere. Fermo restando, peraltro, che, in materia d’imposizione non armonizzata quale quella sub iudice, gli Stati membri sono liberi d’intervenire in maniera più stringente (purché senza discriminazione nel trattamento fiscale tra entità residenti e non residenti), là dove, anche per la CEDU, essi godono di vasta discrezionalità in ambito fiscale, specie quando si tratta di misure generali di strategia economica o sociale (Wallishauser c. Austria, n. 2), p. 65), nonché nella strutturazione e nell’attuazione di una politica in materia di tassazione (“Bulves” AD c. Bulgaria, p. 63; Gasus Dosier- und Fördertechnik GmbH c. Paesi Bassi, p. 60; Stere e altri c. Romania, p. 51), spettando soprattutto alle autorità nazionali decidere il tipo di imposte o di contributi che desiderano imporre, all’esito di una valutazione dei problemi politici, economici e sociali che è di competenza delle autorità interne degli Stati membri (Musa c. Austria; Baláž c. Slovacchia; R.Sz. c. Ungheria, p.p. 38 e 46), entro i confini della riserva di legge sostanziale (James e altri c. Regno Unito; Spacek vs. Rep. Ceca) e dei diritti fondamentali derivanti dalla Convenzione e dal Primo Protocollo (Shchokin c. Ucraina; Darby c. Svezia; Metalco c. Ungheria).
7.5.1. Tanto premesso, non si intende trascurare che questa Corte regolatrice, occupandosi di analoga questione, ha diversamente ritenuto che “L’imposta addizionale del dieci per cento prevista dal D.L. n. 78 del 2000, art. 33, conv. in l. n. 122 del 2010 trattenuta dal sostituto di imposta al momento dell’erogazione degli emolumenti riconosciuti ai dirigenti sotto forma di “bonus” e “stock options” quando detti compensi eccedano il triplo della parte fissa della retribuzione – si applica nei confronti dei dirigenti delle imprese operanti nel settore finanziario che svolgono attività “rivolta al pubblico”, mentre non sono assoggettati al prelievo i dirigenti di “holding” industriale che pur possegga partecipazioni in società del gruppo operanti nel settore finanziario, dovendo peraltro escludersi che il cit. art. 33 abbia disposto un rinvio recettizio alla nozione di “settore finanziario” contenuta nel testo originario dell’art. 106 TUB (contenente il riferimento all’attività di assunzione di partecipazione, poi eliminato dal d.lgs. n. 141 del 2010, art. 10)”, Cass. sez. V, 19/10/2020, n. 22692 (conf. Cass., sez. VI-V, 8/02/2022, n. 3913).
Non si ritiene, tuttavia, di condividere il riassunto orientamento giurisprudenziale, per le ragioni innanzi illustrate, che impongono un’interpretazione della fattispecie la quale non può far coincidere a priori il concetto di “settore finanziario” con quello dettato a diversi fini da altre norme dell’ordinamento, prescindendo dalla premessa testuale della ratio delle finalità della disposizione e dalla pericolosità, per la stabilità dell’economia reale, delle modalità retributive che essa vuole dissuadere. Invero il citato precedente, nella motivazione, pur dopo un riferimento alle decisioni assunte in sede di G20 ed agli effetti economici potenzialmente distorsivi da prevenire, per quanto qui interessa conferma infine la tesi della CTR che aveva ritenuto “di individuare il settore finanziario, al quale la norma è testualmente riferita, in quello nel quale l’attività è “rivolta al pubblico” – così come testualmente previsto dall’art. 106 e dalla rubrica del d.lgs. n. 385 del 1993, art. 155 (TUB)) – e perciò soggetta ad autorizzazione e controllo del Ministro del Tesoro, della Banca d’Italia e della CONSOB”. Tuttavia, la stessa ordinanza contemporaneamente rileva che “Non avendo l’art. 33 richiamato esplicitamente l’art. 106, deve escludersi ogni ipotesi di rinvio recettizio alla norma del TUB ancora vigente. Sicché, se da un lato non può dedursi il concetto di settore finanziario dalla formulazione dell’art. 106 introdotta dal D.Lgs. n. 141, tanto meno sarebbe ammissibile la cristallizzazione della nozione asseritamente portata dal testo originario anche in epoca successiva alla sua modifica”. Invero, non sembrano emergere le ragioni per cui la (condivisibile ed oggettiva) constatazione del mancato rinvio, da parte del d.l. n. 78 del 2010, art. 33 all’art. 106 TUB (che impedirebbe a monte la qualificazione come “recettizio” di un rinvio che… non sussiste), possa conciliarsi con la contestuale individuazione, all’interno del medesimo art. 33, di un “testuale riferimento” allo stesso art. 106 TUB., al fine di trarne la conseguenza che il “settore finanziario” sarebbe esclusivamente “quello nel quale l’attività è “rivolta al pubblico” – così come testualmente previsto dall’art. 106 e dalla rubrica del d.lgs. n. 385 del 1993, art. 155 (TUB).
Ritiene pertanto il Collegio che da tali argomentazioni non possa ricavarsi né la ricostruzione univoca di un riferimento “testuale” del d.l. n. 78 del 2010, art. 33 comma 1, all’art. 106 (e/o alla rubrica dell’art. 155) del TUB; né comunque l’evidenza delle ragioni per cui, all’interno del “settore finanziario”, lo stesso art. 33 dovrebbe essere comunque applicato solo agli operatori che svolgono attività “rivolta al pubblico” e che possano definirsi “intermediari finanziari”.
7.5.2. Tanto deve affermarsi, anche in considerazione della circostanza che, come evidenziato nel presente giudizio dalla ricorrente Amministrazione finanziaria, sotto il profilo logico sono ipotizzabili condotte finanziarie speculative, foriere di effetti economici potenzialmente distorsivi, che si pongono a monte della collocazione di titoli o del compimento di altra attività finanziaria esterna che predispongono e che ad esse faccia seguito. Tanto meno, poi, appare convincente istituire un forzato ed esclusivo parallelismo tra appartenenza al “settore finanziario” ai sensi dell’art. 33 in questione e sottoposizione alla vigilanza di organismi ed autorità finanziarie nazionali di controllo, laddove si consideri (in aggiunta a quanto sinora osservato) che la disposizione in esame opera a monte della stessa attività in ipotesi da vigilare, a prescindere dal rispetto o meno delle differenti e specifiche regole cui la vigilanza è strumentale, e con la specifica finalità, extrafiscale, di disincentivare, attraverso un trattamento fiscale differenziato meno favorevole, modalità remunerative variabili considerate pericolose per la stabilità finanziaria (intesa nel senso lato già descritto), ma non per questo necessariamente censurabili anche in sede di vigilanza.
7.6. Invero, nella prospettiva che, in ragione dell’origine e della ratio della disposizione, interpreta il “settore finanziario” quale clausola generale di derivazione socio-economica, la potenziale attitudine a produrre, se stimolati dalla conseguente maggior retribuzione variabile, effetti economici potenzialmente distorsivi, non appare esclusiva dei dirigenti di banche e degli intermediari finanziari.
In particolare, venendo al caso sub iudice, non vale ad escludere dal “settore finanziario”, interpretato ai fini di cui al ridetto art. 33, la circostanza che la società dalla quale il contribuente ha ricevuto (anche) la retribuzione variabile svolga (così come accertato in fatto nella sentenza impugnata e non controverso) “servizi di consulenza e assistenza in materia societaria e finanziaria alle aziende”. Infatti, una volta esclusa la rilevanza di qualificazioni formali dei “soggetti” finanziari ricavabili da altre disposizioni dettate a diversi fini, la consulenza in materia finanziaria è idonea a generare (attraverso il meccanismo della retribuzione variabile) quegli “effetti economici potenzialmente distorsivi” che l’art. 33 prende in considerazione. Assumere che la posizione del consulente sarebbe neutra a tal fine, in quanto gli effetti economici potenzialmente distorsivi potrebbero essere realizzati effettivamente soltanto da chi riceve la consulenza ed agisca eventualmente di conseguenza, significherebbe da un lato dimenticare che l’art. 33 ha comunque una funzione preventiva di dissuasione anticipata e di prevenzione del pericolo; dall’altro negare a priori ogni rilevanza funzionale all’attività consultiva, in contrasto con la funzione di quest’ultima e con la ragione per cui essa viene richiesta. Anche la consulenza finanziaria, in sintesi, attraverso il sistema della retribuzione variabile, può determinare potenzialmente quegli effetti distorsivi che possono pregiudicare la stabilità del mercato e che il legislatore ha inteso prevenire con la norma in esame, ed anche le società di consulenza finanziaria rientrano in quel perimetro di società (quanto meno) “operanti nel settore finanziario” (per usare l’espressione della già citata relazione accompagnatoria al D.L. n. 78 del 2010, art. 33), ai sensi ed ai fini del ridetto art. 33.
Ne’ occorre, in considerazione della funzione preventiva di dissuasione anticipata e di prevenzione del pericolo che innerva l’art. 33, accertare in concreto che la società di consulenza abbia effettivamente determinato gli effetti economici distorsivi il cui impedimento costituisce la ratio della norma.
7.6.1. Valga infine, quale argomento speso ad abundantiam, la considerazione che, al momento in cui è stato emanato il d.l. n. 78 del 2010, l’art. 59, comma 1, lett. b), TUB includeva tra le “società finanziarie” anche le società che esercitano, in via esclusiva o prevalente, una o più delle attività previste dall’art. 1, comma 2, lettera f), numeri da 2 a 12, e che il numero 9 prevedeva la “consulenza alle imprese in materia di struttura finanziaria, di strategia industriale e di questioni connesse, nonché consulenza e servizi nel campo delle concentrazioni e del rilievo di imprese”. Ferma restando la già evidenziata e sufficiente autonoma interpretazione funzionale del concetto di “settore finanziario” ai fini di cui al d.l. n. 78 del 2010, art. 33 comma 1, il dato normativo “esterno” ricavabile dal TUB è significativo come ultroneo argomento circa la non predicabilità di una pretesa assoluta non riconducibilità dell’attività di consulenza al contesto finanziario.
7.7. In conclusione, la richiamata decisione Cass., sez. V, 8/06/2023, n. 16257, di cui si è ripercorso l’argomentare, ha dettato anche il seguente principio di diritto: “L’imposta addizionale prevista dal d.l. n. 78 del 2010, art. 33 conv. in l. n. 122 del 2010 trattenuta dal sostituto di imposta al momento dell’erogazione degli emolumenti riconosciuti ai dirigenti sotto forma di “bonus” e “stock options” quando detti compensi eccedano la parte fissa della retribuzione – si applica nei confronti dei dirigenti delle imprese operanti nel settore finanziario, con clausola generale riferita al settore finanziario inteso nella sua globalità e complessità, sì da ricomprendere anche soggetti non necessariamente sottoposti a vigilanza e/o che svolgano attività rivolta al pubblico, stante la ragione socio-economica di un intervento diretto a comprendere tutti quegli attori di compagini che, essendo attive sulla scena finanziaria, sono in grado, direttamente e/o indirettamente, di indurne torsioni pregiudizievoli per effetto di abnormi incentivi retributivi, laddove, riguardo alla disposizione di riferimento, eventuali riscontri extra-testuali – derivanti da fonti nazionali, Europee e internazionali – possono rivestire solo il ruolo di indici rivelatori esemplificativi, ma non esaustivi della fattispecie tributaria interna. (Nella specie la Corte ha ritenuto che rientrino in essa le società che svolgano servizi di consulenza e assistenza in materia societaria e finanziaria alle aziende)”.
8. La impugnata sentenza della Commissione Tributaria della Lombardia in esame, avendo escluso l’imposizione per il difetto del requisito soggettivo, non ha fatto buon governo dei riassunti principi, e deve essere pertanto accolto il ricorso introdotto dall’Amministrazione finanziaria, con la conseguente cassazione della sentenza impugnata. Non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, questa Corte di legittimità può decidere nel merito, ai sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c., rigettando l’originario ricorso proposto dal contribuente.
9. Possono essere dichiarate compensate tra le parti le spese dei gradi di merito, mentre le spese processuali del giudizio di legittimità seguono l’ordinario criterio della soccombenza e sono liquidate in dispositivo, in considerazione della natura delle questioni esaminate e del valore della controversia.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso introdotto dall’Agenzia delle Entrate, cassa la decisione impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’originario ricorso proposto dal contribuente.
Compensa tra parti le spese di lite dei gradi di merito del giudizio, e condanna B.I.E.E. al pagamento delle spese processuali del giudizio di cassazione in favore dell’Agenzia delle Entrate, e le liquida in complessivi Euro 6.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
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