Corte di Cassazione ordinanza n. 31593 depositata il 14 novembre 2023
licenziamento per g.m.o. – illegittimità – collegamento societario – unico centro imputazione – conseguenze
RILEVATO CHE
1.- R.D. era stata dipendente di M. spa dal 10/01/2011, con mansioni – da ultimo – di addetta alla cassa dell’officina, fino al 12/07/2016, quando era stata licenziata per giustificato motivo oggettivo (soppressione del posto di lavoro).
Assumeva che tale motivo era in realtà inesistente e che fra la società datrice di lavoro e le società S.A. spa e A.M.B. spa vi era un collegamento societario tale da integrare un unico centro di imputazione giuridica di interessi e quindi del rapporto di lavoro.
Adìva il Tribunale di Napoli per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento, il suo annullamento, l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro considerato sussistente il requisito dimensionale in virtù dell’unico centro di imputazione di interessi fra le tre società, nonché la condanna delle tre società in solido al risarcimento del danno pari alle retribuzioni spettanti dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione.
2.- Il Tribunale accoglieva l’impugnazione del licenziamento, ma rigettava quella di accertamento dell’unico centro di imputazione di interessi e del rapporto di lavoro. Pertanto ordinava a M. spa di riassumere la ricorrente o di pagarle a titolo risarcitorio l’importo pari a sei mensilità di retribuzione.
3.- La Corte d’Appello, con la sentenza in epigrafe, accoglieva il gravame della lavoratrice e pertanto disponeva la sua reintegrazione nel posto di lavoro e condannava le tre società appellate al pagamento, in solido, dell’indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione globale di fatto spettante dal licenziamento all’effettiva reintegrazione; infine rigettava l’appello incidentale proposto da M. spa relativo alla declaratoria di illegittimità del licenziamento.
Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:
a) in via logica va affrontato dapprima l’appello incidentale;
b) come già ritenuto dal Tribunale, la situazione di crisi prospettata nella lettera di licenziamento come causa della soppressione del posto di lavoro della R.D. (addetta alla cassa dell’officina) non ha trovato alcun riscontro probatorio: nessun testimone ha parlato di perdite di clienti o di diminuzione di guadagni, né risulta che altri lavoratori siano stati licenziati;
c) è pacifico che la R.D. fosse addetta alla cassa officina sia per la M., concessionaria Smart, sia per S.A., concessionaria Mercedes; che dopo il suo licenziamento le sue mansioni erano state
affidate al magazziniere V.D., in aggiunta a quelle espletate in precedenza (di magazziniere);
d) dunque è pacifico che le mansioni non siano state soppresse;
e) non vi è alcuna prova che alla R.D. siano state proposte altre mansioni, eventualmente anche inferiori;
f) secondo la Corte di Cassazione, la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone da un lato l’esigenza di sopprimere un posto di lavoro e dall’altro l’impossibilità di diversa collocazione del lavoratore (repechage), considerata la sua professionalità, in altra posizione lavorativa analoga a quella soppressa;
g) quindi sul datore di lavoro grava l’onere di allegare e provare fatti, anche indiziari, da cui possa desumersi l’impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale;
h) nel caso di specie non vi è prova né del prospettato stato di crisi, né dell’osservanza dell’obbligo di repechage, sicché il gravame incidentale della società va rigettato;
i) con riguardo all’appello principale, come risulta dai rilievi fotografici prodotti dalla lavoratrice e mai contestati dalle società, esse svolgono le rispettive attività in un unico grande ambiente sito in Caserta, località Ponteselice, e in tale locale si trovano anche l’officina ed il magazzino comuni per entrambi i marchi (Smart e Mercedes) di cui le due società sono concessionarie;
j) inoltre il teste R.N. ha dichiarato che la R.D. era addetta all’unica cassa comune a M. e S.A. e che i dipendenti lavoravano indistintamente per le due società; il teste B. ha dichiarato che vi era un’unica bacheca per avvisi e per il codice disciplinare, un unico magazzino, un un’inca cassa, un unico addetto per il settore commerciale, sig.ra I., un unico direttore (sig. B.);
k) dalle visure camerali si evince che il capitale sociale di M. spa è ripartito fra AMB spa, S.A. spa, P.A., F.M., F.G. e G.F. e amministratori delegati sono F.M. e P.A.; fra i soci di S.A. spa figurano P.A., che è pure amministratore delegato, F.M., presidente del cda, G.F. e F.G.; soci della AMB spa sono P.A., presidente del cda, F.M., amministratore delegato, G.F. e F.G.;
l) quindi tutti gli elementi istruttori convergono nel dimostrare che le società operavano promiscuamente in un unico locale e il personale, compresa la R.D., operava per entrambe le società e riceveva disposizioni dal sig. C.A., responsabile post vendita e dal sig. B., responsabile commerciale;
m) la A.M.B. spa, pur avendo sede sociale in Pozzuoli, ed una sede secondaria a Cardito, risulta avere un deposito a Caserta in Via Provinciale Appia;
n) la R.D. ha prodotto numerose mails scambiate con il sig. Aniello Cimmino, che si dichiara “responsabile post vendita AMB – Sezione Auto – M., officine autorizzate Mercedes-Benz e Smart”; tali mails hanno ad oggetto disposizioni che il Cimmino impartiva alla R.D. su come espletare i propri compiti e in taluni casi veri e propri rimproveri;
o) quindi vi sono tutti gli elementi che la Corte di Cassazione ritiene sufficienti per dimostrare l’esistenza di un collegamento economico- funzionale fra imprese gestite da società del medesimo gruppo, che realizza di fatto un unico centro di imputazione giuridica del rapporto di lavoro, quali l’unicità della struttura organizzativa e produttiva, l’integrazione fra le attività delle imprese del gruppo e il correlativo interesse comune, il coordinamento tecnico e amministrativo- finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le attività delle diverse società verso uno scopo comune, l’utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società;
p) di conseguenza al fini di individuare la tutela accordabile occorre far riferimento al numero dei dipendenti complessivo di tutte le imprese del gruppo;
q) le società parti del giudizio non hanno prodotto il libro unico dal quale poter ricavare il numero dei dipendenti, tuttavia risultano prodotte le visure camerali, da cui si evince che la M. ha in tutto 36 addetti (di cui 10 nel comune di Caserta), la S.A. ha in tutto 23 addetti (di cui 3 nel comune di Caserta), la AMB ha in tutto 27 addetti, quindi complessivamente hanno più di 60 dipendenti sul territorio nazionale e tale requisito dimensionale rende possibile l’applicazione della tutela ex art. 18 L. n. 300/1970, sicché l’appello della lavoratrice va accolto.
4.- Avverso tale sentenza M. spa e le altre due società indicate in epigrafe hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
5.- R.D. Raffaella ha resistito con controricorso. 6.- Le ricorrenti hanno depositato memoria.
CONSIDERATO CHE
1.- Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. le ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 3 L. n. 604/1966 per avere la Corte territoriale ritenuto illegittimo il licenziamento.
Il motivo è inammissibile.
Le ricorrenti, infatti, si limitano a richiamare il principio consolidato di questa Corte, secondo cui le scelte gestionali dell’impresa sono insindacabili, mentre resta al giudice il controllo della reale sussistenza delle esigenze tecniche, organizzative e/o produttive dedotte a giustificazione del licenziamento, controllo che non può eccedere la verifica di effettività e non pretestuosità. Ma non si sono peritate di indicare le parti o i passaggi argomentativi della sentenza d’appello in cui questo principio sarebbe stato violato. Dunque il motivo difetta di autosufficienza.
In ogni caso, dall’esame della pronunzia impugnata si evince che la Corte territoriale si è attenuta scrupolosamente al predetto principio e all’esito dell’istruttoria compiuta in primo grado è pervenuta al convincimento della mancanza di prova della prospettata situazione di crisi (oltre che dell’osservanza dell’obbligo di repechage).
Le ricorrenti poi ripropongono le loro deduzioni in fatto (v. ricorso per cassazione, p. 8 ss.) e sostengono che avrebbero trovato conferma in sede istruttoria. Ma si limitano a richiamare unicamente una deposizione (teste C.: v. ricorso per cassazione, p. 9) e sollecitano a questa Corte una rilettura delle risultanze istruttorie inammissibile in sede di legittimità, nella quale il sindacato deve arrestarsi di fronte alla formazione – adeguatamente motivata – del convincimento del giudice di merito.
Resta in tal modo assorbita l’ulteriore censura relativa alla valutazione del c.d. repechage.
2.- Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. le ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 18 L. n. 300/1970 per avere la Corte territoriale ritenuto sussistente il requisito dimensionale all’esito dell’errato accertamento di un unico centro di imputazione di interessi e del rapporto di lavoro. In particolare si dolgono che i giudici d’appello siano pervenuti alla loro decisione “sul presupposto di una commistione delle varie compagini societarie, ma non in base ad un concreto esame dei rapporti di fatto e di diritto esistenti tra le suddette società” (v. ricorso per cassazione, p. 13).
Il motivo è inammissibile.
La Corte territoriale ha accertato in modo analitico plurimi elementi ritenuti significativi, li ha valutati nella loro ricorrenza concreta e nella loro rilevanza giuridica e ne ha tratto le conclusioni, adeguatamente motivate. Dunque, contrariamente all’assunto delle ricorrenti (v. ricorso per cassazione, p. 15), la Corte territoriale non si è limitata a considerare unicamente l’esistenza del gruppo di imprese.
Le ricorrenti sollecitano, poi, a questa Corte una rilettura delle risultanze istruttorie inammissibile in sede di legittimità.
Infine le società si limitano a riproporre le loro deduzioni in fatto – di cui non indicano alcun elemento di prova che in ipotesi fosse stato acquisito nei due gradi di merito e trascurato dalla Corte territoriale – e non investono con specifica censura tutta quella parte della motivazione, con cui i giudici d’appello hanno fatto riferimento a tanti elementi di fatto, ritenuti significativi dell’unicità del centro di imputazione di interessi (v. supra, punti da i) ad o) della motivazione sinteticamente riportata).
3.- Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. le ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 18, co. 4, L. n. 300/1970, perché, dopo aver affermato di voler applicare tale norma, la Corte territoriale ha condannato – oltre che alla reintegrazione nel posto di lavoro – al pagamento di tutte le retribuzioni dal licenziamento all’effettiva reintegrazione (pari ad oltre tre anni di retribuzione), trascurando che invece la norma prevede che in ogni caso l’indennità risarcitoria non possa essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.
Il motivo è infondato.
Come eccepito anche dalla controricorrente, nella sentenza d’appello la Corte territoriale ha espressamente richiamato le conseguenze di cui all’art. 18, co. 4, L. n. 300/1970 ed ha pronunziato una condanna risarcitoria conforme al dettato normativo. Anche l’art. 18, co. 4, cit., infatti, prevede in prima battuta che, oltre alla reintegrazione, al lavoratore illegittimamente licenziato spetti “un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione”.
E’ vero che nel dispositivo della sentenza impugnata manca l’ulteriore specificazione del limite massimo delle dodici mensilità, invece previsto dal legislatore, ma tale omissione non produce alcun effetto invalidante sulla decisione, posto che è chiaro ed inequivoco in motivazione il richiamo alle conseguenze di cui all’art. 18, co. 4, cit., fra le quali va annoverato anche il predetto limite, che pertanto deve ritenersi univocamente posto nella pronunzia impugnata.
In definitiva, il vizio non sussiste laddove il dispositivo venga letto e interpretato alla luce della motivazione. Trattasi di un principio di diritto più volte affermato da questa Corte (Cass. n. 17910/2015; Cass. ord. n. 24600/2017; Cass. ord. n. 24867/2023) e di certo applicabile anche nel caso in esame, poiché nello speciale rito introdotto dalla legge n. 92/2012 – diversamente da quanto previsto per il rito lavoro – non vi è un dispositivo letto in udienza, quale atto distinto e separato dalla sentenza, ma soltanto la sentenza. Quindi non può essere riconosciuta processuale prevalenza al dispositivo rispetto alla motivazione.
In ogni caso, anche con riguardo al rito del lavoro, questa Corte ha già affermato che la prevalenza del dispositivo sulla motivazione è circoscritta alle ipotesi in cui vi sia contrasto tra le due parti della pronuncia, mentre ove l’incompatibilità manchi – come nel caso in esame – la portata precettiva della pronuncia va individuata pur sempre mediante l’integrazione del dispositivo con la motivazione (Cass. n. 15088/2015; Cass. n. 12841/2016).
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna le società ricorrenti a rimborsare, in solido fra loro, alla controricorrente le spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.000,00, oltre ad euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali e accessori di legge, con attribuzione al procuratore antistatario.
Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115/2002 pari a quello per il ricorso a norma dell’art. 13, co. 1 bis, d.P.R. cit., se dovuto.
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