La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 741 depositata il 9 gennaio 2024, intervenendo in tema di licenziamento ritorsivo, ha ribadito che “… il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, è considerato un “licenziamento nullo quando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l’unico determinante dello stesso, ai sensi del combinato disposto dell’art. 1418, secondo comma, e degli artt. 1345 e 1324 c.c.” (Cass. n. n. 17087 del 2011 in motivazione). …”
La vicenda ha riguardato un dipendente per il quale era stata disposta dalla società datrice di lavoro il trasferimento in altra sede. Il provvedimento veniva dichiarato illegittimo dal Tribunale. La società, secondo il lavoratore, a seguito di tale provvedimento giudiziario aveva sollecitato i dipendenti a segnalare tutte le possibili mancanze dello stesso. Successivamente fu redatto un documento con le mancanze a carico del dipendente ed a pochi mesi dalla redazione di tale documento il predetto cominciò a ricevere una serie di contestazioni disciplinari. Il dipendente impugnava giudizialmente le contestazioni disciplinari. Successivamente la società datrice di lavoro disponeva il licenziamento del suddetto dipendente. Il lavoratore impugnò il provvedimento di espulsione. Il Tribunale adito, in funzione di giudice del lavoro, all’esito della fase sommaria, ha respinto il ricorso giudicando legittimo il licenziamento; il medesimo tribunale, con sentenza emessa nel giudizio di opposizione, ha dichiarato illegittimo il licenziamento per difetto di proporzionalità della sanzione espulsiva ed ha applicato la tutela prevista dall’art. 18, quinto comma, della legge m. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012. Il lavoratore impugnava la decisione del Tribunale. La Corte di Appello accoglieva il reclamo principale del lavoratore ed, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava nullo, perché ritorsivo, il licenziamento, condannando la società a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e a risarcirgli il danno commisurato all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino all’effettiva reintegra; ha respinto il reclamo incidentale della società. Avverso la decisione dei giudici di appello la società proponeva ricorso in cassazione fondato su quattro motivi.
I giudici di legittimità accolgono il terzo motivo di ricorso della società, dichiara assorbiti i restanti motivi, poiché risulta fondato l’addebiti concernente l’alterco sugli straordinari in cui il gestore del negozio avrebbe strattonato una collega. La corte di Appello, nel disporre la reintegra e il risarcimento del lavoratore riformando la decisione del Tribunale che aveva applicato la sola tutela indennitaria., non si è attenuta ai seguenti principi di diritto “… valorizzata la disposizione dettata dall’art. 1345 c.c. che “derogando al principio secondo il quale i motivi dell’atto di autonomia privata sono di regola irrilevanti, eccezionalmente qualifica illecito il contratto determinato da un motivo illecito comune alle parti, in virtù del disposto di cui all’art. 1324 cod. civ.” e che “trova applicazione anche rispetto agli atti unilaterali, laddove essi siano finalizzati esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali, rinvenendosi l’illiceità del motivo, al pari della illiceità della causa, a mente dell’art.1343 cod. civ., nella contrarietà dello stesso a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume” (Cass. n. 20197 del 2005).
[…] Il “motivo illecito” si colloca su un piano nettamente distinto dal (giustificato) motivo soggettivo e oggettivo di licenziamento, previsto dall’art. 3 della legge n. 604 del 1966.
Quest’ultimo, al pari della giusta causa (art. 2119 c.c.), costituisce presupposto del legittimo esercizio del potere (disciplinare o organizzativo) attribuito al datore di lavoro, la cui mancanza è causa di annullabilità del licenziamento.
[…] Il motivo illecito, che deve avere efficacia determinativa esclusiva, rende l’atto datoriale contrario ai valori ritenuti fondamentali per l’organizzazione sociale e ne determina la nullità. Esso rileva “indipendentemente dal motivo formalmente addotto”, come recita l’art. 18, comma 1, della legge 300 del 1970, nella versione modificata dalla legge n. 92 del 2012 (secondo una formula già presente nell’art. 4, della legge 604 del 1966).
[…] Il licenziamento ritorsivo è stato definito come “l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta” (Cass. n. 17087 del 2011; n. 24648 del 2015).
[…] Più recentemente, si è tracciata una netta distinzione tra il licenziamento ritorsivo e quello discriminatorio (v. per tutte Cass. n. 6575 del 2016), anche alla luce dell’espressa previsione delle due distinte figure nella legge 92 del 2012 che, accanto al licenziamento discriminatorio, contempla quello “determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del Codice civile”, v. l’art. 1, comma 42, L. n. 92/2012).
[…] L’accoglimento della domanda di nullità del licenziamento perché fondato su motivo illecito esige la prova che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso e idonei a configurare un’ipotesi di legittima risoluzione del rapporto (v. Cass. n. 26399 del 2022; Cass. n. 26395 del 2022; Cass. n. 21465 del 2022; n. 9468 del 2019 da ultimo v. Cass. n. 6838 del 2023), dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di C.azione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (Cass. n. 6838 del 2023 cit.; n. 5555 del 2011).
[…] Si è precisato che “l’onere della prova della esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinante la volontà negoziale grava sul lavoratore che deduce ciò in giudizio” e che si tratta “di prova non agevole, sostanzialmente fondata sulla utilizzazione di presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole” (così Cass. n. 17087 del 2011 cit., in motivazione).
[…] Poiché il motivo illecito attiene alla sfera dell’elemento psicologico o alla finalità dell’atto datoriale, la sua efficacia determinativa esclusiva va verificata in relazione all’assenza di altre motivazioni o ragioni astrattamente lecite, restando su un piano ancora diverso la valutazione di tali ragioni rispetto ai parametri normativi di giusta causa o giustificato motivo.
[…] Da tali premesse discende che, poiché il licenziamento per ritorsione costituisce la reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, ove il potere di recesso sia esercitato a fronte di una condotta inadempiente di rilievo disciplinare, la concreta valutazione di gravità dell’addebito nel senso della sproporzione della sanzione espulsiva, se pure può avere rilievo presuntivo, non può tuttavia portare a giudicare automaticamente ritorsivo il licenziamento, occorrendo, perché il motivo illecito possa assurgere a fattore unico e determinate, che la ragione addotta e comprovata risulti meramente formale o apparente o sia, comunque, tale, per le concrete circostanze di fatto o per la modestissima rilevanza disciplinare, da degradare a semplice pretesto per l’intimazione del licenziamento, sì che questo risulti non solo sproporzionato ma volutamente punitivo.
[…] In tema di licenziamento nullo, il carattere unico e determinante del motivo ritorsivo non può desumersi unicamente dalla mancata integrazione, per difetto di proporzionalità, dei parametri normativi della giusta causa, ma è necessario che la prova presuntiva poggi su elementi ulteriori, come l’elevato grado di sproporzione della sanzione espulsiva, anche rispetto alla scala valoriale espressa dalla contrattazione collettiva, idonei a giustificare la collocazione dell’atto datoriale nella sfera della illiceità, anziché in quella della illegittimità. …”
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