CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 maggio 2013, n. 13112
Licenziamento – Licenziamento collettivo – Tardività del recesso – Ascrivibile al datore – Iscrizione alle liste di mobilità – Necessità – Fondamento.
Svolgimento del processo
La sentenza della Corte d’appello di Lecce, della quale L. R. chiede, con due motivi, la cassazione, ha respinto la domanda principale da lui proposta al fine di ottenere la dichiarazione del suo diritto nei confronti dell’INPS e della Regione Puglia all’iscrizione nelle liste di mobilità e a percepire l’indennità di mobilità, a seguito del suo licenziamento del 31 maggio 2002 da parte della datrice di lavoro R. s.r.l., avvenuto nel quadro del licenziamento di tutto il personale della società, ancorché, per il R., oltre il 120° giorno successivo alla conclusione, in data 27 dicembre 2001, della relativa procedura di mobilità, in ragione del suo temporaneo trattenimento in servizio, quale ragioniere contabile, per il disbrigo delle ultime pratiche burocratiche.
La Corte territoriale, pur dando atto dell’incontestata unitarietà logica, cronologica e aziendale tra il licenziamento del ricorrente e la procedura di mobilità per la cessazione dell’attività, ha ritenuto l’infondatezza della domanda del R., per il superamento del suddetto termine di 120 giorni e la mancata previsione, nell’accordo collettivo che aveva concluso la procedura, della protrazione di esso fino alla data del suo licenziamento (condizione che sarebbe necessaria, secondo quanto stabilito dall’art. 8 quarto comma del D.L. n. 148/1993, convertito il L. n. 236/1993, per ottenere il collocamento in mobilità), rilevando che comunque lo stesso lavoratore avrebbe potuto, ai sensi dell’art. 4, primo comma del D.L. n. 148/1993, presentare, nell’inerzia del datore di lavoro, tempestiva domanda di mobilità, cosa che egli aveva fatto solo tardivamente rispetto al termine di sessanta giorni ivi stabilito.
L’INPS ha depositato una procura speciale in calce al ricorso notificato. Né la Regione né il fallimento [nel frattempo intervenuto, del] calzaturificio R. s.r.l., originariamente destinatario di una domanda subordinata di risarcimento danni (in ordine alla quale la Corte aveva dichiarato, con sentenza parziale, la propria incompetenza funzionale),si sono costituiti in questa sede.
Il ricorrente ha depositato una memoria a norma dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1 – Col primo motivo di ricorso, L. R. denuncia la violazione del primo comma dell’art. 24 della L. n. 223 del 1991, come interpretato dall’art. 8, quarto comma del D.L. n. 148/1993, convertito in L. n. 236/1993 nonché il vizio di motivazione della sentenza impugnata.
In proposito, il ricorrente sostiene che l’interpretazione letterale della norma indicata, così come effettuata dalla Corte territoriale, tradirebbe la ratio sostanziale della stessa, alla stregua della quale andrebbe riconosciuto al ricorrente il diritto azionato, essendo pacifico che egli era stato dipendente della società dal febbraio 2000 al 31 maggio 2002 (nonostante la sua regolarizzazione fosse avvenuta solo tardivamente), che era in possesso dei requisiti di legge per ottenere l’indennità di mobilità (essendo stato, per di più, contraddittoriamente, iscritto, ancorché con ritardo, nelle relative liste, ma senza ottenere il trattamento economico relativo), che il licenziamento in data diversa da quella degli altri dipendenti era dipeso dal necessario disbrigo delle ultime pratiche e che il ritardo della datrice di lavoro nel segnalare la sua situazione traeva origine da irregolarità ad essa imputabili.
2 – Col secondo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 4, primo comma del D.L. n. 148/1993 e il vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto che egli, nella situazione di mancata attivazione da parte della società, avrebbe comunque potuto presentare la domanda di iscrizione nelle liste di mobilità nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento, mentre sarebbe rimasto inattivo fino al 13 settembre 2002, quando, ormai tardivamente, aveva proposto tale domanda di iscrizione.
In proposito, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello non avrebbe tenuto in alcun conto la sua deduzione di essere venuto a conoscenza dell’avvenuta regolarizzazione della sua posizione previdenziale solo nel settembre 2002 e di essersi pertanto potuto attivare solo successivamente a tale conoscenza.
3. Il ricorso, i cui due motivi vanno esaminati congiuntamente, è fondato.
L’art. 24 della legge n. 223 del 1991 stabilisce che le disposizioni relative alla mobilità “si applicano alle imprese che occupino più di quindici dipendenti e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro” (ma anche in caso di cessazione dell’attività) “intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa provincia. Tali disposizioni si applicano per tutti i licenziamenti che, nello stesso arco di tempo e nello stesso ambito, siano comunque riconducibili alla medesima riduzione o trasformazione”.
La disciplina applicabile per la mobilità è poi prevista dall’art. 4 della medesima legge e si articola in una iniziale comunicazione del datore di lavoro alle OO.SS. e all’ufficio del lavoro ivi indicato, in un possibile confronto col sindacato e si conclude con un accordo o con l’inutile decorso del termine per raggiungerlo, cui segue, per quanto qui interessa, la messa in mobilità dei lavoratori, l’iscrizione degli stessi nelle liste di mobilità e l’erogazione dell’indennità di mobilità a coloro che risultano in possesso dei requisiti prescritti.
In tale quadro di riferimento e in considerazione della possibilità che taluni licenziamenti, pur attinenti all’unitario processo di mobilità, debbano essere intimati oltre il termine di 120 giorni stabilito dalla legge, per le necessità della procedura stessa (la decisione di cessare ogni attività o la dismissione di determinati settori operativi può infatti rendere necessario mantenere temporaneamente in servizio alcuni dipendenti per il disbrigo di alcune incombenze destinate a esaurirsi in breve), con possibile danno per i lavoratori trattenuti temporaneamente in servizio, sul piano dell’acquisizione delle provvidenze previste in caso di mobilità, l’art. 8, quarto comma del D.L. n. 148 del 1993, convertito nella legge n. 236 del medesimo anno stabilì che “la disposizione di cui all’art. 24, comma 1, ultimo periodo della legge 23 luglio 1991 n. 223 si interpreta nel senso che la facoltà di collocare in mobilità i lavoratori di cui all’art. 4, comma 9° della medesima legge deve essere esercitata per tutti i lavoratori oggetto della procedura di mobilità entro centoventi giorni dalla conclusione della procedura medesima, salvo diversa indicazione nell’accordo sindacale di cui al medesimo articolo 4, comma 9”.
Un altro profilo di criticità della normativa descritta, individuato dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito, era rappresentato dalla possibilità per il lavoratore di perdere i benefici della mobilità anche a causa di un comportamento omissivo del datore di lavoro, il quale avesse violato le regole relative, omettendo pertanto di richiedere l’iscrizione dei lavoratori licenziati nelle liste di mobilità.
La questione costituì oggetto di un rinvio della legge n. 223/1991 alla Corte costituzionale in occasione di un giudizio in cui il lavoratore lamentava che il datore di lavoro, avendo licenziato oralmente tutti i dipendenti dell’azienda, senza attivare pertanto la procedura di mobilità, aveva compromesso il suo diritto alle provvidenze di cui agli artt. 6 e 7 della legge n. 223.
Al riguardo, la Corte Costituzionale intervenne con la sentenza n. 6 del 21 gennaio 1999, per dissipare, attraverso una interpretazione adeguatrice delle norme di legge censurate, i dubbi di costituzionalità espressi dal giudice remittente, con l’affermare che il lavoratore pregiudicato dal comportamento omissivo del datore di lavoro ha la possibilità di evitare il relativo danno, attivandosi, ai sensi dell’art. 4, primo comma del citato D.L. 20 maggio 1993 n. 148 (disposizione espressiva di un ampliamento della tutela dei lavoratori), col chiedere personalmente, entro sessanta giorni dal licenziamento, l’iscrizione nelle liste di mobilità alla sezione circoscrizionale per l’impiego. Secondo la Corte costituzionale, resterebbe poi a carico dell’ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione l’ulteriore controllo circa l’esistenza degli eventuali presupposti oggettivi e soggettivi necessari per la corresponsione dell’indennità di mobilità.
Nella logica garantista in cui si muove la pronuncia citata della Corte costituzionale, deve ritenersi che questa facoltà del lavoratore licenziato di chiedere l’iscrizione nelle liste di mobilità, estesa a tutti i casi di licenziamento collettivo per i quali è stata attivata o doveva essere attivata la procedura di cui all’art. 4 della legge n. 223 del 1991 (cfr. Cass. 19 agosto 2003 n. 12143), non sia impedita, in caso di licenziamento caduto oltre il 120° giorno successivo alla conclusione della procedura, dalla mancata previsione di tale slittamento, ai sensi dell’art. 8, quarto comma del citato D.L. n. 148 del 1993, nell’accordo collettivo conclusivo, ove ciò sia imputabile a fatto del datore di lavoro.
Le ragioni che sostengono tale interpretazione della disciplina in esame sono infatti le stesse che, nell’occasione ricordata, furono dalla Corte costituzionale addotte nel patrocinare l’interpretazione adeguatrice riferita e sono riassumibili nella ratio propria della disciplina medesima, di impedire che eventuali inadempimenti del datore di lavoro nella materia (addirittura fino all’estremo della mancata attivazione della mobilità) si risolvano, soprattutto nel caso di cessazione dell’attività, a svantaggio dei dipendenti licenziati.
Devesi infine ribadire che questa possibilità attribuita al lavoratore dall’art. 4, primo comma del D.L. n. 148 del 1993 non può ritenersi limitata in maniera assoluta dalla previsione del suo esercizio entro il termine di sessanta giorni dal licenziamento, in ordine al quale questa Corte ha già avuto modo di precisare che trattasi di un termine ordinatorio (cfr., in motivazione, la citata Cass. n. 12143/2003) e pertanto suscettibile di essere prorogato in presenza di adeguate giustificazioni (cfr. Cass. 17 novembre 2010 n. 23227).
Nel caso in esame, è stato accertato in giudizio che la datrice di lavoro del R., la Calzaturificio R. s.r.l., aveva attivato per tutti i dipendenti (n. 110) la procedura di mobilità di cui all’art. 4 della legge n. 223 del 1991, che questa si era conclusa con l’accordo sindacale del 27 dicembre 2001, cui era immediatamente seguita la messa in mobilità dei dipendenti» ad eccezione del ricorrente, licenziato solo in data 31 maggio 2002.
Non è peraltro contestato in giudizio ed è stato accertato inoppugnabilmente dai giudici di merito che anche quest’ultimo licenziamento era riconducibile alla decisione del datore di lavoro di cessare l’attività e che la sua protrazione nel tempo oltre i 120 giorni dalla conclusione della procedura di cui all’art. 4 della legge n. 223 del 1991 fu dovuta alla necessità del disbrigo da parte del R. delle ultime pratiche burocratiche (il ricorrente aveva infatti la qualifica di ragioniere contabile).
Altrettanto pacifica in giudizio è la ragione per cui tale protrazione del licenziamento del R. non figura dell’accordo collettivo conclusivo della procedura, consistente nella mancata tempestiva regolarizzazione della sua posizione lavorativa, solo successivamente, nel giugno 2002, effettuata dall’impresa relativamente al periodo dal febbraio 2000 al 31 maggio 2002 e quindi costituente fatto imputabile a quest’ultima.
Tali inadempienze del datore di lavoro non possono pertanto ridondare a scapito del dipendente, in termini di perdita delle provvidenze previste per il licenziamento in questione, ove ne ricorrano le altre condizioni.
Infine, secondo quanto in precedenza argomentato, non può costituire ostacolo all’accesso al trattamento rivendicato il fatto che il ricorrente abbia proposto domanda di iscrizione alle liste solo nel settembre 2002, oltre il termine di sessanta giorni dal licenziamento, ove tale ritardo venga dallo stesso giustificato dalla ricorrenza di gravi motivi.
In base alle considerazioni svolte e nei limiti delle stesse, il ricorso è fondato e va accolto con la conseguente cassazione della sentenza impugnata, con rinvio, anche per il regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione, ad altro giudice che dovrà altresì accertare la giustificatezza o non del ritardo con cui il ricorrente ha chiesto alla Commissione regionale il riconoscimento delle provvidenze stabilite per la mobilità.
In osservanza di quanto previsto dal primo comma dell’art. 384 c.p.c., la Corte enuncia infine i seguenti principi di diritto:
1 – “In materia di licenziamento per cessazione dell’attività ai sensi dell’art. 24 della legge n. 223 del 1991, l’eventuale licenziamento di un dipendente oltre il termine di 120 giorni dalla conclusione della procedura di mobilità, previsto dal primo comma dell’articolo suddetto, come interpretato dall’art. 8, quarto comma del D.L. n. 148/1993, convertito nella L. n. 236/1993, non impedisce al dipendente l’esercizio della facoltà, attribuitagli dall’art. 4, primo comma del medesimo D.L. n. 148/1993, di chiedere direttamente all’ufficio del lavoro competente l’iscrizione nelle liste di mobilità nel caso in cui la protrazione del licenziamento oltre il termine non sia prevista nell’accordo collettivo conclusivo della procedura per fatto imputabile al datore di lavoro.”
2 – “In materia di licenziamento per cessazione dell’attività ai sensi dell’art. 24 della legge n. 223 del 1991, il termine di sessanta giorni dal licenziamento, che l’art. 4, primo comma del D.L. n. 148/1993, convertito nella L. n. 236/1993 stabilisce per l’esercizio da parte del dipendente licenziato del potere di chiedere l’iscrizione nelle liste di mobilità, ha carattere ordinatorio e può pertanto essere prorogato anche dopo la scadenza dello stesso, in presenza di adeguate giustificazioni del ritardo.”
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per il regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Bari.
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