La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 1233 depositata il 22 gennaio 2014 intervenendo in materia di abuso del diritto ha statuito che l’onere della prova è a carico all’Amministrazione Finanziaria. Il predetto onere può essere assolto solamente quando siano individuati e precisati gli aspetti e le particolarità che fanno ritenere l’operazione priva di reale contenuto economico diverso dal risparmio d’imposta.
La vicenda ha riguardato una società che aveva incorporato altra società che a cui veniva notificato un avviso di rettifica ai fini IRPEG ed ILOR avviso con il quale era stata contestata l’indebita deduzione dall’imponibile della quota di ammortamento annuale relativa al disavanzo da fusione.
Avverso tale atto impositivo la società proponeva ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale i cui giudici accogliendo le doglianze del ricorrente annullavano l’avviso di rettifica. L’Agenzia delle Entrate impugnava la decisione del giudice di prime cure dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale che rigettava l’appello del Fisco. Per i giudici territoriali nell’operazione posta in essere dalla società contribuente non sarebbe ravvisabile un fine elusivo, che giustificherebbe l’applicazione del disposto dell’art. 10 della legge 29 dicembre 1990, n. 408, non avendo l’ufficio fornito prove adeguate in proposito.
Per la cassazione della decisione del giudice di seconde cure il Fisco proponeva ricorso, basato su un unico motivo, alla Corte Suprema. Il contribuente presenta ricorso incidentale.
Gli Ermellini riuniti i ricorsi rigettano entrambi. I giudici di legittimità nelle motivazioni precisano che il materiale probatorio, di cui l’Agenzia lamentava l’omesso esame da parte del giudice del merito, era privo del carattere della “decisività”, perché inidoneo a provare la dedotta elusione dell’articolo 123 del TUIR, “tenuto conto che, nel regime previgente al 1° gennaio 1995, data di entrata in vigore della legge n. 724 del 1994, il cui art. 27 ha introdotto il principio di neutralità fiscale delle fusioni, qui rilevante ratione temporis – atteso che al comma 2 si stabilisce che ‘le disposizioni del comma precedente, relative ai disavanzi di fusione, si applicano alle operazioni deliberate successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge’ e nella specie le operazioni di incorporazione risalgono al 1993 -, il menzionato art. 123 del d.P.R. n. 917 del 1986 consentiva l’iscrizione in bilancio, alla voce avviamento, del disavanzo di fusione per incorporazione da parte di una società che già possedeva l’intero capitale sociale dell’incorporata”.
Il principio del divieto di abuso del diritto trova fondamento nel nostro ordinamento per quanto concerne i tributi da un principio generale del diritto comunitario secondo il quale i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme di tale diritto.
I giudici del Palazzaccio con la sentenza in commento hanno confermato che l’applicazione dei principi in tema di abuso del diritto deve essere guidata da una particolare cautela, essendo necessario trovare una giusta linea di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e libertà di scelta delle forme giuridiche, soprattutto quando si tratta di attività d’impresa.
La cautela, poi, deve essere massima quando non si tratti di operazioni finanziarie, ma di ristrutturazioni societarie, soprattutto quando le stesse avvengono nell’ambito di grandi gruppi di imprese (cfr. Cass. 1372/2011). Il principio dell’abuso di diritto è così applicato ai comportamenti del contribuente capziosi, dilatori, tesi a eludere una giusta pretesa tributaria (cfr. Cass. 17576/2002 e 30005/2008), ma non può certo essere utilizzato al fine di affermare l’illiceità di qualsiasi risparmio di imposta. In altre parole, l’abuso del diritto viene in rilievo soltanto quando la forma adottata abbia l’unico scopo di eludere la normativa fiscale di riferimento (prova questa che è posta a carico dell’Amministrazione Finanziaria) e non tutte le volte che un’operazione sia risultata più vantaggiosa fiscalmente rispetto ad altre operazioni affini. La prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli, incombe sul Fisco, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza delle ragioni economiche alternative o concorrenti di reale spessore che giustifichino operazioni in quel modo strutturate (da ultimo: Cass. n. 27679/2013).
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