La Cassazione con la sentenza n. 12282 del 20 maggio 2013 ha statuito che la l’operazione di ricomprare marchi d’impresa ricomprati a un prezzo decisamente superiore rispetto a quello di cessione fa scattare l’abuso del diritto. La sentenza ripropone l’attualità dei temi dell’anti-economicità e dell’abuso, che frequentemente sono utilizzati congiuntamente dall’amministrazione e dalla giurisprudenza.
In realtà i due principi, abuso e anti-economicità, operano su piani diversi:
- anti-economicità è una questione che riguarda l’evasione,
- l’abuso del diritto non è altro che un allargamento del concetto di elusione.
Tuttavia, anche l’abuso molte volte viene confuso con questioni che riguardano l’evasione.
Analizzando prima la vicenda dell’anti-economicità, occorre iniziare dalla circostanza che la stessa deve essere inquadrata nell’ambito del principio dell’inerenza. Il principio di inerenza possiamo definirlo come la relazione che vi è tra un componente economico e l’attività esercitata (o da esercitarsi) dall’imprenditore. Si tratta, quindi, di una questione di tipo qualitativo, nel senso che occorre verificare se vi è o meno questo collegamento.
L’inerenza tendenzialmente non riguarda, pertanto, questioni di tipo quantitativo – come la possibilità di rettificare una spesa perché ritenuta troppo alta – trattandosi di una valutazione circa il legame tra una spesa e l’attività. Questo non vuol dire, comunque, che non vi siano questioni di tipo quantitativo che riguardano l’inerenza. Soltanto che queste questioni sono state appositamente sottratte alle parti in causa (contribuente e Entrate) e fissate dal legislatore, per evitare defatiganti discussioni sulla parte (quantità) inerente o meno di una spesa. Tecnicamente, questo tipo di intervento (come quello per la deduzione delle autovetture) viene definito di “predeterminazione legale dell’inerenza”.
Quindi, al di fuori di queste predeterminazioni legali, l’inerenza torna ad essere essenzialmente una questione di tipo qualitativo (a parte le vicende presuntive). Perciò, se l’Agenzia contesta la congruità di una spesa perché ritenuta troppo alta – e quindi non la ammette interamente in deduzione – ne sta contestando l’inerenza, cioè la mancanza di un legame con l’attività svolta. In questo caso la giurisprudenza della Cassazione dà le soluzioni più variegate: a volte viene affermato l’onere di provare l’inerenza della spesa in capo al contribuente, a volte si afferma che l’onere ricade sull’amministrazione, anche se risultano più numerose le pronunce in base alle quali si distingue tra spese strumentali e necessarie (con onere di prova sull’Agenzia) e spese che non lo sono (con onere di prova sul contribuente).
In realtà, parlare di spese necessarie o strumentali non appare corretto in quanto le spese devono ritenersi inerenti oppure no. Non appare corretto nemmeno parlare di un onere di prova in quanto questo viene richiesto per i fatti (articolo 2697 codice civile), mentre l’inerenza è una questione legata ad una valutazione: quella se c’è o meno il legame con l’attività.
Pertanto, quando viene messa in dubbio l’inerenza, perché le spese vengono ritenute troppo alte, vi sarebbe più propriamente un onere di allegazione da parte delle Entrate, la quale deve rappresentare i motivi per i quali non vi è il legame tra la spesa e l’attività esercitata dal contribuente. Invece, quando l’Agenzia provvede a rideterminare al ribasso una spesa perché ritenuta troppo alta (ad esempio, quando una spesa viene ammessa in deduzione per 40 anziché per 100), si è nel campo delle presunzioni semplici. In sostanza, se l’Agenzia vuole rappresentare che si è in presenza di evasione per effetto della deduzione di spese anti-economiche – che vengono rideterminate al ribasso – deve provarlo attraverso una serie di presunzioni gravi, precise e concordanti (cioè con elementi che portino ad una certa probabilità del fatto presunto).
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