La Corte di Cassazione sez. tributaria con la sentenza n. 22698 depositata il 04 ottobre 2013 intervenendo in tema di accertamento ha statuito che è valido l’accertamento standardizzato per l’attività professionale svolta come secondo lavoro saltuario. Il fisco non può accettare la tesi che lavori in perdita il geometra, dipendente di un’azienda, che si dedica all’attività autonoma in via residuale.
La vicenda ha riguardato un geometra, dipendente a tempo pieno di un’azienda privata, a cui veniva notificato un avviso di accertamento con cui l’Amministrazione Finanziaria rettificava il reddito dichiarato sulla base dei parametri previsti dalla L. 549/95 e dal DPCM 29-1-1996. Il geometra svolgeva la libera professione nei ritagli di tempo. Ma questo quadro non può legittimare il “reddito negativo dichiarato”.
Il contribuente ricorreva alla Commissione Tributaria Provinciale lamentando la legittimità dei parametri ed in particolare che l’Ufficio non aveva tenuto conto che egli era lavoratore dipendente a tempo pieno presso un’azienda privata ed esercitava l’attività autonoma di libero professionista in modo residuale e saltuario. I giudici della CTP accolgono le motivazioni del ricorrente ed annullano l’atto impositivo. Avverso la decisione del giudici di prime cure l’Amministrazione Finanziaria ricorre alla Commissione Tributaria Regionale che accoglie parzialmente le motivazioni dell’Agenzia. In particolare la Commissione Tributaria Regionale precisava che l’accertamento operato mediante l’applicazione dei parametri in questione era per legge assistito da presunzione semplice, precisa e concordante, sicché spettava al contribuente giustificare lo spostamento tra il reddito accertato e quello dichiarato. Per cui rideterminava il reddito in misura inferiore a quanto accertato dall’Amministrazione.
Il contribuente avverso la sentenza della CTR proponeva ricorso, alla Corte Suprema per la cassazione della stessa, basandolo su cinque motivi di doglianza.
Gli Ermellini hanno ritenuto infondate le motivazioni e rigettato il ricorso Inoltre nelle motivazioni richiamano il principio di diritto, più volte affermato dalla Corte, secondo cui “la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con. il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito”
Respinte, in Cassazione, tutte le obiezioni mosse dal contribuente, e centrate soprattutto sulla prevalenza dell’attività come “lavoratore dipendente”.
Per i giudici del Palazzaccio, difatti, il quantum fissato dalla Commissione tributaria regionale, ossia “9milioni di lire” come “reddito imponibile di lavoro autonomo”, è motivato proprio alla luce dei “dati di fatto” certificati dal contribuente e della “residualità dell’attività autonoma professionale”.
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