La Corte di Cassazione, sezione civile, con la sentenza n. 1634 depositata il 27 gennaio 2014 intervenendo in tema di successioni per causa di morte ha statuito che un pagamento transattivo del debito del de cuius ad opera del chiamato all’eredità, a differenza di un mero adempimento dallo stesso eseguito con denaro proprio, configura un’accettazione tacita dell’eredità, non potendosi transigere un debito ereditario se non da colui che agisce quale erede.
La vicenda ha visto protagonista una degli eredi che aveva rinunciato all’eredita presentava al Tribunale la domanda volta ad ottenere, previa declaratoria di nullità e/o inefficacia della rinunzia all’eredità del genitore, deceduto in data 21.11.1986, che gli si riconoscesse la qualità di coerede legittimo del padre e, quindi, che si procedesse alla divisione dell’eredità del de cuius nonché si ordinasse alle convenute di rendere il conto della gestione dei beni ereditari. Il ricorrente sosteneva che la rinunzia all’eredità doveva considerarsi nulla o, comunque, inefficace, giacché effettuata nell’ambito di un accordo sostanzialmente divisorio intercorso fra gli eredi legittimi. Le convenute eccepivano l’intervenuta prescrizione del diritto dell’attore di accettare l’eredità e, comunque, l’infondatezza nel merito delle avverse domande, strumentalmente esperite onde contrastare l’azione da esse proposta al fine di conseguire il rilascio di un immobile dal medesimo attore detenuto.
Il Tribunale adito rigettava la domanda dell’attore, il quale avverso la pronuncia del giudice di prime cure proponeva ricorso alla Corte di Appello. I giudici territoriali rigettarono il gravame confermando,così, la statuizione del giudice di prime cure.
Per la cassazione della decisione del giudice di seconde cure l’attore proponeva ricorso, basato su quattro motivi di censura, alla Corte Suprema.
Gli Ermellini rigettavano il ricorso depositato. I giudici di legittimità hanno, tra l’altro, in aderenza all’insegnamento di questa Corte, non può che ribadirsi in questa sede il principio per cui l’esercizio del potere di disporre la rinnovazione dell’esame dei testimoni previsto dall’art. 257 c.p.c., esercitabile anche nel corso del giudizio di appello in virtù del richiamo contenuto nell’art. 359 c.p.c., involge un giudizio di mera opportunità che non può formare oggetto di censura in sede di legittimità neppure sotto il profilo del difetto di motivazione (cfr. Cass. 1.8.2002, n. 11436; Cass. sez. lav. 3.10.1995, n. 10371).
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