La Corte Costituzionale con la sentenza n. 148 depositata il 25 luglio 2024, chiamata a verificare la legittimità costituzionale dell’art. 230-bis, comma 3 e 230-ter del c.c., ha dichiarato “… l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto»;
[ed] in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter cod. civ. …”
Per i giudici costituzionale “… Nell’ambito europeo, l’adeguamento dell’ordinamento interno al quadro di progressiva evoluzione dei costumi del nostro paese ha trovato conforto e a volte stimolo nei principi della CEDU (che all’art. 8 riconosce il «Diritto al rispetto della vita privata e familiare») e in quelli della CDFUE (che all’art. 9 riconosce il «Diritto di sposarsi e di costituire una famiglia»); l’interpretazione di tali principi ad opera degli organi giurisdizionali sovranazionali si orienta nel senso del riconoscimento della tutela dei diritti legati alla vita privata e familiare all’unione di due persone in sé, anche se dello stesso sesso, a prescindere dalla celebrazione del matrimonio, purché la stessa sia connotata da stabilità.
Che la vita dei conviventi di fatto rientri nella concezione di vita “familiare” è una nozione ormai consolidata nella giurisprudenza della Corte EDU in sede di interpretazione dell’art. 8, paragrafo 1, (Corte EDU, sentenza 13 giugno 1979, M. contro Belgio; Corte EDU, sentenza 18 dicembre 1986, Johnston e altri contro Irlanda; Corte EDU, sentenza 26 maggio 1994, K. contro Irlanda; Corte EDU, sentenza 5 gennaio 2010, J. contro Polonia; Corte EDU, sentenza 27 aprile 2010, M.B. contro Italia; Corte EDU, sentenza 24 giugno 2010, S. and K. contro Austria; Corte EDU, sentenza 3 aprile 2012, V.D.H. contro Paesi Bassi; Corte EDU, grande camera, sentenza 7 novembre 2013, V. contro Grecia; Corte EDU, sentenza O. ed altri contro Italia); l’ambito soggettivo della nozione di «vita familiare» ai sensi dell’art. 8 CEDU include sia le relazioni giuridicamente istituzionalizzate, sia le relazioni fondate sul dato biologico, sia, infine, quelle che costituiscono “famiglia” in senso sociale, alla condizione che sussista l’effettività di stretti e comprovati legami affettivi.
Anche l’art. 9 CDFUE, nel riconoscere il «diritto di sposarsi» tra le libertà fondamentali tutelate in modo disgiunto e autonomo rispetto al «diritto di fondare una famiglia», ha realizzato una significativa apertura nei confronti delle famiglie di fatto ponendo le basi per un avanzamento nelle possibilità di protezione della molteplicità e varietà delle relazioni ad esse riconducibili. …”
Per i giudici delle leggi “… la disciplina dell’impresa familiare – a differenza di quella dell’impresa coniugale (art. 177, primo comma, lettera d, cod. civ.), che concerne specificamente il regime patrimoniale legale della comunione dei beni tra i coniugi – mira a tutelare il lavoro “familiare”, quale fattispecie intermedia tra il lavoro subordinato vero e proprio e quello gratuito, reso “affectionis vel benevolentiae causa”. La difficoltà per il prestatore di provare la subordinazione in siffatto contesto finiva prevalentemente per attrarre la prestazione nella fattispecie del lavoro gratuito, privo di effettiva protezione.
(…) pertanto la violazione del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.). Anche l’art. 3 Cost. risulta violato «non per la sua portata eguagliatrice, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente» (sentenza n. 213 del 2016), ma per la contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma posta a tutela del diritto al lavoro che va riconosciuto quale strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare (ancora, art. 2 Cost.). …”
Nella sentenza in commento viene chiarito ed affermato che “… Ai conviventi di fatto, intendendosi come tali «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale» (art. 1, comma 36, della legge n. 76 del 2016), vanno dunque riconosciute le stesse prerogative patrimoniali e partecipative del coniuge e della persona unita civilmente all’imprenditore.
(…) Pertanto – assorbito l’esame degli ulteriori parametri evocati (art. 9 CDFUE e art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 12 CEDU) – si deve dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, terzo comma, cod. civ., nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto».
(…) L’ampliamento della tutela apprestata dall’art. 230-bis cod. civ. al convivente di fatto per effetto della predetta pronuncia di illegittimità costituzionale fa sì che la previsione dell’art. 230-ter cod. civ. avrebbe oggi il significato non più di apprestare per quest’ultimo una garanzia prima non prevista, come nell’intendimento del legislatore del 2016, bensì quella di restringere – ingiustificatamente e in modo discriminatorio (in violazione dell’art. 3, primo comma, Cost.) – la più ampia tutela qui riconosciuta; un abbassamento di protezione che viola il diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), oltre che il diritto alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.).
Pertanto, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), la dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa in via consequenziale all’art. 230-ter cod. civ., che attribuisce al convivente di fatto una tutela dimidiata dal mancato riconoscimento del lavoro «nella famiglia», del diritto al mantenimento, del diritto di prelazione nonché dei diritti partecipativi, e quindi significativamente più ridotta rispetto a quella che consegue all’accoglimento della questione sollevata in riferimento all’art. 230-bis cod. civ. …”