AGENZIA DELLE ENTRATE – Risposta 11 ottobre 2021, n. 696
Articolo 60 del decreto legge 24 aprile 2017, n. 50 – Carried interest
Con l’istanza di interpello specificata in oggetto, è stato esposto il seguente
Quesito
La Alfa S.r.l. (di seguito la “Società” o “Istante”), è partecipata in misura paritetica dai seguenti due soci:
– Alfa S.p.A. (di seguito, il “Socio 1”), indirettamente detenuta al 100 per cento, per il tramite di un’altra società italiana, da una persona fisica italiana la quale ricopre anche il ruolo di amministratore delegato della Società;
– Beta S.à.r.l. (di seguito, “Socio 2”), società lussemburghese facente capo indirettamente ad un fondo di private equity.
L’Istante è stata costituita nel 2019 mediante un conferimento d’azienda da parte del Socio 1. Nel medesimo anno il Socio 2 ha acquistato una quota pari al 50 per cento del capitale sociale. In relazione a tale ingresso, si prospetta un aumento di capitale riservato ad alcuni manager della Società stessa o di società da questa controllate (“piano di co-investimento”).
La Società evidenzia di essere attualmente “partecipata in misura paritetica” dai due soci e “soggetta al controllo congiunto” da parte dei medesimi, “con la conseguenza che nessuno dei due può esercitare il controllo (solitario) sull’assemblea della Società. Inoltre, lo Statuto, al pari del Patto Parasociale stipulato tra i due soci, non alterano tale equilibrio in quanto non attribuiscono ad alcuno dei due soci diritti tali da consentirgli di esercitare da solo il controllo di fatto sulla Società”.
Inoltre, tenuto conto di quanto previsto dall’articolo 6.2.6 dello Statuto (ipotesi di quotazione) e dell’articolo 9.1.5 del Patto Parasociale (in base al quale Socio 2 è obbligato a trasferire l’intera partecipazione entro 10 anni), l’Istante prospetta una serie di ipotesi di modifica dell’attuale governance.
Ai sensi dell’articolo 16.1 del Patto Parasociale, infatti, le previsioni in esso contenute verranno meno in caso di quotazione, controllo totalitario di un solo socio, cessione totalitaria a terzi.
Per quanto concerne, invece, il “piano di co-investimento”, l’Istante dichiara che esso prevede la sottoscrizione/acquisto da parte dei manager di quote con diritti patrimoniali rafforzati che attribuiscono agli stessi il diritto:
a) a “partecipare eventualmente in misura differenziata rispetto agli altri soci alla distribuzione di utili o riserve o alla ripartizione del residuo attivo di liquidazione “; nonché
b) a ricevere un extra-rendimento al verificarsi di un evento connesso al disinvestimento del Socio 2.
Il diritto all’extra-rendimento sarebbe strettamente correlato al “ritorno complessivo dell’investimento”, rappresentato dal rapporto, almeno pari al 10 per cento annuo, tra i proventi della vendita/liquidazione della quota – maggiorata di eventuali dividendi percepiti in costanza di partecipazione – e il corrispondente costo.
Per quanto di rilievo, l’Istante precisa che, in base alle disposizioni dello Statuto, non sono consentiti trasferimenti parziali delle quote, salvo nell’ipotesi di avvio di un’eventuale quotazione (previa trasformazione della Società istante in società per azioni) e, successivamente, nell’ambito di qualsiasi trasferimento realizzato sul mercato.
Qualora l’uscita del Socio 2 avvenga nell’ambito della quotazione, ai fini del calcolo del rendimento spettante ai manager titolari delle quote con diritti patrimoniali rafforzati, il piano di co-investimento potrebbe prevedere le seguenti alternative:
1. il diritto dei manager a percepire l’extra-rendimento solo allorquando il Socio 2 abbia realizzato l’intera partecipazione, in caso contrario i manager resterebbero titolari di azioni con diritti patrimoniali rafforzati non negoziate. Solo nel momento in cui sia completato il disinvestimento da parte del Socio 2, le azioni detenute dai manager saranno convertite in azioni ordinarie il cui valore corrisponde all’extrarendimento spettante in base a specifici valori del ritorno complessivo dell’investimento;
2. il diritto dei manager a percepire l’extra-rendimento qualora, nel contesto di una offerta pubblica di acquisto finalizzata alla quotazione, il Socio 2 proceda ad un trasferimento parziale. In tale ipotesi il valore del ritorno complessivo dell’investimento sarà calcolato “fingendo” che questi abbia ceduto l’intera partecipazione al prezzo fissato in occasione dell’offerta pubblica di vendita iniziale.
Contestualmente alla quotazione, le quote con diritti patrimoniali rafforzati detenute dai manager saranno convertite in azioni ordinarie secondo le modalità sopra illustrate.
Con particolare riferimento alla posizione dei manager, inoltre, il piano di coinvestimento prevede che, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, le quote detenute dal manager cessato possano essere acquistate dagli altri manager ovvero, in proporzione, dai due Soci. Il prezzo di riacquisto delle quote varia in relazione alla causa che ha determinato la cessazione del rapporto di lavoro:
– in caso di licenziamento senza giusta causa e laddove non si verifichi un evento di underperfomance (good leaver), le quote sono riacquistate ad un prezzo pari al maggiore tra il valore di mercato ed il costo;
– in caso di licenziamento causato da underperfomance rispetto al business plan o di dimissioni volontarie senza violazione del patto di non concorrenza (intermediate leaver), le azioni sono riacquistate a prezzi diversi in funzione del momento in cui si verifica il licenziamento;
– in caso di licenziamento per giusta causa o di dimissioni volontarie con violazione del patto di non concorrenza (bad leaver), il prezzo di acquisto sarà pari al minore tra il valore di mercato e il costo.
Relativamente all’importo dell’investimento effettuato dai manager, l’Istante dichiara che la somma rappresenta una percentuale inferiore all’1 per cento del valore del capitale della Società. Tuttavia, la soglia minima di investimento richiesta dall’articolo 60, comma 1, lettera a), del decreto legge n. 50 del 2017, sarebbe integrata ove, all’importo versato dai manager, si sommasse anche il valore delle quote ordinarie detenute dal Socio 1, le quali, sebbene prive di diritti patrimoniali rafforzati, fanno capo indirettamente ad una persona fisica che riveste la qualifica di amministratore della Società.
Ciò rappresentato, la Società, in qualità di emittente dei titoli con diritti patrimoniali rafforzati, chiede se sussistano nel caso rappresentato, le condizioni affinché il piano di co-investimento possa beneficiare del regime fiscale di cui all’articolo 60 del decreto legge n. 50 del 2017 e, più in dettaglio se:
1. ai fini della verifica del requisito dell’investimento minimo richiesto dall’articolo 60, comma 1, lettera a), del citato decreto legge, si possa tenere conto del valore dell’investimento effettuato indirettamente dall’amministratore delegato della Società, sebbene tale soggetto abbia sottoscritto solo quote prive di diritti patrimoniali rafforzati;
2. le ipotesi di cessione totale o parziale della partecipazione da parte del Socio 2 al ricorrere delle quali scatta il diritto dei manager di percepire il rendimento rafforzato siano riconducibili alla definizione di “cambio del controllo” prevista dall’articolo 60, comma 1, lettere b) e c) del medesimo decreto legge;
3. il requisito della postergazione nella distribuzione dell’extra-rendimento richiesto dalla citata lettera b) del comma 1 dell’articolo 60 si possa considerare verificato anche nell’ipotesi in cui – in sede di quotazione – il Socio 2 proceda alla vendita parziale della partecipazione detenuta nella Società;
4. la circostanza che, in limitati casi, le quote detenute dai manager possano essere riacquistate dagli altri soci o dai manager ad un prezzo pari al maggiore tra il costo di acquisto ed il loro valore di mercato pregiudichi la possibilità di applicare la presunzione legale contenuta nel citato articolo 60.
Soluzione interpretativa prospettata dal contribuente
L’Istante ritiene che ai fini del rispetto del requisito dell’investimento minimo di cui alla lettera a) del comma 1 dell’articolo 60 del decreto legge n. 50 del 2017, si debba tenere conto degli esborsi effettuati da tutti i dipendenti/amministratori, ivi inclusi quelli che hanno sottoscritto solo azioni/quote/strumenti finanziari privi di diritti patrimoniali rafforzati. Di conseguenza, a parere dell’Istante, il requisito dell’investimento minimo sarebbe integrato sommando all’investimento effettuato dai manager il valore della quota detenuta dall’amministratore delegato che, pur non avendo sottoscritto quote con diritti patrimoniali rafforzati, detiene il 50 per cento del capitale sociale “ordinario” della Società.
Con riferimento alle circostanze che possono determinare “un sostanziale mutamento degli assetti societari”, l’Istante ritiene che sia il tenore letterale della disposizione sia la sua ratio autorizzino a non circoscrivere l’ambito applicativo della disciplina alle sole ipotesi in cui la cessione abbia ad oggetto una partecipazione di controllo ex articolo 2359 del codice civile, ma ad estenderne l’applicazione anche alle situazioni – come quella in esame – in cui due soggetti esercitino il controllo congiunto sulla Società in virtù di patti parasociali, laddove la cessione, pur potendo avere ad oggetto solo la partecipazione detenuta da uno dei soci, sia tale da comportare un sostanziale mutamento degli assetti societari.
Con riferimento, infine, alla verifica della ricorrenza del requisito della postergazione nelle ipotesi di cambio del controllo a seguito di cessione parziale sul mercato della partecipazione detenuta, l’Istante ritiene che si debba computare, in aggiunta al corrispettivo percepito per le azioni cedute, anche il valore di mercato delle azioni non cedute.
Da ultimo l’Istante ritiene che, anche qualora non si ritenesse applicabile la presunzione di cui all’articolo 60 decreto legge n. 50 del 2017, nel caso in esame, i redditi di cui trattasi sarebbero comunque da ricomprendere tra i redditi di natura finanziaria sia in quanto l’investimento effettuato dai manager ammonterebbe a complessivi 2 milioni di euro, sia in quanto i manager percepiscono per l’attività lavorativa svolta una remunerazione, comprensiva anche di una quota variabile, adeguata con gli standard di mercato, tanto da escludere che la remunerazione degli strumenti finanziari in parola sia finalizzata ad integrare il salario ordinario dei manager.
Parere dell’Agenzia delle entrate
Il comma 1 dell’articolo 60 del decreto legge 24 aprile 2017, n. 50 stabilisce che «I proventi derivanti dalla partecipazione, diretta o indiretta, a società, enti o organismi di investimento collettivo del risparmio percepiti da dipendenti e amministratori di tali società, enti od organismi di investimento collettivo del risparmio ovvero di soggetti ad essi legati da un rapporto diretto o indiretto di controllo o gestione, se relativi ad azioni, quote o altri strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati», si considerano, al ricorrere di determinati requisiti, «in ogni caso redditi di capitale o redditi diversi».
La qualificazione come reddito di capitale o diverso stabilita dalla norma opera qualora siano presenti congiuntamente i requisiti indicati alle lettere a), b) e c) della medesima disposizione, ovvero:
«a) l’impegno di investimento complessivo di tutti i dipendenti e gli amministratori di cui al presente comma, comporta un esborso effettivo pari ad almeno l’1 per cento dell’investimento complessivo effettuato dall’organismo di investimento collettivo del risparmio o del patrimonio netto nel caso di società o enti;
b) i proventi delle azioni, quote o strumenti finanziari che danno i suindicati diritti patrimoniali rafforzati maturano solo dopo che tutti i soci o partecipanti all’organismo di investimento collettivo del risparmio abbiano percepito un ammontare pari al capitale investito e ad un rendimento minimo previsto nello statuto o nel regolamento ovvero, nel caso di cambio di controllo, alla condizione che gli altri soci o partecipanti dell’investimento abbiano realizzato con la cessione un prezzo di vendita almeno pari al capitale investito e al predetto rendimento minimo;
c) le azioni, le quote o gli strumenti finanziari aventi i suindicati diritti patrimoniali rafforzati sono detenuti dai dipendenti e amministratori di cui al presente comma, e, in caso di decesso, dai loro eredi, per un periodo non inferiore a cinque anni o, se precedente al decorso di tale periodo quinquennale, fino alla data di cambio di controllo o di sostituzione del soggetto incaricato della gestione».
La disposizione è diretta ad evitare le incertezze nella qualificazione reddituale dei proventi in discorso come redditi derivanti da attività lavorativa piuttosto che come redditi di natura finanziaria, incertezze derivanti dal duplice ruolo rivestito dai manager, al contempo amministratori/dipendenti ed azionisti/quotisti delle società, degli enti o degli OICR richiamati dalla stessa norma.
In altri termini, prima dell’entrata in vigore della disposizione richiamata e dell’introduzione della presunzione assoluta in commento, non risultavano individuate le ipotesi in cui il provento conseguito dal manager costituiva senza dubbio una remunerazione connessa alla posizione di co-investitore rispetto a quelle in cui esso rappresentava, invece, una sorta di commissione di gestione (performance fee) corrisposta a titolo di retribuzione dell’attività lavorativa (cfr. circolare16 ottobre 2017, n. 25/E par. 1).
L’integrazione dei requisiti previsti dalla nuova disposizione attribuisce al provento percepito dal manager o dal dipendente natura finanziaria a prescindere da qualsiasi legame con l’attività lavorativa prestata presso la società, ente o OICR partecipati (o presso società od enti collegati o controllati dalle prime).
Anche la presenza di clausole particolari quali le clausole di leavership, che assicurino alla società un diritto di riscatto al venir meno del rapporto lavorativo con il manager, non assume rilevanza poiché al ricorrere delle condizioni di cui alle lettere a), b), c), i redditi derivanti dal carried interest sono comunque qualificati ex lege come redditi di capitale o diversi.
Il mancato rispetto dei parametri fissati dalla nuova disposizione pone invece la questione della qualificazione reddituale dei proventi rivenienti da siffatti strumenti.
Ciò premesso, in relazione alla fattispecie prospettata, con particolare riferimento al rispetto del primo requisito richiesto dal citato articolo 60, ovvero all’impegno di investimento minimo da parte dei titolari di diritti patrimoniali rafforzati, si rileva che, in ragione di quanto affermato dall’Istante, tale requisito sarebbe integrato e la soglia dell’1 per cento sarebbe superata solo qualora si potesse tenere conto del valore dell’investimento effettuato indirettamente dall’amministratore delegato (nonché socio fondatore) della Società, sebbene tale soggetto detenga, indirettamente, solo quote prive di diritti patrimoniali rafforzati.
Al riguardo, si ritiene che la disposizione di cui al comma 3 dell’articolo 60 in esame, ai sensi della quale «Ai fini della determinazione dell’importo di cui al comma 1, lettera a), si considera anche l’ammontare sottoscritto in azioni, quote o altri strumenti finanziari senza diritti patrimoniali rafforzati», è da riferirsi ai soli dipendenti e amministratori sottoscrittori di azioni, quote o altri strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati e non anche a tutti coloro che, seppur aventi il citato status lavorativo, siano sottoscrittori di sole azioni ordinarie, come nel caso in esame.
In altre parole, l’ammontare sottoscritto in azioni, quote o altri strumenti finanziari senza diritti patrimoniali rafforzati rileva, ai fini del computo del limite dell’1 per cento dell’investimento complessivo, solo per coloro che siano titolari di diritti patrimoniali rafforzati.
Tale conclusione si ricava dalla stessa formulazione della disposizione di cui alla lettera a) citata che, infatti, non fa riferimento ai dipendenti e agli amministratori in generale, bensì fa esplicito richiamo «a tutti i dipendenti e amministratori di cui al presente comma», ovvero ai titolari di diritti patrimoniali rafforzati.
Una diversa lettura, a parere della scrivente, affievolirebbe notevolmente la portata della norma che, come chiarito dalla relazione illustrativa al decreto legge n. 50 del 2017, richiede la sussistenza di determinati requisiti a garanzia di un allineamento degli interessi e rischi dei manager rispetto a quelli degli altri investitori ai fini di una comune assunzione e condivisione del rischio societario.
Tale allineamento costituisce la ratio dell’assimilazione dei proventi normati dalla disposizione in commento ai redditi di natura finanziaria (di capitale o diversi), assimilazione che la norma opera a prescindere da qualsiasi legame con l’attività lavorativa prestata dai manager o dipendenti presso la società, ente od OICR.
Pertanto, laddove il limite dell’1 per cento fosse riferito a tutti gli investitori titolari di reddito di lavoro dipendente o ad esso assimilato, a prescindere quindi dalla loro titolarità di diritti patrimoniali rafforzati, si altererebbe la finalità di assunzione e condivisione del rischio di investimento in capo ai beneficiari del carried interest perseguita dalla disposizione.
In tal senso, inoltre, andrebbe valutata, sotto il profilo dell’abuso del diritto, l’eventuale attribuzione di quote con diritti patrimoniali rafforzati a manager già titolari di partecipazioni ordinarie rilevanti nella società emittente le quote con diritti patrimoniali rafforzati (o nel gruppo) che, anche tenuto conto delle prassi di mercato, appaia meramente simbolica o comunque manifestamente non adeguata e non proporzionata al ruolo ricoperto dal manager rispetto agli investimenti in quote con diritti patrimoniali rafforzati degli altri manager.
Ciò premesso, con riferimento al caso di specie, l’Istante ha dichiarato che il valore del patrimonio netto della Società sarà assunto in misura pari al valore dei conferimenti asseverato dal perito in occasione del conferimento di ramo d’azienda effettuato dal Socio 1 a favore dell’Istante, ovvero pari a euro 650 milioni, aumentato dell’utile risultante dal bilancio chiuso al 31 dicembre 2019 (pari a euro 0,6 milioni), “in quanto dalla data del suddetto conferimento, perfezionatosi il 28 ottobre 2019, non sono intervenuti accadimenti tali da modificare il valore della Società”.
L’Istante ha, inoltre, dichiarato che l’investimento complessivo da parte dei dipendenti e manager sottoscrittori delle quote con diritti patrimoniali rafforzati sarà pari a euro 2 milioni, rappresentando, in tal caso, circa lo 0,31 per cento dell’investimento complessivo.
Pertanto, alla luce di quanto appena illustrato, si ritiene che il requisito di cui alla lettera a) del comma 1 dell’articolo 60 del decreto legge n. 50 del 2017, non possa ritenersi soddisfatto.
Non essendo soddisfatto il primo requisito, la qualificazione fiscale dei proventi derivanti da strumenti finanziari rafforzati quali reddito di capitale o diverso non opera ope legis e, conseguentemente, si renderà necessaria un’analisi delle caratteristiche del titolo partecipativo con diritti patrimoniali rafforzati ai fini dell’individuazione della sua natura reddituale.
Come chiarito nella circolare n. 25/E del 2017, un criterio rilevante di valutazione è sicuramente l’idoneità dell’investimento, anche in termini di ammontare, a garantire l’allineamento di interessi tra investitori e management e la correlata esposizione al rischio di perdita del capitale investito che contraddistingue l’investimento del management. Se tale caratteristica può costituire un indice della natura finanziaria del provento, pattuizioni che incidano in senso negativo sulla posizione di rischio del manager fino a neutralizzarla del tutto (si pensi a clausole che garantiscano al dipendente la restituzione integrale, in ogni caso, del capitale investito) mal si conciliano con la qualificazione dello stesso come reddito di capitale o diverso.
In particolare, la presenza di clausole di good o bad leavership costituisce un indicatore utile a collegare il provento all’impegno profuso dal manager nell’attività lavorativa (e quindi a produrre reddito di lavoro).
Consentire, invece, al manager di mantenere la titolarità degli strumenti finanziari anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro costituisce un’indicazione sufficiente ad escludere in radice uno stretto legame con l’attività lavorativa del manager, ed indica la natura finanziaria del reddito in questione.
Ciò posto, con riferimento alla fattispecie, si rileva che la clausola prevista nel piano di co-investimento, in base alla quale nell’ipotesi di good leaver, i manager o gli altri soci hanno la facoltà di acquistare le quote del manager cessato ad un prezzo pari al maggiore tra il valore di mercato ed il costo, limita l’esposizione del manager al rischio di perdita del capitale investito.
Tale clausola, infatti, garantisce al manager di ottenere per le proprie quote un prezzo quantomeno pari al costo di acquisto, sebbene limitatamente all’ipotesi di riacquisto delle quote medesime in caso di leaver.
Inoltre, qualora il rapporto di lavoro tra il manager e la Società termini prima dell’exit del Socio 2, ai Soci e agli altri manager è riconosciuta una call option sulla partecipazione del manager uscente a valori variabili in base di clausole di Good leaver/Intermediate leaver/Bad leaver.
Pertanto, il manager non ha il diritto di mantenere la titolarità degli strumenti finanziari anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro, ma al contrario è esposto al rischio di dover cedere forzatamente a valori prestabiliti la partecipazione detenuta.
Considerato che nel caso di bad leaver il prezzo di esercizio è individuato nel minore tra il valore di mercato e il costo di acquisto, così da non riconoscere al manager uscente la crescita di valore del titolo intervenuta fino al momento in cui si verifica l’evento che determina l’interruzione del rapporto di lavoro, è presumibile ritenere che la call option sia esercitata da parte dei Soci.
Dalla documentazione integrativa prodotta, emerge, altresì, che ad esclusione di due soli manager (che percepiscono anche una remunerazione variabile), gli altri manager ai quali è destinato il piano hanno una retribuzione costituita, esclusivamente, da una parte fissa, non essendo contemplata una parte variabile legata a risultati di performance.
Inoltre, la sottoscrizione di aumento di capitale non sarà aperta a soggetti diversi dai quelli che prestano a vario titolo un’attività lavorativa. L’Istante ha, infatti, chiarito nella documentazione integrativa che sta valutando di estendere la partecipazione anche ad “alcuni consulenti”.
L’insieme di tali previsioni induce la scrivente a ritenere che i redditi derivanti da tali strumenti finanziari debbano essere qualificati come redditi di lavoro dipendente ai sensi dell’articolo 51 del Tuir.
Per completezza, nella differente ipotesi in cui il primo requisito potesse essere rispettato in quanto l’effettivo esborso dei manager fosse superiore all’1 per cento del valore del patrimonio della società occorrerebbe verificare il soddisfacimento dei requisiti successivi.
In tal caso, il requisito del differimento nella distribuzione dell’extra-rendimento, di cui alla lettera b) del comma 1, dell’articolo 60 del decreto legge n. 50 del 2017, può considerarsi rispettato qualora l’extra-rendimento maturi solo dopo che tutti gli investitori, ivi inclusi i titolari di strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati, abbiano percepito il rimborso del capitale investito e il rendimento minimo (hurdle rate) previsto dal regolamento o dallo statuto del fondo o della società.
Tale requisito, ai sensi della citata lettera b) del comma 1 dell’articolo 60 deve essere rispettato anche in caso di “cambio di controllo”. Più precisamente, affinché in tale ipotesi operi la presunzione è necessario, tra l’altro, che gli altri soci o partecipanti all’investimento abbiano realizzato, con la cessione, un prezzo di vendita almeno pari al capitale investito e al predetto rendimento minimo (hurdle rate).
La richiamata circolare n. 25/E del 2017 ha precisato, sul punto, che il conseguimento del diritto patrimoniale rafforzato è disciplinato in relazione alle cessioni poste in essere nel caso di “cambio di controllo” che determini un “sostanziale mutamento degli assetti societari”.
Tale precisazione non prescinde dalla nozione civilistica di controllo, ma la presuppone e la declina ulteriormente. In altri termini, affinché possa operare la presunzione de qua, è necessario che, per effetto delle cessioni, si attui un cambio del controllo in grado di determinare un “concreto mutamento” degli assetti decisionali e di governance della società.
Nella realtà societaria possono essere raggiunti equilibri differenti, ad esempio attraverso lo strumento dei patti parasociali che consentono di conseguire il controllo di fatto di una società anche attraverso il potenziamento o l’accrescimento di partecipazioni di minoranza.
In tale contesto, ai fini della nozione di “cambio di controllo”, cui fa riferimento l’articolo 60 del decreto legge n. 50 del 2017, l’evento decisivo è costituito dal disinvestimento effettuato dal socio che detiene il controllo della società, accompagnato dalla modifica sostanziale dell’assetto societario esistente ex ante.
Pertanto, rientra nell’ambito di applicazione del citato articolo 60, l’ipotesi in cui la cessione della partecipazione detenuta da un socio comporti il passaggio da una situazione in cui detto socio esercita il controllo sulla società a una situazione in cui la società passa sotto il controllo di un terzo.
Nel caso di specie, si evidenzia che sulla base dell’articolo 5-bis.1 dello Statuto della Società, il Socio 1 e il Socio 2 hanno il diritto di nominare tre membri del consiglio di amministrazione ciascuno e, congiuntamente, gli altri due membri del consiglio di amministrazione.
Inoltre, nell’articolo 13-bis dello Statuto concernente le “decisioni dell’assemblea dei Soci rilevanti” è stabilito che su determinate materie è previsto che la deliberazione assembleare è valida a condizione che “il Socio 2 e il Socio 1 siano presenti e abbiano espresso voto favorevole”.
Tuttavia, dal Patto Parasociale allegato all’istanza, sembrerebbe essere riconosciuto alla persona fisica (amministratore delegato della Società istante) che controlla il Socio 1, il voto prevalente in caso di parità di voto per tutte le “decisioni del Consiglio di Amministrazione o del competente organo … concernenti esclusivamente …” (cfr. articolo 4.2.4) che rappresentano scelte gestionali strategiche della controllata in relazione al core business dell’attività svolta dal gruppo. E’ inoltre previsto che la medesima persona fisica mantenga la nomina di amministratore delegato e presidente del consiglio di amministrazione della Società e di altre società del gruppo nonché i poteri, compensi e benefits attualmente riconosciutigli e non modificabili in senso peggiorativo sino alla cessazione dalla carica o alla perdita del controllo del Socio 1.
Tali circostanze evidenziano una governance differente rispetto a quella delineata nell’istanza con la conseguenza che l’eventuale cessione della quota di partecipazione del Socio 2 non sembrerebbe comportare un effettivo cambio di controllo della Società, che invece potrà realizzarsi solo in caso di quotazione della Società istante.
Infatti, l’articolo 16.1 del Patto Parasociale prevede, tra l’altro, che lo stesso rimane in vigore fino alla data in cui avrà luogo una quotazione.
La presente risposta si basa sui fatti e sui dati come prospettati nell’istanza di interpello e dei relativi allegati, assunti acriticamente, fermo restando, in capo al competente Ufficio finanziario, l’ordinario potere di verifica e di accertamento nei confronti dell’istante e dei detentori di strumenti finanziari partecipativi, con riferimento a una differente qualificazione dei proventi in esame anche sotto il profilo dell’abuso del diritto ai sensi dell’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212.
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