Corte di Cassazione n. 22659 del 11 dicembre 2012
RAPPORTO DI LAVORO – MOLESTIE SESSUALI – RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO – LICENZIAMENTO – SANZIONE DISCIPLINARE
massima
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Le molestie sessuali sul luogo di lavoro, incidendo sulla salute e la serenità (anche professionale) del lavoratore, comportano l’obbligo di tutela a carico del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c., sicchè deve ritenersi legittimo il licenziamento irrogato a dipendente che abbia molestato sessualmente una collega sul luogo di lavoro, a nulla rilevando la mancata previsione della suddetta ipotesi nel codice disciplinare e senza che, in contrario, possa dedursi che il datore di lavoro è controparte di tutti i lavoratori, sia uomini che donne, e non può perciò essere chiamato ad un ruolo protettivo delle seconde nei confronti dei primi, giacché, per un verso, le molestie sessuali possono avere come vittima entrambi i sessi e, per altro verso, il datore di lavoro ha in ogni caso l’obbligo, a norma dell’art. 2087 cit., di adottare i provvedimenti che risultino idonei a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, tra i quali rientra l’eventuale licenziamento dell’autore delle molestie sessuali.
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Svolgimento del processo-Motivi della decisione
Con sentenza del 6.10.2008, la Corte di Appello di Trieste rigettava il gravame proposto da P.F. avverso la sentenza del Tribunale di Udine nella parte in cui, respinta la domanda proposta ai sensi dell’art. 2087 c.c. nei confronti della società Eurocakes, aveva condannato il predetto al risarcimento del danno in favore di C.E. nella misura di Euro 3000,00 per avere posto in essere nei confronti di quest’ultima condotte integranti molestie sessuali.
Rilevava il giudice del gravame che l’istruttoria svolta nel corso del giudizio di primo grado aveva confermato integralmente le dichiarazioni della C. con riguardo agli episodi di molestia addebitati al superiore gerarchico P. (apprezzamenti pesanti, gesti a sfondo violento, molestie sessuali). Richiamava, a fondamento della decisione, la direttiva comunitaria 2002/73/CE e quanto previsto al riguardo anche dal D.Lgs. n. 198 del 2006, che contemplava una definizione di molestia sessuale sovrapponibile a quella elaborata in ambito comunitario, osservando che i fatti avevano trovato conferma nella dichiarazioni rese dal teste Co.
e D.S. ed in quanto dichiarato dal teste Dr. in ordine alla circostanza che la C. si era rivolta a lui per segnalare la condotta che il P. teneva normalmente nei suoi confronti.
Anche il teste S. era stato messo al corrente dalla lavoratrice dell’accaduto, onde, a fronte di tali risultanze, era ininfluente il numero delle volte in cui si erano concretizzate le molestie, essendo pacifico che si era trattato di condotte ripetutesi in più occasioni, rispetto alle quali l’importo liquidato era stato determinato in modo corretto.
Per la cassazione di tale pronuncia ricorre il P., affidando a quattro motivi “( l’impugnazione, cui resiste con controricorso la C., la quale chiede anche la condanna del ricorrente al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c..
La Corte ha autorizzato la redazione della motivazione in forma semplificata.
Con il primo motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione di norme di diritto e, in particolare, degli artt. 324, 325, 346, 433, 436 c.p.c., dell’art. 2909 c.c. e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, assumendosi che l’appellata non abbia impugnato la parte della sentenza di primo grado in cui si escludevano alcuni episodi (episodio in cui era stata levata la cuffia alla C. e quello relativo ad un tentativo del P. di sferrarle un calcio), ma che poi le domande relative a tali episodi siano state riproposte nella memoria difensiva ex art. 436 c.p.c., senza la proposizione di appello incidentale, per cui sul rigetto delle stesse deve ritenersi formato il giudicato. Osserva che la sentenza di secondo grado ha dato per accertata la responsabilità del P. anche in ordine a tali capi della domanda, viceversa rigettati dalla pronunzia di primo grado.
Con il secondo motivo, si denunzia violazione e falsa applicazione di norme di diritto – artt. 414 e 416, 112 e 115 c.p.c. – e dei contratti e accordi collettivi, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, osservandosi che nel ricorso la lavoratrice avrebbe dovuto allegare specificamente le esatte modalità spazio temporali in cui il singolo atto di molestia era stato posto in essere e non limitarsi a formulare indicazioni generiche e che il giudice avrebbe dovuto verificare l’avvenuto assolvimento dell’onere della prova con riferimento alle dette specifiche modalità spazio temporali, rigettando la domanda se non contenente dette precisazioni.
Violazione e falsa applicazione degli artt. 414 e 416, 112 e 115 c.p.c., e di norme di accordi collettivi nazionali, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 nonchè vizio di motivazione vengono dedotti dal P. con il terzo motivo, nel quale si riportano i capi di prova articolati e le risposte date dai testi escussi in ordine a quanto loro richiesto e si rileva che “una volta considerate le suddette deposizioni testimoniali e motivato in ordine alle stesse, considerandole nell’iter logico che unisce fattispecie a decisione giudiziaria, l’impugnata sentenza avrebbe dovuto pervenire ad una statuizione di rigetto”.
Vizio di violazione di legge e, specificamente, degli artt. 414 e 416, 115 c.p.c., dell’art. 1226 c.c., art. 11 Cost., comma 4, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 nonchè vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 vengono denunziati nel quarto motivo, evidenziandosi che, ai fini della liquidazione del danno morale, non sono state indicate le circostanze di fatto considerate nella valutazione equitativa compiuta e dell’iter logico che ha condotto a quel risultato, considerando il danno morale in re ipsa..
Deve essere disatteso i primo motivo, essendo principio pacifico quello alla cui stregua la parte vittoriosa in primo grado non è tenuta a proporre appello incidentale, posto che la disposizione dell’art. 346 cod. proc. civ., secondo cui le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado si intendono rinunciate se non espressamente riproposte in appello, è dettata proprio per tale parte, la quale, non onerata dall’impugnazione per difetto di interesse, deve, tuttavia, riproporre specificamente nell’atto di costituzione in secondo grado, oltrechè le domande, le questioni non accolte dal primo grado, tra cui i fatti che per il loro rilievo giuridico siano serviti a contrastare l’altrui pretesa, come, nella specie, gli episodi ulteriori non posti a fondamento della decisione di prime cure (V., tra le altre, Cass. 23.6.2009 n. 14673).
Il secondo e terzo motivo si ritengono inammissibili prima ancora che infondati, in quanto generici e non idonei a censurare la sentenza di secondo grado in base ad una dedotta erronea valutazione di contestazioni specificamente formulate nell’atto di appello e richiamate puntualmente nel motivo del presente ricorso, senza considerare che, quanto al vizio di violazione di legge, manca il quesito prescritto ratione temporis dall’art. 366 bis c.p.c. in particolare, in ordine a vizio di motivazione, la censura è mal formulata perchè non contesta specificamente l’impianto motivazionale, non indicando le lacune i vizi logici atti ad evidenziarne la inidoneità a sorreggere il decisum e peraltro non indica alcun elemento di criticità della motivazione o fatti decisivi, che, ove considerati, avrebbero indotto a mutare i termini della pronuncia. Ed invero, il motivo di ricorso con cui – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 così come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2 – si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, deve specificamente indicare il “fatto” controverso o decisivo in relazione al quale la motivazione si assume carente, dovendosi intendere per “fatto” non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 cod. civ., (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo (cfr, da ultimo, in tali termini, Cass. 5.2.2011 n. 28055 e, in senso conforme, Cass. 27.7.2012 n. 13457).
In ordine al quarto motivo, deve rilevarsi che ugualmente la sua formulazione pecca di genericità, atteso che non si evidenziano gli errori compiuti dal giudice del merito con riguardo ad un motivo di gravame in cui si prospettava la mancata precisazione del titolo del danno subito, e rispetto al quale nella presente sede si conviene, invece, sul fatto che si trattasse di danno morale. Al riguardo era stato ben evidenziato dalla Corte del merito, in coerenza con le acquisite risultanze probatorie, che le condotte illecite del P. non erano state solo quelle fisiche o verbali afferenti alla sfera sessuale, ma anche quelle genericamente violente, e che tali comportamenti oggettivamente, al di là dell’intento del suo autore, avevano effetti lesivi per la dignità di chi li aveva subiti, non essendo un contegno quale quello denunziato adeguato e giustificabile per chi, come il P., si trovava in una posizione superiore rispetto alla lavoratrice neoassunta, la quale, pertanto, non poteva non avere risentito in termini di lesione della propria sfera morale del pregiudizio connesso anche al discredito causato nell’ambiente lavorativo dalle descritte vicende.
La domanda di condanna al risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata, ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ., può, in linea di principio, essere proposta anche in sede di legittimità, per i danni che si assumono derivanti dal giudizio di cassazione e, in particolare, quando si riferisca a danni conseguenti alla proposizione del ricorso, deve essere formulata, a pena di inammissibilità, con il controricorso, come avvenuto nella specie (cfr. Cass. 11.10.2011 n. 20914). Tuttavia, l’accoglimento della domanda di condanna al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 1, per avere la controparte processuale agito o resistito in giudizio con dolo o colpa grave, presuppone l’accertamento sia dell’elemento soggettivo dell’illecito (mala fede o colpa grave), sia dell’elemento oggettivo (entità del danno sofferto), con la conseguenza che, ove dagli atti del processo non risultino, come nel caso all’esame, elementi obbiettivi dai quali desumere la concreta esistenza del danno, nulla può essere liquidato a tale titolo, neppure ricorrendo a criteri equitativi (cfr. per l’affermazione del principio richiamato, Cass. 1.12.1995 n. 12422; Cass. 28.7.1997 n. 7051).
Alla stregua delle svolte considerazioni, il ricorso va rigettato e le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza del P., a carico del quale vanno poste nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 40,00 per esborsi ed Euro 2000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.
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