CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 25 giugno 2013, n. 15869
Dichiarazione – Indagini obbligatorie a carico del Tribunale fallimentare – Limiti
Ritenuto in fatto e in diritto
La società M.I. s.r.l. in persona del suo amministratore in carica G. I. ha reclamato innanzi alla Corte d’appello di Salerno la sentenza del 24-5/25-5.2011 del Tribunale di Vallo della Lucania dichiarativa del suo fallimento, deducendo l’insussistenza del suo stato d’ insolvenza.
Il reclamo è stato respinto dalla Corte del merito adita con sentenza n. 1426 depositata il 27 aprile 2012 contro cui l’anzidetta società ha proposto ricorso per cassazione affidandolo a quattro motivi resistiti dal creditore istante s.p.a S. che ne ha chiesto il rigetto. Il curatore fallimentare non ha invece svolte difese.
Il Consigliere rei ha osservato che:”Il ricorso può essere trattato in camera di consiglio.
2.- La decisione impugnata, premessa la pacifica esistenza del credito addotto dalla Società istante S. s.p.a. a sostegno del ricorso di fallimento, ha rilevato che la debitrice non aveva documentato lo stato della pratica di rimborso del credito IVA, peraltro non adeguatamente provato né ammesso da Equitalia Polis, dell’importo di € 220.000,00, né ha depositato polizza fideiussoria non ottemperando all’ordine del Tribunale. La debitoria accertata in sede di formazione dello stato passivo ne confermava lo stato di decozione.
Lamenta la ricorrente col primo motivo, con cui denuncia violazione degli artt. 1, 5 e 18 legge fall., l’omesso esercizio da parte della Corte di merito del potere di richiedere informazioni urgenti presso la Direzione provinciale di Salerno al fine di accertare lo stato della pratica di rimborso del suo credito IVA, il cui importo avrebbe coperto il debito accertato a favore della creditrice istante.
La decisione, fondata sull’assunta natura discrezionale del potere d’indagine officiosa attribuito all’organo giudicante, comunque non ammessa per colmare le lacune istruttorie delle parti, applica correttamente il consolidato orientamento che esclude siffatto obbligo circoscrivendo il potere di indagine officiosa del Tribunale fallimentare, e analogamente della Corte del reclamo, ai fatti dedotti quali allegazioni difensive, subordinandolo ad una valutazione del giudice di merito competente “circa l’incompletezza del materiale probatorio, l’individuazione di quello utile alla definizione del procedimento, nonché la sua concreta acquisibilità e rilevanza decisoria” (Cass. n. 17281/2010). La sentenza impugnata, in questo solco, ha escluso l’errore ascritto al primo giudice e comunque ha ritenuto inammissibile quella acquisizione officiosa in sede di gravame in presenza dell’inattività della debitrice con riguardo all’onere di assumere informazioni circa il rimborso del credito Iva, ovviamente ritenendo di non poter sopperire alla lacuna che ha investito non solo lo stato della pratica, che rappresenta profilo contestato nel mezzo in esame, ma oltretutto il sollecito all’autorità erariale circa l’invio di informazioni, in assenza altresì di riscontro documentale circa i requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità di quel credito. In presenza di adeguato sostegno motivazionale, la decisione conclusiva, seppur non faccia riferimento a tutti i documenti riferiti dalla ricorrente asseritamente prodotti-domanda di rimborso, comunicazione Equitalia, verbale Agenzia delle Entrate- all’evidenza Logicamente ritenuti non esaustivi, non è sindacabile.
Il 2° motivo ribadisce la precedenza denuncia, deducendo altresì violazione dell’art. 112 c.p.c. per lamentare omessa motivazione circa la completezza del materiale probatorio prodotto a sostegno della richiesta d’assunzione d’informazioni, lo stesso riferito nel precedente mezzo, che, come rilevato, può ritenersi implicitamente ritenuto privo di rilievo dalla Corte del merito, peraltro diffusasi nell’ esplicitare la genericità della richiesta mediante mod. VCR710, di rimborso priva di riscontri contabili che ne rendessero verosimile la fondatezza. Lamenta inoltre la mancata conoscenza della circostanza rappresentata dal riscontro dell’esito negativo della pratica di rimborso in discussione offerta dalla risposta del competente ufficio in data 16 gennaio 2012 nell’ambito del pignoramento presso terzi a istanza della S. s.p.a. perché non eseguita in forma legale. Con riguardo a questo profilo, va rilevato che, la circostanza illustrata in senso meramente rafforzativo, non dispiega effetto incisivo sulla ratio decidendi al pari dell’omessa prestazione di garanzia fideiussoria richiesta dal Tribunale, vagliata anch’essa nel coacervo delle altre acquisizioni probatorie apprezzate.
Il 3° motivo investe il passaggio argomentativo della decisione impugnata nel quale si rileva la consistenza della debitoria a carico della reclamante anche alla stregua dell’esito della formazione dello stato passivo. La censura non confuta l’orientamento, correttamente applicato dalla Corte distrettuale, che afferma che “Nel procedimento di opposizione alla dichiarazione di fallimento, la sussistenza dello stato di insolvenza può essere correttamente desunta anche dalle risultanze dello stato passivo” (per tutte Cass. 9760/2011). Pertanto appare inammissibile.
Meritevole di analoga sorte appare il quarto mezzo che denuncia violazione dell’art. 1175 ed ascrive alla società S. abuso del diritto per aver avviato il pignoramento presso l’Equitalia nel corso della fase prefallimentare, e si assume l’errore della Corte del merito che avrebbe anteposto alla fase suddetta l’inizio della procedura. La condotta mantenuta dalla società creditrice andava valutata nell’alveo dell’azione esecutiva, non dispiegando effetto nella procedura fallimentare il cui ambito di cognizione investe la sola sussistenza della ragione di credito addotta dal creditore istante”.
Il collegio ritiene di condividere la riferita proposta alle cui conclusioni il ricorrente non contrappone nella memoria difensiva depositata ai sensi dell’art. 380 bis comma 3 c.p.c. argomenti di effettiva confutazione, essendosi limitato a riproporre le censure già esposte nel ricorso.
Tutto ciò premesso, il ricorso deve essere rigettato con la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate come da dispositivo in favore del resistente stante l’ammissibilità del controricorso, erroneamente contestata dal ricorrente. L’autosufficienza di tale atto di difesa, asseritamente violata, deve ritenersi rispettata anche solo mediante riferimento a fatti ed atti menzionati nella sentenza impugnata cui la resistente con puntualità e specificità rinvia. (Cass. n. 13140/2010 e n. 6222/2012).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidandole in favore del resistente nell’importo di € 2.600,00 di cui € 100,00 per esborsi oltre accessori di legge.
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