CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 novembre 2013, n. 26887
Stranieri – Riconoscimento di una misura di protezione internazionale – Persecuzione familiare – Pericolo di morte – Legittimità
Svolgimento del processo e motivi della decisione
Con la pronuncia impugnata la Corte d’Appello di Roma ha respinto, confermando la pronuncia di primo grado, la domanda di protezione internazionale proposta dal cittadino nigeriano O.M., il quale aveva dichiarato che, a causa della morte del padre, lo zio paterno aveva messo in atto una violenta persecuzione nei suoi confronti attentando alla sua vita per ben due volte al fine di appropriarsi dei beni paterni, dopo aver cercato inutilmente di sposare sua madre e dopo averla barbaramente uccisa.
A sostegno della pronuncia la Corte ha affermato:
le vicende che hanno determinato il cittadino straniero ad allontanarsi dalla Nigeria evidenziano un quadro di conflittualità privata, per ragioni d’interesse economico, del tutto estraneo alle condizioni di persecuzione richieste ai fini del riconoscimento di una misura di protezione internazionale;
La dedotta natura privata e familiare della situazione descritta porta ad escludere il rilievo delle condizioni politiche generali della Nigeria e del conseguente obbligo officioso di assumere informazioni al riguardo.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso il cittadino straniero affidato a quattro motivi. Il ricorrente ha anche depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
Nel primo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 l. n. 251 del 2007; 8, comma terzo, del D.lgs n. 25 del 2008, nonché dell’art. 32 del medesimo testo normativo, per avere la Corte d’Appello di Roma ricondotto le vicende narrate dal ricorrente nell’alveo della mera conflittualità privata e familiare, senza porre in atto i doverosi accertamenti officiosi relativi alla situazione di endemica violenza del paese d’origine del cittadino straniero in correlazione con l’omessa protezione delle forze di polizia e con la prassi consolidata di non ingerenza delle autorità statali nelle liti, anche sanguinose, tra familiari, in quanto regolate a livello tribale. Tale omissione ha determinato la mancata indagine sulla riconducibilità delle predette vicende nella protezione sussidiaria o nelle misure gradate di natura umanitaria.
Nel secondo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 5, 7 e 14 del d.lgs n. 251 del 2007 nonché degli artt. 8 e 25 del d.lgs n. 25 del 2008 ed il vizio di motivazione in ordine alla mancata considerazione della credibilità delle dichiarazioni del ricorrente ed all’omessa attivazione dei doveri informativi officiosi al fine di verificare l’esistenza del pericolo di morte e di danno grave alla propria incolumità così come dedotto, per inerzia delle autorità statuali ed a causa del clima generalizzato di violenza indiscriminata nel paese di origine del cittadino straniero.
Nel terzo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. in relazione all’art. 5, comma sesto del d.lgs n. 286 del 1998 in relazione all’art. 32 del d.lgs n. 25 del 2008, nonché degli artt. 3 della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e l’art. 3 CEDU, per non avere la Corte d’Appello scrutinato l’esistenza delle condizioni per il rilascio di un permesso di natura umanitaria. La vicenda narrata avrebbe dovuto essere valutata in relazione all’elevato grado d’intrinseca violenza che caratterizza i metodi tribali di risoluzione delle controversie attinenti alla sfera familiare in Nigeria ed il rischio di vita che il coinvolgimento in tali conflitti determina, al fine di verficarne la riconducibilità nella misure residuali di natura umanitaria.
Nel quarto motivo la medesima censura viene dedotta sotto il profilo del vizio di motivazione, essendo mancata un’adeguata giustificazione argomentativa a tale omesso rilievo all’attentato e al concreto pericolo per i diritti umani del ricorrente derivanti dalla conflittualità esposta.
I motivi, per la loro logica interdipendenza devono essere trattati unitariamente.
In primo luogo deve osservarsi che la pronuncia impugnata ha ritenuto che tutte le misure di protezione internazionale devono avere una radice comune nella vis persecutoria posta a base del rifugio politico. Partendo da questa premessa le ragioni della “persecuzione” del ricorrente non sono state ritenute idonee a sostenere l’adozione di una misura di protezione internazionale, non attenendo a razza, religione, nazionalità, genere, appartenenza ad uno specifico gruppo sociale o alle opinioni politiche, ovvero a nessuna delle ragioni indicate nell’art. 7 d.lgs n. 251 del 2007. Si tratta tuttavia di una premessa manifestamente infondata alla luce del sistema pluralistico delle misure di protezione internazionale e del costante orientamento della giurisprudenza di legittimità. La protezione sussidiaria e la misura residuale atipica di protezione internazionale del permesso umanitario sono fondate su requisiti che prescindono dalla vis persecutoria fondata sulle ragioni tipizzate nel citato art. 7. Tale estensione è stata dettata proprio dall’esigenza d’includere nel sistema della protezione internazionale situazioni di pericolo di danno grave per l’incolumità personale o altre rilevanti violazioni dei diritti umani delle persone, non riconducibili al modello persecutorio del rifugio, perché generate da situazioni endemiche di conflitto e violenza interna, dall’inerzia o connivenza dei poteri statuali o da condizioni soggettive di vulnerabilità non emendabili nel paese di provenienza. Ugualmente il sistema pluralistico sopra descritto ha codificato le situazioni di violazione dei diritti umani garantiti nell’art. 3 CEDU, (divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti) così come interpretato dalla Corte di Strasburgo. A tal fine, l’art. 14 del d.lgs n. 251 del 2007 ha tipizzato le situazioni di danno grave che giustificano l’adozione della misura della protezione sussidiaria, individuandole nella esposizione alla pena e alla condanna a morte o alla tortura o trattamenti inumani e degradanti; nel pericolo per la propria incolumità causato da una situazione di conflitto interno o internazionale generalizzato ed indiscriminato. L’art. 32 del d. lgs n. 25 del 2008 ha, infine, previsto che le Commissioni territoriali debbano richiedere al Questore, il rilascio di un permesso umanitario quando non sia possibile l’adozione di alcuna delle due misure tipiche ma vi siano le condizioni soggettive per tale titolo di soggiorno gradato. La sintetica panoramica dell’insieme delle misure di protezione internazionale evidenzia che il discrimine tra il rifugio politico e le altre, caratterizzate da una gradazione delle garanzie e dei diritti connessi al titolo di soggiorno, consiste proprio nel riconoscimento o nell’esclusione della vis persecutoria giustificata dalle ragioni indicate nel citato art. 7. Il pericolo di danno grave alla propria incolumità o l’assoggettamento alla pena di morte o a trattamenti detentivi inumani e degradanti può derivare da cause non riconducibili alla persecuzione personale, così come un permesso umanitario può essere rilasciato perché sussistono condizioni ostative all’ottenimento delle misure tipiche o si ravvisino lesioni di diritti umani di particolare entità per categorie soggettive vulnerabili (a mero titolo esemplificativo si indicano: cittadini stranieri affetti da patologie gravi, madri con figli minori, persone impossibilitate ad autodeterminarsi anche nelle scelte più elementari nel proprio paese). La diversità dei presupposti delle misure di protezione internazionale costituisce un punto di riferimento fermo nella giurisprudenza di legittimità, ribadito attraverso la definitiva inclusione nella giurisdizione ordinaria del diritto a richiedere un permesso di natura umanitaria, (Cass. 19393 del 2009) nonché mediante l’espresso riconoscimento dell’autonomia dei requisiti sia della protezione sussidiaria:
“Nell’attuale sistema pluralistico delle misure di protezione internazionale, il riconoscimento della protezione sussidiaria non richiede, diversamente da quanto previsto per lo “status” di rifugiato politico, l’accertamento dell’esistenza di una condizione di persecuzione del richiedente, ma è assoggettato a requisiti diversi, desumibili dall’art. 2 lettera g) e dall’art. 14 del d.lgs n. 250 del 2007. Tale diversità è stata ribadita dalla Corte di Giustizia (Grande sezione, procedimenti riuniti C 175 – 179/08), in sede d’interpretazione conforme dell’art. 11 n. 1 lettera e) della Direttiva 2004/83/CE, proprio al fine di evidenziare che l’eventuale cessazione delle condizioni riguardanti il riconoscimento dello “status” di rifugiato politico non può incidere sulla concessione della complementare misura della protezione sussidiaria secondo il diverso regime giuridico di questa misura che si caratterizza, alla luce dell’art. 2 della Direttiva, proprio perché può essere concessa a chi “non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato”. (Cass. 6880 del 2011), sia del permesso umanitario:
“Il nuovo sistema di protezione internazionale dello straniero, instaurato dalle Direttive CE 2004/83 e 2005/85, così come recepite nel d.lgs. 19 novembre 2007 n. 251 e 28 gennaio 2008, n. 25, ha introdotto una nuova misura tipica, la protezione sussidiaria, che può essere riconosciuta anche quando sussista il rischio effettivo di essere sottoposto a pena di morte, tortura o trattamenti inumani e degradanti, (art. 3 CEDU). Ne consegue che il positivo riscontro di tali condizioni non costituisce più una condizione idonea soltanto al rilascio del permesso di natura umanitaria, già previsto nell’art. 5 sesto comma e 19 primo comma d.lgs. n. 286 del 1998, ma dà diritto ad un titolo di soggiorno stabile, triennale ed alla fruizione di un ampio quadro di diritti e facoltà (accesso al lavoro, allo studio, alle prestazioni sanitarie). Tuttavia, tale coincidenza di requisiti, pur essendo riconosciuta espressamente dalla previsione della convertibilità, al momento dell’entrata in vigore della nuova normativa, dei permessi umanitari preesistenti in protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. n. 251 del 2007, non esclude, nell’attuale sistema delle misure di protezione internazionale, la tutela residuale costituita dal rilascio di permessi sostenuti da ragioni umanitarie o diverse da quelle proprie della protezione sussidiaria o correlate a condizioni temporali limitate e circoscritte, come previsto dall’art. 32, terzo comma, del d.lgs. n. 25 del 2008, ai sensi del quale le Commissioni territoriali, quando ritengano sussistenti gravi motivi umanitari (evidentemente inidonei ad integrare le condizioni necessarie per la protezione sussidiaria) devono trasmettere gli atti al Questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno.(Cass. 4189 del 2011, 24544 del 2011).
Infine deve osservarsi che un recente orientamento di questa Corte ha stabilito che proprio la pluralità delle misure di protezione internazionale e la previsione di una misura umanitaria residuale atipica hanno finalmente determinato l’attuazione del diritto d’asilo costituzionale previsto nell’art. 10, terzo comma, Cost. (Cass.10686 del 2012). Alla luce delle esposte premesse il ricorso deve essere accolto dal momento che nella sentenza impugnata i fatti narrati dal richiedente vengono ritenuti inidonei ad integrare i requisiti di qualsiasi misura di protezione internazionale solo perché ricondotti esclusivamente ai requisiti posti a base del rifugio politico. In particolare viene affermato che il richiedente non ha assolto all’onere di provare la sussistenza di una persecuzione “per i motivi contemplati dalla Convenzione di Ginevra” in quanto le ragioni del pericolo per la propria vita così come risultanti dalle sue dichiarazioni sono di esclusiva matrice privata e familiare.
Le affermazioni sopra illustrate contrastano con la diversità dei requisiti posti a base delle misure di protezione internazionale, risultando la vis persecutoria sostenuta dalle ragioni di cui all’art. 7 del d.lgs n. 251 del 2007, propria soltanto del rifugio politico e non della protezione sussidiaria e tantomeno delle misure residuali di natura umanitaria.
Ne consegue che alla luce dei parametri normativi propri di queste ultime due forme di protezione internazionale, la Corte d’Appello di Roma era tenuta a verificare: a) la credibilità intrinseca e l’oggettiva verosimiglianza delle dichiarazioni del cittadino straniero; b) la possibilità effettiva di contrastare il pericolo per la propria vita ed incolumità determinato dalla persecuzione di un soggetto privato mediante l’intervento delle autorità statali o locali; c) il grado di diffusione delle prassi violente descritte e l’incidenza causale della inerzia delle autorità statuali sulla loro realizzazione; d) il sostanziale abbandono alle autorità tribali del compito di risolvere tali tipologie di conflitti secondo modalità non rispettose dei principi fondamentali di tutela dei diritti umani. Deve, infatti, osservarsi che nella sentenza impugnata non si esclude l’attendibilità soggettiva delle dichiarazioni del richiedente, ma s’incentra il rigetto delle domande sulla non riconducibilità dei fatti esposti alle condizioni previste dalla legge per il rilascio di alcuna misura di protezione internazionale e sulla conseguente inutilità di porre in atto richieste d’informazioni ed accertamenti sulle condizioni generali del paese. Tale esclusione, tuttavia, non tiene conto di due univoche prescrizioni normative. Nell’art. 5 del d.lgs n. 251 del 2007 viene espressamente stabilito che i responsabili della persecuzione (ai fini del rifugio politico) o del danno grave (ai fini della protezione sussidiaria) possono essere soggetti privati quando lo Stato o i partiti e le organizzazioni che controllano in tutto od in parte il territorio non vogliono o non possono fornire protezione per la persecuzione o il danno grave denunciati. Nel successivo art. 6 viene precisato che la protezione “consiste nell’adozione di adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori o danni gravi, avvalendosi tra l’altro di un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione o danno grave, e nell ‘accesso da parte del richiedente a tali misure”. Ne consegue che quando viene esposta una situazione intrinsecamente credibile, di reiterata esposizione ad attentati alla vita, alla già intervenuta uccisione di un familiare e caratterizzata dal sostanziale disinteresse delle autorità statuali per tali forme di soluzione violenta di liti private è necessario verificare se, come esposto dal cittadino straniero, tale situazione si sia consumata in una situazione caratterizzata allo stesso tempo da endemica violenza interna e dal mancato contrasto della diffusione di tali metodi da parte dei poteri statuali. Tale accertamento ha natura doverosa sia per la verifica delle condizioni per l’applicazione della misura della protezione sussidiaria ex art. 14 lettera c) del d.lgs n. 251 del 2007, sia per la valutazione dell’esistenza di una situazione di vulnerabilità meritevole di protezione umanitaria, qualora si riscontrasse alla luce della richiesta d’informazioni sulle condizioni generali del paese d’origine del cittadino straniero che, pur non sussistendo una totale inefficacia dei poteri statuali di contrasto dei descritti fenomeni di grave violenza familiare, si riscontrano gravi insufficienze e deficit di tutela dei diritti umani quanto meno nella situazione attuale. Le informazioni necessarie a poter valutare in modo completo le domande plurime di protezione internazionale formulate dal ricorrente devono essere assunte in primo luogo mediante ricorso alle autorità indicate nell’art. 8, terzo comma, del d.lgs n. 25 del 2008 (ACHNUR; Ministero degli Esteri, Commissione nazionale per il diritto d’asilo) eventualmente integrate da altre fonti qualificate (Cass.10202 del 2011; 16202 del 2012; 13172 del 2013) e devono essere aggiornate.
In conclusione il ricorso deve essere accolto, la sentenza cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione perché, esclusa la possibilità di riconoscere al cittadino straniero lo status di rifugiato politico accerti, alla luce dei criteri indicati, la sussistenza delle condizioni per il riconoscimento della protezione sussidiaria o per la richiesta al Questore del rilascio di permesso umanitario.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione anche per le spese del presente procedimento.
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