CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza n. 10171 del 30 aprile 2013
Lavoro – Lavoro subordinato – Lavoro autonomo e lavoro subordinato – Estinzione del lavoro – Trasformazione del lavoro autonomo a tempo determinato a contratto di lavoro indeterminato a tempo subordinato – Risarcimento danni – Normativa ex articolo 1 comma 13 legge 183/2010
Svolgimento del processo
1. Con ricorso A.V. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano, la Fondazione Nazionale della Scienza e della Tecnologia esponendo che aveva lavorato alle dipendenze della Fondazione in forza di due contratti di lavoro autonomo: il primo dal 1° dicembre 2001 al 31 dicembre 2002, e il secondo dal 1° dicembre 2002 al 31 maggio 2003. Quindi complessivamente aveva lavorato dal 1° dicembre 2001 al 31 maggio 2003. Sosteneva il carattere subordinato del rapporto di lavoro che era cessato di fatto alla scadenza del termine apposto al secondo contratto di collaborazione coordinata e continuativa. Chiedeva pertanto dichiararsi la natura subordinata del rapporto, la nullità, l’illegittimità o comunque l’inefficacia del licenziamento, con conseguente condanna al risarcimento del danno nella misura della retribuzione mensile di euro 3.000,00 dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione.
Si costituiva la società convenuta chiedendo il rigetto della domanda.
Il tribunale dopo aver esperito la prova testimoniale pronunciava la sentenza n. 3236 del 2 marzo 2005-16 agosto 2005 con cui dichiarava che tra le parti era intercorso un rapporto di lavoro subordinato dal 1° dicembre 2001 al 31 maggio 2003 con l’inquadramento riferibile a quello di quadro livello Q 1 del C.C.N.L. Condannava quindi la fondazione al pagamento del TFR, rigettato nel resto del ricorso.
Il primo giudice aveva accertato la natura subordinata del rapporto di lavoro 1/12/2001 – 31/5/2003, ma aveva ritenuto che ciò non comportasse la continuazione a tempo indeterminato del rapporto stesso formalmente disciplinato con contratti di lavoro autonomo a termine.
2. Con ricorso depositato in data 9/3/06 l’originario ricorrente proponeva appello chiedendo che in parziale riforma della sent. n. 3236/05 del Tribunale di Milano, fosse accertata la illegittimità del licenziamento irrogatogli o della disdetta.
L’appellante lamentava che il primo giudice non avesse considerato che il rapporto era cessato perché la Fondazione non l’aveva più utilizzato; che i rapporti di lavoro a termine erano simulati e non potevano produrre alcun effetto; che gli stessi non avevano i requisiti formali e sostanziali per fissare un termine al rapporto di lavoro subordinato; che comunque nel ricorso era stata specificamente trattata la questione della nullità del termine e nella domanda si chiedeva la dichiarazione di illegittimità della disdetta.
Si costituiva la Fondazione e precisava di non avere preso alcuna iniziativa in ordine al recesso, non avendo più il lavoratore prestato attività conformemente alle pattuizioni intervenute; che egli non aveva mai dato la sua disponibilità a lavorare neanche con la impugnazione del licenziamento, né il ricorso poteva valere come atto di messa in mora; chiedeva che fosse rigettata anche la domanda di accertamento di rapporto di lavoro subordinato, non essendo emersi gli indici tipici della subordinazione.
La Corte d’appello di Milano con sentenza del 20 novembre 2007, in parziale riforma della sentenza del tribunale, accertava la illegittimità del recesso dal rapporto e condannava la Fondazione a riammettere il lavoratore in servizio e a pagargli la retribuzione nella misura di € 3000,00 al mese dal 1/8/2003 fino alla riammissione, con rivalutazione e interessi. Confermava nel resto la sentenza impugnata e condannava la Fondazione a pagare per spese del grado.
3. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione la Fondazione con cinque motivi.
Resiste con controricorso la parte intimata.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è articolato in cinque motivi.
Con il primo motivo la società ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c. In particolare pone in evidenza la totale mancanza di eterodirezione nel rapporto tra le parti nonché la mancata considerazione della volontà delle parti che era quella di dar vita a un rapporto di lavoro autonomo.
Con il secondo motivo la società ricorrente denuncia ancora violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 nonché il vizio di motivazione; censura la sentenza impugnata per aver fondato la sua decisione su elementi indiziari sussidiari e nel non aver tenuto invece in alcun conto la totale mancanza di prove quanto alla eterodirezione, che costituisce l’elemento distintivo della subordinazione.
Con il terzo motivo la società denuncia vizio di motivazione nonché violazione degli artt. 1206 e 1217 c.c.
Lamenta che fosse mancata la prova della mora accipiendi.
Con il quarto motivo la società ricorrente denuncia vizio di motivazione quanto alla giustificazione del termine apposto al contratto. Deduce che nella sentenza impugnata sarebbe mancata ogni motivazione relativamente all’asserita carenza sostanziale di ragioni giustificatrici dell’apposizione del termine al contratto di lavoro.
Con il quinto motivo la società ricorrente lamenta vizio di motivazione nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1223 e 1227 c.c. in riferimento alla quantificazione del danno. Lamenta in particolare che la corte d’appello non avrebbe accertato l’aliunde perceptum così riducendo la quantificazione del risarcimento del danno.
2. Il ricorso – nei suoi primi quattro motivi che possono essere esaminati congiuntamente – è complessivamente infondato.
3. Di essi, i primi due motivi sono inammissibili perché attengono all’accertamento della natura subordinata del rapporto, già dichiarata dal giudice di primo grado, senza che la società abbia proposto appello. Infatti la società è rimasta meramente appellaste a fronte dell’appello principale del lavoratore che faceva valere, con il suo atto di impugnazione, le sue pretese (alla reintegrazione e al risarcimento del danno) dopo l’estromissione dall’azienda.
Gli altri motivi sono invece ammissibili sì, ma infondati.
Da una parte deve considerarsi che era onere della Fondazione datrice di lavoro offrire la giustificazione del termine che ne legittimasse l’apposizione al contratto di lavoro; onere nient’affatto adempiuto. D’altra parte sussiste la mora accipiendi della Fondazione atteso che, con la richiesta del tentativo di conciliazione, prima di promuovere la lite ed ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro, il Volpi ha chiaramente manifestato la volontà di riprendere il lavoro così offrendo la sua prestazione lavorativa.
4. Va invece accolto il quinto motivo relativo al risarcimento del danno in applicazione dell’art. 32 legge n. 183 del 2010, invocato come jus superveniens dalla Fondazione nella sua memoria ex art. 378 c.p.c.
Questa Corte (ex plurimis Cass., sez. lav., 17 gennaio 2013, n. 1148) ha affermato che l’indennità prevista dall’art 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, nel significato chiarito dal comma 13 dell’art. 1 della legge 28 giugno 2012 n. 92, trova applicazione con riferimento a qualsiasi ipotesi di ricostituzione del rapporto di lavoro avente in origine termine illegittimo e si applica anche nel caso dì condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore a causa dell’illegittimità di un contratto a termine, convertito in contratto a tempo indeterminato tra lavoratore e utilizzatore della prestazione. In tal caso – ha precisato Cass., sez. lav., 1° ottobre 2012, n. 16642 – nel giudizio di legittimità, lo “ius superveniens”, che introduca una nuova disciplina del rapporto controverso, può trovare applicazione alla condizione, necessaria, che la normativa sopraggiunta sia pertinente rispetto alle questioni agitate nel ricorso, posto che i principi generali dell’ordinamento in materia di processo per cassazione – e soprattutto quello che impone che la funzione di legittimità sia esercitata attraverso l’individuazione delle censure espresse nei motivi di ricorso e sulla base di esse – richiedono che il motivo del ricorso, con cui è investito, anche indirettamente, il tema coinvolto nella disciplina sopravvenuta, oltre che sussistente sia ammissibile secondo la disciplina sua propria. Ne consegue che – ove sia invocata l’applicazione dell’art. 32, commi 5, 6 e 7, legge n.183 del 2010 con riguardo alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro – è necessario che i motivi del ricorso investano specificamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, non essendo possibile chiedere l’applicazione diretta della norma al di fuori del motivo di impugnazione.
5. Il ricorso va quindi rigettato nei suoi primi quattro motivi ed accolto nel quinto motivo con conseguente cassazione della sentenza impugnata, nei limiti del motivi) accolto, e rinvio, anche per le spese, alla corte d’appello di Milano.
P.Q.M.
Accoglie il quinto motivo di ricorso, rigettati gli altri; cassa la sentenza impugnata, nei limiti del motivo accolto, e rinvia, anche per le spese, alla corte d’appello di Milano in diversa composizione.
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