Corte di Cassazione sentenza n. 10345 del 11 maggio 2011
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – LAVORO A TEMPO DETERMINATO – ASSUNZIONI A TERMINE PREVISTE DALLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA – ART. 23 DELLA LEGGE N. 56/1987 – NECESSITÀ DI INDIVIDUARE IPOTESI SPECIFICHE DI COLLEGAMENTO FRA CONTRATTI ED ESIGENZE AZIENDALI O CONDIZIONI OGGETTIVE DI LAVORO O SOGGETTIVE DEI LAVORATORI OVVERO DI FISSARE UN TERMINE DI DURATA DELL’AUTORIZZAZIONE ALL’ASSUNZIONE A TERMINE – SUSSISTENZA – ESCLUSIONE
massima
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L’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 della legge n. 56 del 1987, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla legge n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato. Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste per legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.
La richiesta del lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere, in luogo della reintegrazione, l’indennità prevista dal quinto comma dell’art. 18 legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 108 del 1990, costituisce esercizio di un diritto derivante dall’illegittimità del licenziamento e riconosciuto al lavoratore dalla stessa norma di legge; ne consegue che la domanda formulata dal lavoratore in corso di causa e volta ad ottenere l’indennità in sostituzione della reintegrazione richiesta con l’atto introduttivo non viola il principio dell’immutabilità della domanda, avendo sempre ad oggetto il risarcimento conseguente all’illegittimo recesso.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte di appello di Lecce con sentenza in data 7.12.2006/8.1.2007, in riforma della decisione di prime cure, dichiarava la nullità del termine apposto al contratto stipulato fra le P.I. e F.E. per il periodo dal 15 dicembre 1999 al 29 febbraio 2000, ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26.11.1994, “per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso e in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi ed in attesa del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”.
Osservava in sintesi la corte territoriale che il contratto era stato stipulato in assenza di alcuna valida autorizzazione da parte della contrattazione collettiva, per la scadenza dei limiti temporali di vigenza degli accordi conclusi dalle parti sociali, ai sensi della disposizione dell’art. 23 della legge n. 56 del 1987.
Per la cassazione della sentenza propongono ricorso le P.I. con tre motivi, illustrati con memoria.
Resiste con controricorso F.E..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo ed il secondo motivo la società ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) dell’art. 23 della legge n. 56 del 1987, dei criteri di ermeneutica contrattuale in relazione agli accordi collettivi intercorsi, nonché vizio di motivazione (art. 360 n. 5 c.p.c.), deduce che il potere normativamente attribuito alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle già stabilite dall’ordinamento, configurava una vera e propria “delega in bianco” in favore delle organizzazioni sindacali, le quali, pertanto, potevano legittimare il ricorso al contratto a termine non solo per causali di carattere oggettivo, ma anche meramente soggettivo, sicché restava precluso al giudice di individuare limiti ulteriori, anche di ordine temporale, atti a circoscrivere l’ambito di operatività delle ipotesi di contratto a termine individuate in sede collettiva.
Con il terzo motivo, prospettando omessa motivazione in ordine all’eccezione di aliunde perceptum, sollevata nei precedenti gradi del giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.), si duole che la corte territoriale avesse omesso qualsiasi decisione in merito alla richiesta formulata ai fini dell’esibizione di documentazione utile a consentire una corretta determinazione dei corrispettivi percepiti dai dipendenti per attività di lavoro svolte a favore di terzi, e ciò sebbene l’eccezione non potesse che essere genericamente dedotta dal datore di lavoro, incombendo il relativo onere, in realtà, sul lavoratore,
2. Con riferimento ai primi due motivi del ricorso, vanno ribaditi i principi, ormai acquisiti, che questa Suprema Corte ha affermato con riferimento alla disciplina dell’istituto nel sistema vigente anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 368 del 2001.
In primo luogo, sulla scia di Cass. S.U. 2 marzo 2006 n. 4588, questa Corte ha più volte affermato che ‘l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 della legge n. 56 del 1987, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla legge n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4 agosto 2008 n. 21063,v. anche Cass. 20 aprile 2006 n. 9245, Cass. 7 marzo 2005 n. 4862, Cass. 26 luglio 2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.” (v., fra le altre, Cass. 4 agosto 2008 n. 21062, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378).
In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive, la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23 agosto 2006 n. 18383, Cass. 14 aprile 2005 n. 7745, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866).
In particolare, come questa Corte ha più volte rilevato, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962 n. 230” (v., fra le altre, Cass. 1 ottobre 2007 n. 20608, Cass. 27 marzo 2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).
Rilevato, quindi, che, in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, hanno reputato che con tali accordi le parti avessero convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998) della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo.
Questa Corte ha anche osservato che tale interpretazione non viola alcun canone ermeneutico, atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di una più diffusa argomentazione ai fini della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453).
Inoltre, è stato rilevato che tale interpretazione si palesa rispettosa del canone ermeneutico dell’art. 1367 cod. civ., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi (in considerazione della loro idoneità ad introdurre termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano previsti ex ante), laddove, diversamente opinando, gli stessi risulterebbero “senza senso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866).
Infine, corretta è apparsa, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del lavoratore si era già definitivamente perfezionato.
Ed infatti, anche ad ammettere che le parti fossero mosse dall’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti di sanatoria delle assunzioni effettuate senza la copertura dell’accordo del 25 settembre 1997 (scaduto in forza delle convenzioni attuative), si dovrebbe, comunque, richiamare la regola dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già acquisiti, con la conseguente esclusione per le parti stipulanti del potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel d.lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (cfr., per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141).
In base agli esposti criteri interpretativi, ormai consolidati, ed al valore dei relativi precedenti, devono, quindi, rigettarsi i primi due motivi del ricorso, con assorbimento di ogni ulteriore censura.
3. Con riguardo al terzo motivo, la difesa della società ricorrente ha prospettato, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dall’art. 32 commi 5, 6 e 7 della legge 4 novembre 2010 n. 183.
In ordine a tale questione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità (ed a prescindere della riferibilità pur a tale giudizio della disposizione del comma settimo dell’art. 32, che estende retroattivamente (“per tutti i giudizi,ivi compresi quelli pendenti…”) i nuovi criteri di determinazione del danno, introdotti dai commi 5 e 6 dello stesso testo) lo ius superveniens, che la nuova disciplina del rapporto controverso sia pertinente alle censure formulate col ricorso, tenuto conto della natura del giudizio di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi del ricorso (cfr. Cass. n. 10547/2006).
In tal contesto, è necessario che il motivo del ricorso, che investa, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia, altresì, ammissibile, secondo la disciplina sua propria. In particolare, con riferimento alla disciplina invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente presuppone, nel giudizio di cassazione, che i motivi del ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, che non siano tardivi, generici, o affetti da altra causa di inammissibilità, ivi compresa la mancata osservanza del precetto dell’art. 366 bis c.p.c., ove applicabile rattorie temporis.
In caso di assenza o inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche della clausola di durata, illegittimamente apposta, il rigetto per tali cause dei motivi non può, quindi, che determinare la stabilità e irrevocabilità delle statuizioni di merito contestate.
Nel caso in esame, la ricorrente, con motivo intestato alla omessa motivazione di un fatto controverso e decisivo, ma, in realtà, relativo alla pretesa violazione di una regola iuris riconducibile all’art. 2697 c.c. (e da qui il richiamo agli artt. 210 e 421 c.p.c.), censura la sentenza per non avere tenuto conto che dai principi elaborati in materia dalla giurisprudenza di questa Corte discenderebbe che “l’aliunde perceptum non può che essere genericamente dedotto dall’istante… Dovrebbe essere invece onere del lavoratore dimostrare di non essere stato occupato nel periodo in questione, per esempio a mezzo delle dichiarazioni dei redditi relative ai periodi successivi alla scadenza del contratto a termine eventualmente dichiarato illegittimo e di altra eventuale documentazione (libretti di lavoro, buste paga)”.
Il motivo così riassunto conclude con la formulazione del seguente quesito ex art. 366-bis c.p.c.:
“Dica la Corte se, nel caso di oggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande ed eccezioni – e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptum – il giudice debba valutare le richieste probatorie con minor rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto”.
Il quesito descritto, nondimeno, risulta non conforme al precetto dell’art. 366 bis c.p.c. , per non ricomprendere il complesso delle censure articolate nel motivo e per risolversi, comunque, nella enunciazione astratta delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito.
Il quesito di diritto, che la norma richiede a pena di inammissibilità del relativo motivo, deve, infatti, essere formulato, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (cfr. ad es. Cass. SU n. 36/2007 e n. 2658/2008), dovendosi ritenere come inesistente un quesito generico, parziale o non pertinente.
In proposito, per come rilevato, a fini esemplificativi, da SU (ord) n. 2658/2008, “potrebbe apparire utile il ricorso ad uno schema secondo il quale sinteticamente si domandi alla Corte se, in una fattispecie quale quella contestualmente e sommariamente descritta nel quesito (fatto), si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata”, le ragioni della cui erroneità siano adeguatamente illustrate nel motivo medesimo. Il quesito posto dalla società ricorrente non risulta conforme ai canoni interpretativi indicati perché – va ribadito- inidoneo ad esprimere, in termini riassuntivi, ma concretamente pertinenti air articolazione delle censure in relazione alla fattispecie controversa, il vizio ricostruttivo addebitato alla decisione.
4. Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese che liquida in euro 26,00 per esborsi ed in euro 2.500,00 per onorari di avvocato, oltre ad accessori di legge.
Così deciso in Roma il 14.4.2011.
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