CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 maggio 2013, n. 10549
Lavoro – Lavoro subordinato – Estinzione del rapporto – Licenziamento disciplinare – Lesione del rapporto fiduciario – Sussiste.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Roma, confermando la sentenza del Tribunale della stessa città, respingeva l’appello proposto da C.S. che aveva chiesto che venisse accertata e dichiarata l’illegittimità del licenziamento intimatogli in data 21.5.2003 dalla Banca di Roma s.p.a. (oggi Unicredit – Banca di Roma s.p.a.) per difetto di giusta causa e giustificato motivo e comunque per mancanza di proporzionalità tra addebito e sanzione. Chiedeva conseguentemente la reintegrazione nel posto di lavoro con tutte le conseguenze di legge e la condanna della banca datrice al risarcimento del danno non patrimoniale che quantificava in € 50.000,00.
La Corte dopo aver verificato che non era stata offerta alcuna prova della mancata affissione del codice disciplinare (circostanza, ove pure provata, ininfluente posto che i comportamenti addebitati si ponevano in contrasto con i doveri fondamentali del lavoratore e non necessitavano di esplicita indicazione tra quelli disciplinarmente rilevanti), ne accertava la consistenza e fa rilevanza nell’incrinare irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti.
Questi erano consistiti nell’essersi avvalso della qualifica di direttore di agenzia concedendo, indebitamente ed arbitrariamente, a se stesso facilitazioni non autorizzabili su carte cd. revolving (essendo il fido loro collegato interamente utilizzato); di averlo fatto in assenza di documentazione amministrativa e su di uno dei conti correnti, tutti con saldo debitore, del quale lo S. era titolare.
Il giudice d’appello, poi, nel valutate le giustificazioni addotte dal lavoratore evidenziava che la complessità della procedura di autorizzazione all’aumento del limite di utilizzo delle carte non poteva non essere conosciuta dal ricorrente, direttore della Filiale di Arsoli.
La corte nel valutare la proporzionalità della sanzione irrogata, poi, teneva in considerazione anche l’elevato grado di fiducia che la banca deve poter riporre nei suoi direttori, ed escludeva che la gravità del comportamento potesse essere ridotta dall’assenza di precedenti disciplinari.
Con riguardo poi, al dedotto comportamento intimidatorio degli ispettori che avrebbero indotto il dipendente a rendere una dichiarazione confessoria nell’aspettativa di un più clemente atteggiamento da parte detta banca, la Corte rilevava sia l’assenza di prove sia, comunque, la sua irrilevanza stante l’intrinseca gravità dei comportamenti contestati.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso lo S. affidato a due motivi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c. nella quale ha altresì replicato al controricorso di UNICREDIT s.p.a. (già Banca di Roma s.p.a.).
Anche la società controricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Con un unico articolato motivo di ricorso viene censurata la sentenza della Corte d’appello di Roma per avere, con omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione ed in violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. e ss… 2106 e 2119 c.c., art. 7 L. 20.5.1970 n. 300, art. 1 L. 15.7.1966 n. 604, art. 1346, 1427, 1455 c.c. ed art. 116 c.p.c. oltre che per violazione degli artt. 36 e 40 del ccnl delle aziende di credito, ritenuto giustificato il licenziamento intimato all’odierno ricorrente dalla Banca di Roma s.p.a..
In particolare lo S., in osservanza dell’art. 366 bis c.p.c. ratione temporis applicabile (sentenza depositata il 28.5.2009), ha chiesto a questa Corte se “in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un appressamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi a tal fine preminente rilievo alla configuratone che delle mancante addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto (ed in specie alla sua durata ed all’assenza di precedenti sanzioni) alla sua particolare natura e tipologia avendo, quindi, riguardo a) all’entità del danno subito dal datore, b) ai precedenti disciplinari dei dipendente prima e dopo il fatto, c) alla sua posizione all’interno dell’azienda, d) alla rilevanza esterna del fatto stesso”.
In definitiva si chiede di chiarire se “ove risulti che i fatti contestati non siano emersi nella identica intensità oggettiva e psicologica emergente dalle dichiarazioni del datore di lavoro si deve procedere ad una valutazione analitica dei singoli fatti per verificare l’idoneità a ledere la fiducia in modo tale da determinare la risoluzione del rapporto.”
Le censure sono infondate.
Come rettamente rammenta il ricorrente “In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante, ai fini del giudizio di proporzionalità, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto dì riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni dì buona fede e correttezza” (cfr Cass. 22.6.2009 n. 14586).
La valutazione della congruità della sanzione espulsiva, che spetta al giudice di merito, deve essere effettuata in concreto tenendo conto di tutti gli aspetti concorrenti della vicenda processuale e ponendo attenzione alle peculiarità della condotta contestata, in un “apprezzamento unitario e sistematico (…) sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro”.
A tal fine e corretto valutare contestualmente, se del caso, la configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma anche l’intensità dell’elemento intenzionale, il grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente e, inoltre, le precedenti modalità di attuazione del rapporto.
Tanto premesso osserva la Corte che il giudice di mento si è attenuto con motivazione logica e congrua, esente da vizi ed omissioni, proprio ai principi sopra elencati.
Ed allora non si presta ad alcuna osservazione critica la valutazione operata dalla corte territoriale che ha attribuito valore di grave lesione del vincolo fiduciario al comportamento del direttore della filiale che, in deroga alle procedure previste ed avvantaggiandosi della sua posizione, abbia aumentato il plafond delle carte di debito a lui intestate.
Quanto poi alla dedotta omessa valutazione da parte dei giudice di appello della circostanza che esistevano sistemi informatici per verificare l’utilizzazione delle carte ed il rispetto dei plafonds (circostanza riferita da uno dei testi che smentirebbe la ritenuta mancanza di documentazione amministrativa delle operazioni compiute e smentirebbe così l’occultamento da parte del dipendente dell’aumento di plafond autoconcessosi), anche questa è una valutazione di contorno che correttamente la Corte non ha ritenuto decisiva nel valutare la gravità del comportamento in sé stesso.
A prescindere infatti dalla effettiva dannosità della condotta, e dunque del fatto che si siano materialmente verificati dei danni, è senz’altro condivisibile, ed esente da incongruenze ed illogicità, la valutazione del giudice di merito che ha valorizzato la gravità del comportamento del responsabile di agenzia che si concreti proprio nel mancato rispetto delle regole a lui assegnate per la concessione di agevolazioni di sua diretta spettanza, a maggior ragione ove, come nella specie, la violazione sia stata compiuta per avvantaggiare proprio sé stesso.
Né diminuisce la gravità del comportamento (da un punto di vista oggettivo) o ne riduce la consapevolezza da parte del dipendente della violazione delle regole (sotto il profilo soggettivo) la circostanza che la banca aveva notoriamente predisposto sistemi interni di controllo per la verifica informatica, ex post, della correttezza delle operazioni.
Si tratta infatti di regole e controlli che incidono su piani diversi per assicurare, complessivamente, la correttezza della gestione.
Tanto meno poi, come pretenderebbe il ricorrente, l’esistenza di tali procedure di verifica potevano esonerare o rendere meno grave, se non addirittura irrilevante (così smentendo la circostanza che l’aumento sarebbe stato nascosto), la contestata mancata predisposizione, ex ante, della documentazione amministrativa necessaria ai fini delle concessione del beneficio.
Proprio perché, come riferito dai testi, d direttore aveva una certa autonomia nelle operazioni di sconfinamento o aumento dei plafond (che venivano successivamente ratificati dal superiore responsabile di zona che effettuava i controlli a suo piacimento) la mancata osservanza delle procedure previste costituisce inadempimento in se assai grave anche a prescindere dalle modalità con le quali nella specie si è verificato (a beneficio dello stesso soggetto che lo autorizzava).
Di tutti questi peculiari elementi della fattispecie concreta la Corte territoriale ha ben tenuto conto comparandone l’oggettiva gravità alla incontestata mancanza di precedenti disciplinari da parte del dipendente.
Occorre considerare che non si è trattato di un comportamento singolo ed episodico ma, come accertato dalla corte territoriale, di più deroghe autorizzate, seppur senza che si sia arrivato a produrre un danno concreto per la banca, tutte a suo beneficio, circostanza questa che connota di particolare gravità il comportamento tenuto anche in considerazione dell’interesse diretto dell’agente.
Proprio perché in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza, (cfr. Cass. 13.2.2012 n. 2013), la ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito, condivisibilmente, conduce ad una valutazione di congruità della sanzione espulsiva, non tanto sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, senza trascurare all’assenza di pregresse sanzioni, ma valorizzando la natura e alla tipologia del rapporto medesimo.
Per quanto riguarda infine l’applicazione al caso concreto della disciplina collettiva dettata dall’art. 40 del ccnl di categoria, che richiede una graduazione delle sanzioni in relazione all’intensità dell’elemento soggettivo dell’agente, la corte territoriale ha accertato che i comportamenti ben al di là delle condotte tipizzate dal codice disciplinare ledessero nella loro oggettiva gravità il vincolo fiduciario ma, per giungere a tale determinazione ha, comunque, esaminato e riscontrato la sua intenzionalità, escludendo che la condotta potesse essere qualificata come una mera negligenza, e accertando, al contrario, la consapevole elusione delle regole date necessariamente conosciute in considerazione del ruolo rivestito dal lavoratore.
Residuale, in tale complessiva valutazione dei fatti operata dal giudice di merito, è l’esistenza di una dichiarazione sostanzialmente “confessoria” resa agli ispettori, nell’aspettativa di una sanzione conservativa, ritenuta dalla corte di merito irrilevante ai fini della valutazione complessiva della condotta nell’irrogazione della sanzione.
Al riguardo si osserva, da un canto, che la corte territoriale non ha verificato l’esistenza di alcuna coartazione (neppure oggi sostanzialmente denunciata) mentre, dall’altro, si rileva che non emerge alcuna contraddittorietà nella motivazione della sentenza sul punto posto che, esclusa come si è ricordato la coartazione nei confronti del dipendente nel rendere la dichiarazione confessoria, testa una valutazione del giudice di merito, incensurabile se non contraddittoria o illogica, il valore da attribuire ad un comportamento collaborativo intervenuto, peraltro, in una fase di accertamento ispettivo oramai priva di elementi di dubbio circa la condotta tenuta dal dipendente e da contestargli.
Non si presta dunque alle censure di illogicità ovvero di omesso esame di fatti decisivi la scelta della corte territoriale di non valorizzare positivamente tale aspetto. Essa si inserisce, semmai, congruamente nella complessiva ricostruzione dei fatti e della loro gravità.
In conclusione il ricorso deve essere respinto.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e vanno poste a carico della parte soccombente ex art.91 cod. proc. civ..
Deve farsi applicazione del nuovo sistema di liquidazione dei compensi agli avvocati di cui al D.M. 20 luglio 2012, n. 140, Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi dell’art. 9 del d.l. 24 gennaio 2012 n. 1, conv., con modificazioni, in L. 24 marzo 2012 n. 27. L’art. 41 di tale Decreto n. 140/2012, aprendo d Capo VII relativo alla disciplina transitoria, stabilisce che le disposizioni regolamentari introdotte si applicano alle liquidazioni successive all’entrata in vigore del Decreto stesso, avvenuta il 23 agosto 2012.
Tenuto conto dello scaglione di riferimento della causa; considerati i parametri generali indicati nell’art. 4 del D.M. e delle tre fasi previste per il giudizio di cassazione (fase di studio, fase introduttiva e fase decisoria) nella allegata Tabella A, i compensi sono liquidati nella misura omnicomprensiva di € 3.000,00 e di € 50,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in € 3000,00 per compensi professionali ed in € 50,00 per esborsi, oltre I.V.A. e C.P.A.
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