CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 maggio 2013, n. 10742
Tributi – Imposte sui redditi – Reddito d’impresa – Norme generali sulle valutazioni – Prezzi di trasferimento – Art. 110, TUIR (ante 2004) – Disciplina antielusiva – Esclusione – Repressione del fenomeno economico in sé – Transfer pricing – Ufficio finanziario – Maggiore fiscalità nazionale – Onere della prova – Esclusione – Contribuente – Valore normale ex art. 9, TUIR (ante 2004) – Onere probatorio – Mezzi diversi di quelli previsti – Ammissibilità
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 81/15/09 depositata in data 12 ottobre 2009 la Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna – rigettato l’appello proposto dalla territoriale Agenzia delle Entrate – confermava la decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Rimini n. 318/01/07 che aveva annullato l’avviso di accertamento n. 81203T500907 2006 IVA IRAP IRES 2004 emesso nei confronti di O. S.r.l. col quale tra l’altro venivano ripresi a tassazione € 200.000 relativi al pagamento del marchio “(Il …)” ritenuti dall’Ufficio indeducibili perché eccessivi oltreché maggiori redditi per € 561.510,52 relativi ad “abbuoni” a beneficio di controllate estere ritenuti non veritieri.
Secondo la CTR, con riguardo alla ripresa a tassazione di € 200.000, l’Amministrazione non aveva dato dimostrazione del minor valore del marchio “(Il …)”. Una dimostrazione che non potevasi ricavare dalle sole allegate circostanze che il marchio, inventato solo tre mesi prima, non fosse ancora stato registrato e pubblicizzato o anche dalle contrarie affermazioni di imprese concorrenti. Con riferimento invece alla ripresa a tassazione per €. 561.510,52 -ricondotta alla fattispecie di cosiddetto transfer pricing – la CTR riteneva che l’Amministrazione non avesse provato la circostanza del “controllo” della contribuente sulle Società estere. Circostanza, anzi, che sarebbe stata smentita “da precedenti sentenze ormai definitive”. La CTR, infine, affermava che l’Amministrazione non aveva dato dimostrazione che le vendite fossero avvenute “ad un prezzo inferiore al valore normale”.
Contro la sentenza della CTR, l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.
La contribuente resisteva con controricorso, a sua volta proponendo ricorso incidentale condizionato e altresì avvalendosi della facoltà di presentare memoria.
Motivi della decisione
1. Ex art. 335 c.p.c. i ricorsi debbono andare riuniti.
2. Col primo motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. per violazione e falsa applicazione dell’artt. 109 d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917, degli artt. 4 e 5 d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, dell’art. 19 d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633 e dell’art. 2697 c.c. L’Agenzia delle Entrate, a riguardo, deduceva che la CTR era incorsa in errore addossando all’Amministrazione l’onere della dimostrazione del “valore adeguato del costo” relativo al pagamento del marchio “Il cono d’oro”. Secondo l’Agenzia delle Entrate, difatti, l’Amministrazione non poteva esser tenuta a provare il valore normale del bene”. E, ciò, particolarmente nel caso in esame, “in cui era impossibile enucleare criteri analitici di determinazione del valore normale della transazione”.
Cosicché avrebbero dovuto esser considerati “sufficienti” i “precisi elementi indiziari circa la sussistenza di una rilevante divergenza tra il valore esposto in bilancio e valore effettivo”, forniti dall’Amministrazione, per ritenere che al contribuente spettasse “l’onere di provare l’inerenza del costo o di parte di esso, fornendo tutti gli elementi atti a supportare la deducibilità”. La illustrazione del motivo, terminava con il quesito: “se – in una fattispecie in cui l’Amministrazione finanziaria abbia ripreso a tassazione ai fini IRPEG, IRAP e IVA i costi sostenuti per la cessione in via esclusiva dell’uso di un marchio sostenendone l’evidente sproporzione rispetto al valore effettivo – incorra nella violazione degli artt. 75 e 9 d.p.r. n. 917/1986, 4 e 5 del d.lgs. 446/1997, 19 del d.p.r. n. 633/1972 e 2697 c.c. la sentenza della CTR la quale affermi che l’Amministrazione finanziaria sia tenuta a provare il valore normale del bene, mentre le anzidette disposizioni debbono essere correttamente interpretate nel senso che la stessa amministrazione debba esclusivamente fornire precisi elementi indiziari circa la sussistenza di una rilevante divergenza tra il valore esposto in bilancio e valore effettivo ovvero di un comportamento contrario a criteri di coerenza e razionalità economica; in tale ipotesi, spetta al contribuente l’onere di provare l’inerenza del costo o di parte di esso”.
Il motivo è fondato.
Questa Corte, a riguardo, rammenta la sua costante giurisprudenza orientata nell’interpretare l’art. 75, comma 4, d.p.r. n. 917 del 1973, testo applicabile ratione temporis, nel senso che, poiché trattasi di provare una deduzione, spetta al contribuente ex art. 2697 c.c. dimostrare, quando l’Ufficio abbia dato conto di taluni elementi di irrealtà del valore dedotto, l’ammontare delle spese per beni o servizi da dedursi (Cass. n. 19489 del 2010; Cass. n. 9917 del 2008). E, nel caso concreto, l’Amministrazione aveva evidenziato come la novità del marchio, oltreché l’assenza di spesa pubblicitaria a sostegno dello stesso, ecc., deponessero nel senso della eccessività del costo dedotto a titolo di pagamento della privativa. La CTR, quindi, non ha correttamente applicato le disposizioni, laddove, dal mancato assolvimento di un inesistente onere della prova posto a carico dell’Amministrazione, ha fatto derivare la deducibilità del costo.
3. Col secondo motivo la sentenza è stata censurata ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. per insufficiente motivazione circa la inesistenza di una rilevante divergenza tra il pagamento di € 200.000 del marchio e il valore “reale” dello stesso, senza alcuna considerazione per gli elementi allegati dall’Amministrazione come, ad es., l’esser stato il marchio appena realizzato e non ancora registrato e oltreché per il fatto che non era stata sostenuta alcuna spesa per pubblicità.
Il motivo è da ritenersi assorbito coll’accoglimento del primo.
4. Col terzo, quarto e quinto motivo di ricorso, da esaminarsi congiuntamente per la loro stretta connessione, l’Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e 5, c.p.c. per insufficiente motivazione circa un fatto decisivo e controverso e per violazione di legge. Deduceva l’Agenzia delle Entrate, dapprima, che la CTR era incorsa nel vizio di motivazione per aver affermato che mancava la prova del “controllo” delle Società estere da parte della contribuente, senza peraltro prendere in alcuna considerazione le numerose prove contrarie fornite dall’Ufficio, p. es, con riferimento ai documenti ammissivi provenienti dalla stessa contribuente, p. es. con riferimento alla identità delle persone che detenevano partecipazioni, ecc. Del resto, faceva poi rilevare l’Agenzia delle Entrate, dalla CTR nemmeno era stato spiegato quali fossero state le sentenze definitive che avevano statuito circa il “non controllo” della contribuente. L’Agenzia delle Entrate, infine, evidenziava come, di fronte alla conclamata prova fornita dall’Amministrazione circa lo scostamento tra i prezzi normali indicati in fattura e quelli praticati alle Società estere mediante gli “abbuoni”, sarebbe stato “onere della Società dimostrare che, nei singoli mercati di riferimento (e cioè nei Paesi di residenza delle controllate) analoghi abbuoni erano praticati nei confronti di tutti i controllati”.
I motivi sono fondati.
Deve esser preliminarmente evidenziato come il cosiddetto transfer pricing costituisca, dal lato economico, un’alterazione del principio della libera concorrenza. E questo nel senso che, transazioni tra Società appartenenti ad uno stesso Gruppo, ma con sede in Paesi diversi, avvengono per prezzi che non hanno corrispondenza con quelli praticati in regime di libero mercato. Il fenomeno, quindi, dà luogo ad uno spostamento di imponibile fiscale. E, pertanto, permette di sottrarre imponibile a Stati con maggiore fiscalità. Cosicché, proprio allo scopo di preservare la esatta pretesa impositiva di ciascuno Stato, sono state adottate normative nazionali predisposte a eliminare il fenomeno stesso del transfer pricing. Normative che recepiscono il principio del prezzo normale delle transazioni commerciali, contenuto nel Modello OCSE art. 9, comma 1, Convenzione del 1995. Principio recepito anche in Italia, nel testo applicabile ratione temporis, dall’art. 76, comma 5, d.p.r. 917 del 1986. La disciplina italiana del transfer pricing, come negli altri Paesi, prescinde dalla dimostrazione di una più elevata fiscalità nazionale. Se si vuole, la disciplina in parola rappresenta una difesa più avanzata di quella direttamente repressiva della elusione. Elusione che, per tale ragione, non occorre dimostrare. E questo, appunto, perché la disciplina di che trattasi è rivolta a reprimere il fenomeno economico in sé. Difatti, tra gli elementi costitutivi della fattispecie repressiva del transfer pricing di cui dall’art. 76, comma 5, d.p.r. 917 del 1986, non si rinviene quello della maggiore fiscalità nazionale. Non occorre, si ripete, provare la elusione. E’ pertanto soltanto necessaria l’esistenza di transazioni tra imprese collegate. Spetta invece al contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova di cui all’art. 2697 c.c., dimostrare che le transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali ai sensi dell’art. 9, comma 3, d.p.r. n. 917 del 1986. Disposizione per la quale, come noto, son da intendersi normali i prezzi di beni e servizi praticati “in condizioni di libera concorrenza” con riferimento, “in quanto possibile”, a listini e tariffe d’uso (Cass. n. 11949 del 2012; Cass. n. 7343 del 2011) . Ciò che, quindi, non esclude altri mezzi di prova, prova che tuttavia la contribuente non ha dato.
La CTR, pertanto, non poteva pretendere dall’Amministrazione la prova dell’elusione, e, particolarmente, la prova di una fiscalità di favore della legge straniera e della anormalità dei prezzi di transazione intergruppo.
5. La contribuente ha eccepito il formarsi di plurimi giudicati esterni, ma, peraltro, infondatamente. Difatti, a riguardo, è nota la Giurisprudenza di questa Corte, per cui, se trattasi di elementi variabili, non durevoli nel tempo, per anni e imposte diverse, accertamenti contenuti in altre sentenze, mai possono dar luogo a giudicato opponibile in altra seppur analoga controversia (Cass. n. 20029 del 2011; Cass. n. 18907 del 2011).
6. Non essendo necessario accertare altri fatti, la causa può decidersi nel merito col rigetto del ricorso proposto dalla contribuente avverso l’impugnato atto impositivo, con condanna della soccombente al rimborso delle spese del presente, compensate integralmente quelle del merito.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale, rigetta quello incidentale, cassa l’impugnata sentenza, e, decidendo nel merito, respinge il ricorso della contribuente O. S.r.l., per la parte qui all’esame, proposto contro l’avviso di accertamento n. n. 81203T500907 2006 IVA IRAP IRES 2004; compensa integralmente le spese del merito, condanna la contribuente a rimborsare all’ Agenzia delle Entrate le spese del presente, che liquida in € 15.000,00 per compensi, oltre a spese prenotate.
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