CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 maggio 2013, n. 10749
Tributi – Imposte sui redditi – Acquisto di beni in paradiso fiscale – Deducibilità – Limiti
Ritenuto in fatto
1. L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna indicata in epigrafe, con la quale, rigettando l’appello principale dell’Ufficio ed accogliendo quello incidentale della parte contribuente, è stata confermata l’illegittimità dell’avviso di accertamento emesso, per IRPEG ed IRAP del 1999, nei confronti della MG Trading s.r.l. sulla base della ritenuta indeducibilità, ai sensi dell’art. 76, commi 7 bis e 7 ter, del d.P.R. n. 917 del 1986 (nel testo vigente ratione temporis), dei costi di acquisto di bobine fotografiche da società residente in Liechtenstein (T. Commercial Limited Company), dalla quale la MG Trading era controllata.
Il giudice di merito ha ritenuto, in ordine all’appello principale, che le operazioni commerciali rispondevano ad un effettivo interesse economico (intendendo per tale non solo prezzi competitivi ma anche puntualità nelle forniture e serietà del fornitore) ed in ogni caso che non risultava sufficientemente provata l’esistenza di un rapporto di controllo tra le due società, non assumendo rilievo il fatto che il socio di maggioranza della M.G. risiedesse in Svizzera e che in questo Paese venissero inviati i pagamenti, né che la maggioranza degli acquisti fossero fatti dalla T.; quanto, poi, all’appello incidentale della società, attinente alla compensazione delle spese disposta in primo grado, la CTR ha affermato che, “data la materia trattata e la temerarietà della lite intrapresa”, l’Agenzia doveva essere condannata alle spese di entrambi i gradi.
2. La M.G. Trading resiste con controricorso.
Considerato in diritto
1. Con il primo motivo di ricorso, l’Agenzia delle entrate, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2359 cod. civ. e dell’art. 76, comma 7 bis, del d.P.R. n. 917 del 1986, censura la sentenza impugnata nella parte in cui il giudice a quo ha ritenuto non provata, nonostante la natura dei rapporti commerciali intrattenuti, l’esistenza di un rapporto di controllo cd. esterno tra la M.G. Trading s.r.l. (quale controllata) e la società T. (quale controllante). Formula, quindi, il quesito “se, perché sussista una situazione di controllo che esclude la deducibilità delle componenti di reddito ex art. 76 DPR 917/86, si debba accertare anche la sussistenza del ed. controllo esterno, fondato su vincoli contrattuali tali da far ritenere che una società sia, nella sostanza, sotto l’influenza dominante dell’altra”.
Con il secondo motivo, denuncia il difetto di motivazione della sentenza in ordine agli elementi di fatto addotti dall’Ufficio al fine di dimostrare il detto rapporto di controllo.
Con la terza censura, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 76, comma 7 ter, del citato d.P.R. n. 917 del 1986 e dell’art. 2697 cod. civ., nella parte in cui il giudice di merito ha ritenuto provata, da parte della contribuente, l’esistenza di un effettivo interesse economico nel compimento delle operazioni contestate. Chiede, in conclusione, “se l’interesse economico di cui all’art. 76, comma 7 ter, D.P.R. 917/86 consista nella reale convenienza all’acquisto dei prodotti esteri rispetto ad analogo acquisto da imprese concorrenti” e “se l’onere di dimostrare tale convenienza incomba sulla parte che intende avvalersi del disposto di tale norma”.
Con il quarto motivo, denuncia il difetto di motivazione in ordine alla questione di cui alla doglianza precedente.
2.1. I quattro motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per stretta connessione, si rivelano inammissibili o, comunque, infondati.
2.2. I commi 7 bis e 7 ter dell’art. 76 del d.P.R. n. 917 del 1986, introdotti dalla legge n. 413 del 1991, prevedevano, nel testo applicabile alla fattispecie ratione temporis (poi più volte modificato: cfr., ora, art. 110 del nuovo TUIR), per quanto qui interessa, che “non sono ammesse in deduzione le spese e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti e società domiciliate fiscalmente in Stati o territori non appartenenti alla Comunità economica europea aventi un regime fiscale privilegiato, le quali direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa ai sensi dell’art. 2359 del codice civile” (comma 7 bis); e che “le disposizioni di cui al comma 7 bis non si applicano quando le imprese residenti in Italia forniscano la prova che le società estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva ovvero che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione” (comma 7 ter).
2.3. Ciò posto, il giudice di merito, come detto in narrativa, dopo aver considerato sussistente la “esimente” prevista dal citato art. 76, comma 7 ter, in quanto le operazioni in esame erano rispondenti ad un effettivo interesse economico, intendendo per tale “non solo prezzi competitivi delle merci acquistate, ma anche puntualità nelle forniture e serietà del fornitore in genere”, ha poi, in ogni caso, e quindi con effetto assorbente, ritenuto non sufficientemente provato il rapporto di controllo tra le due società, considerando inadeguati a tal fine gli elementi addotti dall’Ufficio, quali il fatto che il socio di maggioranza della M.G. Trading risiedesse in Svizzera, che in tale Paese venissero inviati i pagamenti e che la maggioranza degli acquisti delle bobine fosse effettuata presso la T..
Si tratta di motivazione che, per un verso, è esente dai vizi di violazione di legge denunciati nei quesiti di diritto sopra riportati (avendo il giudice a quo valutato l’esistenza di un rapporto di controllo di tipo esterno tra le società e considerato, ai fini di accertare l’interesse economico, anche l’aspetto della convenienza degli acquisti sotto il profilo della competitività dei prezzi), e, per altro verso, si fonda su accertamenti e valutazioni di fatto che si sottraggono alle censure sul piano della motivazione formulate, in termini del tutto generici, nel secondo e quarto motivo, i quali si rivelano inammissibili prima ancora che infondati per l’assenza dei requisiti prescritti, per tale tipo di censure, dall’art. 366 bis cod. proc. civ.
3. Con il quinto motivo, la ricorrente censura, infine, la sentenza per avere il giudice accolto l’appello incidentale della società, concernente la compensazione delle spese disposta in primo grado, condannando nel dispositivo l’Ufficio al loro pagamento, con “totale assenza di motivazione”, essendo la parte motiva della sentenza priva di alcun cenno della questione.
Il motivo è inammissibile.
Premesso, per completezza, che solo la compensazione delle spese processuali deve essere sorretta da motivazione, e non già l’applicazione della regola della soccombenza cui il giudice si sia uniformato, atteso che il vizio motivazionale, ove ipotizzato, sarebbe relativo a circostanze discrezionalmente valutabili e, perciò, non costituenti punti decisivi idonei a determinare una decisione diversa da quella assunta (Cass. n. 2730 del 2012), deve rilevarsi che, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, la sentenza è pervenuta alla statuizione di condanna dell’Ufficio anche alle spese di primo grado “data la materia trattata e la temerarietà della lite intrapresa”.
4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
5. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese, che liquida in €. 25.000,00 per compensi, oltre €. 200,00 per esborsi ed oltre accessori di legge.
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