Corte di Cassazione sentenza n. 10817 del 17 maggio 2011
RAPPORTO DI LAVORO – DIMISSIONI LAVORATRICE CAUSA DEL MATRIMONIO – NULLITA’
massima
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Sono considerate dimissioni nulle se rassegnate nel periodo compreso tra la data delle pubblicazioni e un anno dopo il matrimonio.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Tribunale di Roma, con sentenza del 19.12.2003. aveva dichiarato la nullità delle dimissioni rassegnate da A. D. e la prosecuzione del rapporto di lavoro, condannando il resistente F. M., titolare dello studio di consulenza ove la prima prestava la propria attività lavorativa, alla riammissione della lavoratrice nel posto di lavoro precedentemente occupato, nonché al pagamento della retribuzione globale di fatto, dalla data della notifica del ricorso (6.3.2002) all’effettiva data della reintegra, oltre accessori come per legge; nonché alla restituzione del preavviso, pari ad euro 1300,73, dal 1.6.99 al saldo: ogni altra domanda era stata respinta.
Con sentenza del 30.5.2006, la Corte di Appello di Roma rigettava l’appello principale della A. e quello incidentale del F. sosteneva, in sintesi, che, in mancanza di atto di estromissione imputabile al datore di lavoro, doveva ascriversi ad iniziativa della lavoratrice il recesso, configurabile come dimissioni volontarie: che, però, essendo state queste rassegnate nel periodo intercorrente tra il giorno della richiesta di pubblicazione di matrimonio ad un anno dalla celebrazione dello stesso, le stesse erano da ritenersi nulle ex art. 1 legge 7/1963, in quanto non confermate entro un mese all’Ufficio del lavoro, non trovava, poi, applicazione l’art. 6 legge 604/66 in tema di decadenza dalla relativa impugnativa e dovevano ritenersi applicabili i principi generali della nullità ed il relativo regime
Precisava ancora la Corte territoriale che la disposizione di cui aIl’art. 2 della legge 7/1963 che prevede l’obbligo di corrispondere alla lavoratrice la retribuzione globale di fatto sino al giorno della riassunzione non si riferiva, secondo quanto argomentato nella sentenza impugnata, anche all’ipotesi di nullità delle dimissioni nel periodo di interdizione e, pertanto, l’obbligo della retribuzione era connesso con la more credendi, sorgendo solo dal momento in cui il lavoratore aveva offerto nuovamente la propria prestazione. Nel caso specifico, solo con la notifica del ricorso giudiziario l’A. aveva manifestato tale volontà onde corretta doveva ritenersi sul punto la decisione del primo giudice. A giudizio della corte del merito, non poteva, infine, accedersi sia alla richiesta restitutoria delle somme corrispondenti a sanzioni disciplinari, nè a quella relativa al risarcimento del danno connesso alla dedotta impossibilità di beneficiare delle agevolazioni concesse alle lavoratrici madri in mancanza di prova rispettiva dei fatti e del danno. Anche le spese di lite erano state rettamente regolamentate.
Propone ricorso per cassazione la A., affidando l’impugnazione ad unico articolato motivo.
Resiste con controricorso il F., rilevando l’inammissibilità del ricorso e proponendo ricorso incidentale assistito da quattro motivi.
Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi, in quanto proposti avverso la stessa sentenza (art. 335 c.p.c.).
Con unico motivo, la ricorrente A. sostiene l’arbitraria ed illegittima differenziazione tra dimissioni della lavoratrice in procinto di contrarre matrimonio e licenziamento della stessa e deduce che il momento in cui il datore di lavoro aveva acquisito la conoscenza della sua volontà di non considerare valide le dimissioni doveva individuarsi nell’agosto 1999 in coincidenza con l’istanza proposta alla Commissione Provinciale di Conciliazione presso l’Ufficio Provinciale del lavoro e della Massima Occupazione, contenente una implicita richiesta di prosecuzione del rapporto lavorativo. Richiama massime giurisprudenziali della S C. in tema di licenziamento per matrimonio, che avevano affermato la natura retributiva delle erogazioni dovute dal datore di lavoro, ed in particolare il contenuto della sentenza n. 7176/2003. Pone quesito di diritto al riguardo, riferito alla necessità di corrispondere la retribuzione per tutto il periodo della interruzione del rapporto.
Il ricorso principale è infondato.
Questa Corte ha più volte affermato che la disposizione dell’art. 2 della legge 9 gennaio 1963, n. 7 – che prevede, in caso di nullità del licenziamento della lavoratrice perché intimato a causa di matrimonio, l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere alla lavoratrice medesima la retribuzione globale di fatto fino al giorno della riassunzione in servizio, stante la dipendenza della mancata prestazione lavorativa dall’illegittimo rifiuto di quest’ultimo di riceverla – non si riferisce (sia per il suo tenore letterale, sia per la diversità della fattispecie) anche all’ipotesi della nullità delle dimissioni della lavoratrice rassegnate senza conferma all’ufficio del lavoro – nel periodo di interdizione di cui all’art. 1 della legge citata (ossia dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio fino ad un anno dopo la celebrazione dello stesso ) e, pertanto, l’obbligo della retribuzione con la mora credendi relativa del datore di lavoro sorge soltanto nel momento in cui la lavoratrice facendo valere la nullità del proprio recesso e la perdurante validità del rapporto di lavoro offra nuovamente la propria prestazione (cfr in tali esatti termini in motivazione: Cass. 4 febbraio 1987 n. 1087, cui adde, più di recente Cass 4 gennaio 2007 n. 25).
La sentenza impugnata, avendo fatto corretta applicazione di tale principio, si sottrae ad ogni censura in questa sede di legittimità, per avere la lavoratrice rivendicato un risarcimento dei danni in una entità maggiore di quella che le è stata liquidata senza avere però provato di avere in concreto offerto le proprie prestazioni prima dell’epoca a partire dalla quale è stato dal giudice d’appello riconosciuto il verificarsi del danno, né nel ricorso di cassazione si ravvisano – in base al principio della autosufficienza elementi validi ad attestare che detta prova é stata ritualmente e tempestivamente richiesta prima e poi espletata.
Con il primo motivo del ricorso incidentale, il F. deduce la violazione dell’art. 2119 c.c. e della I 604/66 e, segnatamente, dell’art. 6 della stessa e la contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia.
Assume che la A. doveva dichiararsi decaduta dall’impugnazione del licenziamento, così qualificato dalla lavoratrice nell’atto di impugnazione del 4.8.1999, ai sensi dell’art. 6 L. 604/66 e formula quesito di diritto a termini dell’art. 366 bis c.p.c.
Con il secondo motivo, il F. denunzia la violazione dell’art. 1 commi 4 e 5 L. 7/63 anche in relazione agli artt. 2103 e ss. c.c. e 2118 e ss. c.c., nonché l’assenza di motivazione su di un punto decisivo delta controversia.
Rileva che, non essendo state le dimissioni confermate, le stesse erano ab origine nulle ed il rapporto doveva proseguire, che la lavoratrice non aveva offerto la propria prestazione neanche dopo la cessazione del periodo di un anno dalla celebrazione del matrimonio, per cui non potevano addebitarsi al datore le conseguenze della mancata conferma, che, in ogni caso, gli aspetti evidenziati e la circostanza che esso ricorrente avesse chiesto di provare di avere offerto alla lavoratrice di riassumerla erano idonei a rendere la pronunzia come gravemente carente e viziata, sia dal punto di vista logico che della ricostruzione della vicenda
Lamenta, ancora con il terzo motivo, la violazione degli artt. 2116 e 2119 c.c. e L. 604/66 e successive modificazioni, la contraddittorietà della motivazione su di un punto decisivo, la nullità del procedimento per violazione degli artt. 112; 115,164 e 245 c.p.c., anche in relazione all’art. 2697 c.c.
Evidenzia con tale motivo che l’impugnazione di un ipotetico licenziamento ad opera dell’A. aveva tolto presupposto alle prestazioni di costei, che si era ritenuta esonerata dall’offrirle e che ciò doveva valutarsi con riferimento alla domanda riconvenzionale del F., che chiedeva affermarsi la sussistenza di giusta causa nella risoluzione del rapporto, quale conseguenza dell’ingiustificata assenza dal lavoro dell’A. ed il venir meno delle sue prestazioni, che aveva costituito oggetto di eccezione avverso la domanda attrice. Era stato richiesto di fornire la prova in ordine all’invito rivolto alla lavoratrice di riprendere il lavoro, escludente la mora credendi. Formula quesiti di diritto, con i quali si sollecita anche la rimessione al giudice del merito per ammissione della prova sulle circostanze dedotte.
Il F. propone, infine, con il quarto motivo, di sollevare questione di costituzionalità del 4° e 5° comma dell’art. 1 legge 7/63 interpretati nel senso di ritenere estesa alle dimissioni per giusta causa la presunzione iuris et de iure di essere intervenute a causa di matrimonio e di porne a carico del datore le conseguenze a guisa di sanzione immotivata, per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione.
Anche le questioni sollevate con il ricorso incidentale sono infondate.
La tutela accordata dalla legge 9 gennaio 1963 alle lavoratrici che contraggono matrimonio è fondata sull’elemento obiettivo della celebrazione del matrimonio e non è subordinata all’adempimento di alcun obbligo di comunicazione da parte della lavoratrice: tanto si evince, in particolare, dalla presunzione concernente l’avvenuta intimazione per causa di matrimonio del licenziamento della lavoratrice disposto nel periodo compreso tra la data della richiesta delle pubblicazioni e l’anno successivo alla celebrazione delle nozze, alla cui stregua la possibilità di conoscenza del matrimonio inizia, per il datore di lavoro con il compimento, da parte dei nubendi, delle formalità previste dal codice civile (cfr., in tali termini, Cass. 10 gennaio 2005 n. 270).
Tanto premesso, quanto ai primi tre motivi – da trattarsi congiuntamente per comportare l’esame di questioni tra loro strettamente connesse -, deve rilevarsi che, anche ove si configuri la fattispecie come licenziamento e non come dimissioni rassegnate dalla lavoratrice non può trovare adesione la tesi prospettata dal ricorrente. Ed invero è principio pacifico quello secondo il quale il termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento previsto dall’art. 6 legge n. 604 del 1966 deroga al principio generale – desumibile dagli artt. 1421 e 1422 c.c. – secondo il quale, salvo diverse disposizioni di legge, la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e l’azione per farla dichiarare non è soggetta a prescrizione. Ne consegue che, sotto questo profilo, la disposizione di cui al citato art. 6 legge n. 604 del 1966 è da considerarsi di carattere eccezionale e non è perciò applicabile, neanche in via analogica, ad ipotesi di nullità del licenziamento che non rientrino nella previsione della citata legge n 604 del 1966. È, pertanto, da escludersi che il suddetto termine di sessanta giorni per l’impugnativa sia applicabile ai licenziamenti previsti dall’art. 1 legge n. 7 del 1963 (sul divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio) e dall’art. 2 legge n. 1204 del 1971 (sulla tutela delle lavoratrici madri), ai quali vanno invece applicati i principi generali di cui ai citati artt. 1421 e 1422 c.c. ( cfr. tra le altre, Cass. 20 gennaio 2000, n. 610, Cass. 27 agosto 2003 n. 12569; Cass. 27 febbraio 2003 n. 3022).
Nella ipotesi di dimissioni della lavoratrice intervenute nel periodo intercorrente tra giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio ad un anno dalla celebrazione di questo nulle ai sensi dell’art. 1 della legge 9 gennaio 1963 n. 7 in quanto non confermate entro un mese all’Ufficio del lavoro, la interruzione delle prestazioni – che non determina durante il periodo di interdizione l’estinzione del rapporto – può configurare un valido recesso tacito della stessa lavoratrice se protratta oltre la scadenza del periodo stesso o quella, se successiva, del termine per la conferma delle dimissioni (cfr., anche in motivazione, Cass. 4 febbraio 1992 n. 1159).
Nel caso considerato il giudice del merito, con una motivazione congrua ed immune da vizi logici e che si sottrae quindi ad ogni censura, ha ritenuto che l’A. avesse manifestato la volontà di far valere vizi afferenti alle modalità di cessazione del rapporto di lavoro mediante la richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione intervenuta a distanza di appena due mesi (agosto 1999) e che non ricorressero, pertanto, le condizioni per ritenere configurabile un recesso tacito .
Non deduce, poi, il ricorrente incidentale quali fossero specificamente i capitoli di prova articolati per escludere la mora credendi, né é richiama prova documentale a conforto delle argomentazioni svolte, sicché deve reputarsi corretta la decisione nella ricostruzione della fattispecie controversa, avendo la Corte territoriale, in relazione alla doglianza del F. chiarito che non trovava applicazione la disciplina della tutela reale, ma quella delle nullità di diritto comune, per la quale, essendo l’atto di recesso inidoneo ad estinguere il rapporto di lavoro o ad incidere sulla sua continuità giuridica il rapporto doveva considerarsi come mai interrotto con conseguente diritto della lavoratrice ad essere ripresa al lavoro. Né il ricorrente incidentale ha dedotto di avere formulato in diversi termini oggi delineati, la questione circa l’esonero da ogni sua responsabilità, per avere rivolto alla lavoratrice l’invito a ripresentarsi al lavoro, non essendosi realizzati, per quanto sopra detto i presupposti neanche per un licenziamento per giusta causa, stante la richiesta tempestivamente inviata dalla lavoratrice alla Commissione di Conciliazione.
La questione di legittimità costituzionale risulta prospettata in via generica e senza evidenziarne la rilevanza e ciò a prescindere dalla di per sé decisiva considerazione che si è in presenza nella materia in esame di una tutela rafforzata assicurata dal legislatore per doversi coniugare la garanzia di un interesse individuale e di un interesse pubblico ex art. 31 Cost.
Per concludere anche il ricorso incidentale va rigettato e va confermata la sentenza impugnata per essere la stessa supportata da una motivazione che, oltre ad essere congrua e priva di salti logici, ha fatto corretta applicazione della normativa applicabile alla fattispecie in esame.
Le spese di lite del presente giudizio vanno compensate tra le parti in considerazione della reciproca soccombenza.
P.Q.M
La Corte cosi provvede:
riunisce i ricorsi e li rigetta compensa tra le parti le spese di lite del presente giudizio.
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