Corte di Cassazione sentenza n. 1110 del 17 gennaio 2013 

TRIBUTI – ACCERTAMENTO – RILIEVO DA PARTE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA DI DOCUMENTAZIONE FALSA – ONERE DEL FISCO DELLA PROVA DI OPERAZIONE INESISTENTE – NECESSITA’

massima

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Per le ipotesi di costi documentati da fatture che l’amministrazione finanziaria ritenga relative a operazioni inesistenti, non spetta al contribuente provare che l’operazione è effettiva, ma spetta all’amministrazione, che adduce la falsità del documento e, quindi, l’esistenza di un maggiore imponibile, provare – seppur solo su base presuntiva – che l’operazione commerciale, documentata dalla fattura, in realtà non è stata mai posta in essere. Essendo l’ordinamento fondato sul principio del libero convincimento del giudice, non esiste una gerarchia di efficacia delle prove, per cui i risultati di talune di esse debbano necessariamente prevalere nei confronti di altre. Sicché la valutazione della prova, anche documentale, è rimessa al prudente apprezzamento del giudice, e il suo convincimento resta sindacabile in sede di legittimità sul solo versante della, motivazione al riguardo fornita, dal momento che l’omessa valutazione di eventuali prove documentali fornite dalle parti è configurabile non come vizio di violazione di legge bensì come vizio di motivazione.

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza depositata il 20.6.2007 la commissione tributaria regionale delle Marche ha respinto l’appello dell’agenzia delle entrate avverso la sentenza con la quale la commissione tributaria provinciale di Macerata aveva accolto un ricorso di (…), e del suo amministratore (…), contro un avviso di accertamento per maggiori Irpeg, Irap e Iva – oltre sanzioni – relativamente all’anno d’imposta 1998. La sentenza, stabilito che la società aveva presentato un’istanza di accertamento con adesione e aveva contestualmente aderito alla sanatoria prevista dall’art. 15 della L. n. 289/2002, ha respinto l’appello dell’amministrazione sul duplice rilievo (a) della insussistenza della condizione ostativa alla sanatoria, derivante dall’essere stato sottoposto a procedimento penale l’amministratore della società, non essendo stata invero coinvolta nel detto procedimento la società contribuente; (b) della infondatezza della, pretesa fiscale anche nel merito, essendo stata codesta incentrata sulla presunta inesistenza di operazioni passive in verità dedotta da semplici congetture dei verificatori, prive di supporto probatorio e adeguatamente contrastate dalla documentazione prodotta in giudizio.

Contro la sentenza di secondo grado l’agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione in tre motivi, illustrati anche da memoria.

La società intimata e l’amministratore hanno replicato con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

I. – Col primo mezzo, involgente la questione della sanatoria delle liti potenziali, l’amministrazione denunzia (art:. 360, n. 3, c.p.c.) violazione e falsa applicazione dell’art. 15, 1° e 7° co., della L. n. 289/2002 e dell’art. 1, co. 2-septies, del D.L. n. 143/2003 conv. in L. n. 212/2003, nonché dell’art. 12 prel.

Chiede di stabilire se sia preclusa la definizione di cui all’art. 15 della L. n. 289/2002 nei confronti dì società il cui legale rappresentante sia stato sottoposto a procedimento penale per uno dei reati tributari di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, di cui lo stesso sia venuto a conoscenza prima del perfezionamento della definizione medesima.

Col secondo mezzo e col terzo mezzo, invece attinenti alla statuizione di infondatezza della pretesa in sé, denunzia (a) in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c., la violazione dell’art. 36, 1° co., n. 4, D.Lgs. n. 546/1992 e 132, 1° co., n. 4, c.p.c.; nonché (b) in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., dell’art. 75 del TUIR e degli artt. 19, 28 e 54 del D.P.R. n. 633/1972.

Il secondo mezzo in particolare chiede di stabilire se sia adeguatamente motivata la sentenza di secondo grado fondata esclusivamente sulla asserita condivisibilità delle argomentazioni proposte dalla contribuente e recepite dalla decisione di primo grado.

Il terzo mezzo a sua volta censura la sentenza per essersi limitata ad accogliere la tesi della contribuente sulla base della semplice asserita mancanza di prova contraria da parte dell’ufficio, senza indicazione di alcun elemento di fatto idoneo a dare contezza di una compiuta verifica della effettiva sussistenza dei presupposti dettati dalla legge per il riconoscimento di costì portati in deduzione, e ritenuti relativi a operazioni inesistenti.

II. – È pregiudiziale l’esame del secondo e del terzo motivo avendo la sentenza respinto l’appello dell’amministrazione finanziaria sulla base di una concorrente ratio giustappunto attinente al recupero a tassazione di imponibile derivato dal disconoscimento di costi e quote di ammortamento.

Dalla sentenza in particolare risulta – e la ricorrente lo conferma sia nel ricorso che nella successiva memoria – che la pretesa fiscale era stata sorretta dal disconoscimento, ai fini delle imposte dirette e dell’Iva, di costi ritenuti relativi a operazioni inesistenti ovvero ritenuti privi del requisito di competenza.

I due motivi seno tra loro connessi e suscettibili di unitario esame.

Essi sono infondati.

III. – Occorre difatti innanzi tutto evidenziare che, secondo la giurisprudenza di questa corte, in relazione all’accertamento delle imposte sui redditi, qualora sia contestata la deducibilità dei costi documentati da fatture relative a operazioni asseritamente inesistenti, l’onere di fornire la prova che l’operazione rappresentata dalla fattura non è stata mai posta in essere incombe all’amministrazione finanziaria la quale adduca la falsità del documento (e quindi l’esistenza di un maggior imponibile) (da ultimo Cass. n. 3268/2012, cui adde Cass. n. 21317/2009).

Vero è che detto onere può essere adempiuto, ai sensi dell’art, 39, 1° co., del D.P.R. n. 600/1973, anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti (v. Cass. n. 1023/2008, n. 10157/2010). Ma resta il fatto che la ripartizione dell’onere della prova Inter partes non risponde alla regola affermata dalla ricorrente a fondamento dei motivi.

In sostanza, in tema di accertamento delle imposte sui redditi (ma lo stesso vale anche per l’Iva), nella ipotesi di costi documentati da fatture che l’amministrazione finanziaria ritenga relative a operazioni inesistenti, non spetta al contribuente provare che l’operazione è effettiva, ma spetta all’amministrazione, che adduce la falsità del documento e, quindi, l’esistenza di un maggiore imponibile, provare – seppur solo su base presuntiva – che l’operazione commerciale, documentata dalla fattura, in realtà non è stata mai posta in essere. Nel caso dì specie, la sentenza ha prioritariamente stabilito che tutte le fatture contestate avevano riguardato operazioni strettamente inerenti all’attività della società, e avevano regolarmente indicato l’oggetto della cessione e/o della prestazione.

Ha quindi evidenziato che l’affermazione di inesistenza delle operazioni afferenti era da ritenere congetturale, essendo mancata l’evidenziazione del supporto probatorio. Per cui, in mancanza di prova contraria; le argomentazioni della contribuente circa l’effettività dei costi e la correlata loro deducibilità (e detraibilità) dovevano -secondo la sentenza – ritenersi condivisibili in quanto sorrette da idonea documentazione.

In tal modo la commissione regionale non si è discostata dalle regole che presidiano la ripartizione dell’onere della prova, e ha esplicitato la ratio decidendo in modo comunque intelligibile, rendendo evidente che la decisione è stata basata sull’affermazione previa di inesistenza di prove a, sostegno della non veridicità di quanto attestato dai documenti esaminaci.

Occorre del resto precisare che, essendo l’ordinamento fondato sul principio del libero convincimento del giudice, non esiste una gerarchia di efficacia delle prove, per cui i risultati di talune di esse debbano necessariamente prevalere nei confronti di altre. Sicché la valutazione della prova, anche documentale, è rimessa al prudente apprezzamento del giudice, e il suo convincimento resta sindacabile in sede di legittimità sul solo versante della, motivazione al riguardo fornita, dal momento che l’omessa (o asseritamente non adeguata) valutazione di eventuali prove documentali fornite dalle parti è configurabile non come vizio di violazione di legge bensì come vizio di motivazione.

È in tal senso risolutivo osservare che la valutazione di merito non è stata nella fattispecie censurata sotto questo versante, non essendosi provveduto a evidenziare, secondo il disposto di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c.,  quale ulteriore specifica e decisiva risultanza probatoria il giudice del merito avrebbe dovuto valutare (e motivare) in vista di un convincimento diverso.

Consegue l’infondatezza del secondo e del terzo motivo.

IV. – Da tanto discende l’assorbimento, per superfluità, dell’esame del primo motivo, quantunque astrattamente fondato nell’affermazione giuridica che lo sostiene, giacché al relativo scrutinio la ricorrente non ha interesse posto che la sentenza rimane sorretta dall’affermazione di infondatezza nel merito della pretesa fiscale.

Al fine di esplicitare simile enunciato può osservarsi quanto segue.

V. – Da un punto di vista strutturale, l’impugnata sentenza ha deciso dì rigettare l’appello dell’agenzia delle entrate sulla base di una concorrente sequenza di ragioni: (i) perché la lite dovevasi considerare definita ai sensi dell’art. 15 della L. n. 289/2002; (ii) perché comunque la pretesa di un maggiore imponibile era a monte infondata.

Trattasi di questioni afferenti entrambe al merito, l’inammissibilità, per difetto di interesse, anche del gravame proposto avverso le altre, in quanto l’eventuale accoglimento del ricorso non inciderebbe sulle rationes decidendi non censurate, con la conseguenza che la sentenza impugnata resterebbe pur sempre fondata su di esse (v. per tutte Cass. n. 1658/2005; n. 2273/2005; n. 10420/2005; n. 13340/2004).

Ma lo stesso vale laddove il ricorso per cassazione, con cui tutte le concorrenti rationes siano state censurate, veda il rigetto delle censure in rapporto a una tra queste, da sola suscettibile di sorreggere la decisione, invero quando – come nella specie – una decisione di merito, impugnata in sede di legittimità, si fonda su distinte e autonome rationes decidendi, ognuna delle quali sufficiente, da sola, a sorreggerla, il rigetto del motivo di ricorso attinente a una di esse rende superfluo l’esame degli ulteriori motivi, non potendo la loro eventuale fondatezza portare alla cassazione della sentenza, che rimarrebbe ferma sulla base dell’argomento riconosciuto esatto (v. esplicitamente Cass. n. 7077/2001; n. 9866/1998; n. 237/1995).

E non rileva l’astratta meritevolezza della tesi sostenuta a presidio della residua censura, perché l’interesse all’impugnazione, costituendo manifestazione del generale principio dell’interesse ad agire, deve essere individuato in un interesse giuridicamente tutelato, identificabile nella possibilità di conseguire una concreta utilità o un risultato giuridicamente apprezzabile attraverso la rimozione della statuizione censurata (v. tra le tante Cass. n. 12952/2007; n. 13953/2006; nonché sez. un. 12637/2008). Donde non può prospettarsi la sufficienza, al riguardo, della configurabilità di un mero interesse astratto a una più corretta soluzione di una questione giuridica non suscettibile di produrre riflessi pratici sulla soluzione adottata.

VI. – In conclusione, e in applicazione dei suaccennati principi, il ricorso va rigettato.

Di fatti vanno rigettati il secondo e il terzo motivo dell’odierno ricorso e va ritenuto assorbito l’esame del primo.

La peculiarità della fattispecie, in rapporto alle questioni controverse, giustifica la compensazione delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il secondo e il terzo motivo; assorbito il primo; compensa le spese.