CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 maggio 2013, n. 11150
Tributi – Imposte sulle successioni e donazioni – Dichiarazione – Accettazione senza beneficio di inventario – Termine di presentazione della dichiarazione – Entro sei mesi dalla morte – Agevolazioni ex art. 69, L. n. 342/2000 – Applicabilità – Condizioni
Fatto
Con l’impugnata sentenza n. 514/39/07, depositata il 27 settembre 2007, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, sez. staccata di Latina, respinto l’appello dell’Ufficio, confermava la decisione n. 44/09/05 della Commissione Tributaria Provinciale di Frosinone che aveva annullato l’avviso di rettifica emesso nei confronti di l.A. e dei figli S.D. e S.A., tutti eredi di S.R., avviso con cui veniva ripresa a tassazione una maggiore imposta di successione che l’Amministrazione riteneva dovuta nella considerazione che non potevasi applicare il più favorevole regime fiscale di cui all’art. 69 L. 21 novembre 2000, n. 342, ciò in quanto le dichiarazioni di successione sarebbero state tutte da presentarsi entro 31 dicembre 2000, mentre il beneficio spettava esclusivamente a chi le doveva presentare dopo; la CTR, altresì, in accoglimento dell’appello incidentale dei contribuenti, condannava l’Amministrazione al rimborso della somma in contestazione, che nelle more era stata pagata, domanda di condanna, peraltro, proposta alla CTP soltanto con memoria aggiuntiva del 16 settembre 2002 e sulla quale il primo giudice non aveva pronunciato.
La CTR, in sintesi, statuiva l’applicabilità del più favorevole regime fiscale di cui al ridetto l’art. 69 L. 21 novembre 2000, n. 342, perché, essendo i figli D. e A., alla data di devoluzione del 18 maggio 2000, ancora minorenni, la madre aveva, per loro conto, il 27 giugno 2000, accettato l’eredità con beneficio d’inventario, con la conseguenza, secondo la CTR, che le dichiarazioni di successione di tutti i contribuenti sarebbero state da presentarsi dopo il 31 dicembre 2000, ciò, in applicazione dell’art. 31, comma 1 e 2, lett. d), d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, nel testo ratione temporis, che prevedeva, appunto, che la dichiarazione di successione fosse da presentarsi entro sei mesi dalla scadenza del termine di mesi tre stabilito per la formazione dell’inventario, termine, quest’ ultimo, decorrente, ai sensi dell’art. 485 c.c., dal giorno della morte del de cuius.
Contro la decisione della CTR, l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.
I contribuenti resistevano con controricorso, a loro volta proponendo ricorso incidentale.
Diritto
1. Il ricorso principale e quello incidentale debbono esser riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c.
2. Col primo motivo, l’Agenzia delle Entrate censurava la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. per violazione dell’art. 31, comma 1 e 2, lett. d) d.lgs. 346 del 1990 e dell’art. 69 L. n. 342 del 2000, deducendo, a riguardo, che la madre, a differenza dei figli, aveva accettato senza beneficio d’inventario, cosicché il termine per la sua dichiarazione di successione era scaduto dopo sei mesi decorrenti dalla morte del marito, cioè il 18 novembre 2000, quindi senza diritto alla minore imposizione di cui all’art. 69 L. 342 del 2000 cit., atteso che, in effetti, della minore imposta potevano godere solo le dichiarazioni posteriori al 31 dicembre 2000. Erroneamente, pertanto, concludeva l’Agenzia delle Entrate, la CTR aveva ritenuto “unico”, cioè sia per la madre che aveva accettato senza beneficio d’inventario, sia pei figli che avevano accettato con beneficio d’inventario, il termine per presentare la dichiarazione di successione. L’illustrazione del motivo terminava col quesito: “se, nell’ipotesi di una pluralità di chiamati il termine per presentare la dichiarazione di successione può essere diverso in ragione della disciplina dettata dall’art. 31 d.lgs. n. 346 del 2000, con la conseguenza che, nell’ ipotesi in cui un chiamato sia erede puro e semplice di un soggetto deceduto in data 18 maggio 2000, lo stesso è tenuto a presentare la dichiarazione nel termine -applicabile ratione temporis – di sei mesi dall’apertura della successione, e quindi entro il 18 novembre 2000, anche se uno o più degli altri chiamati abbiano accettato con beneficio d’inventario e che alla quota di eredità allo stesso devoluta non sono applicabili le più favorevoli disposizioni dettate dall’art. 69 L. n. 342 del 2000”.
Il motivo è fondato.
Va premesso che l’art. 510 c.p.c. per cui possono “giovarsi” dell’ inventario anche chiamati diversi da quello che ha fatto la dichiarazione, deve esser interpretata nel senso che i chiamati che possono “giovarsi” non sono quelli che hanno accettato l’eredità puramente e semplicemente e nemmeno quelli che sono decaduti dal beneficio, questo per la ragione che “non può la redazione dell’inventario attribuire agli altri coeredi una posizione giuridica che essi non siano più in grado di acquistare” (Cass. sez. II n. 2532 del 1999; Cass. sez. II n. 8034 del 1993; Cass. sez. II n.782 del 1982). L’illazione conseguente è pertanto che la contribuente I.A., che, in effetti, non aveva accettato con beneficio d’inventario, avendo invece accettato con beneficio d’inventario solo per conto dei figli, doveva quindi presentare la dichiarazione di successione entro il 18 novembre 2000, cioè entro sei mesi dalla devoluzione ereditaria, siccome stabilito dall’art. 31, comma 1, d.lgs. n. 346 del 1990, testo applicabile ratione temporis, con la derivata impossibilità di usufruire del trattamento fiscale più favorevole di cui all’art. 69 L. n. 342 del 2000, che, appunto, si ripete, presupponeva che il termine per la presentazione della dichiarazione di successione dovesse scadere dopo il 31 dicembre del 2000.
3. Assorbito il secondo motivo, col quale l’Agenzia delle Entrate censurava la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. per non aver la CTR sufficientemente spiegato perché I.A., pur essendo erede pura e semplice, potesse valersi del beneficio dell’ inventario e quindi potesse presentare la dichiarazione di successione dopo il 31 dicembre 2013.
4. Col terzo motivo, l’Agenzia delle Entrate censurava la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. per violazione dell’art. 31, comma 1 e 2, lett. d) d.lgs. n. 346 del 1990, “anche in combinato disposto con gli artt. 485 e 489 c.c.”, oltreché falsa applicazione dell’art. 69 L. n. 342 del 2000, deducendo, a riguardo, che S.A., figlio del de cuius, che, come veduto, il 27 giugno 2000, assieme al G.C., a mezzo della madre, aveva accettato l’eredità con beneficio d’inventario, era, però, divenuto maggiorenne l’8 luglio 2000, cosicché, ai sensi degli artt. 485 e 489 c.c., era decaduto dal beneficio dell’inventario “non avendo provveduto a erigere lo stesso entro l’anno dal compimento della maggiore età”, con l’ulteriore conseguenza che, anch’egli, come la madre, secondo l’Agenzia delle Entrate, avrebbe dovuto fare la dichiarazione di successione entro il 18 novembre 2000, quindi senza diritto alla minore imposta di cui all’ art. 69 L. n. 342 del 2000. L’argomentazione del motivo finiva col quesito: “dovendosi ritenere nell’ipotesi di una pluralità di chiamati all’eredità che il termine per presentare la dichiarazione dì successione possa essere diverso in ragione della disciplina dettata dall’art. 31 d.Igs. n. 346 del 2000, con la conseguenza che, nell’ipotesi in cui un chiamato sia erede puro e semplice di un soggetto deceduto il 18 maggio 2000, lo stesso sia tenuto a presentare la dichiarazione nel termine – applicabile ratione temporis – di sei mesi dall’apertura della successione, e quindi entro il 18 novembre 2000, anche se altro chiamato abbia accettato con beneficio d’inventario, dica la Corte se la decadenza dal beneficio dell’inventario del chiamato all’eredità (nella specie verificatesi ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 485 e 489 c.c. in quanto il chiamato, divenuto maggiorenne l’8 luglio 2000, non ha eretto l’inventario entro l’anno successivo al compimento della maggiore età) comporti l’applicabilità del termine per presentare la dichiarazione previsto per l’accettante puro e semplice (e quindi, nel caso di specie, il 18 novembre 2000), con la conseguenza che alla quota di eredità allo stesso devoluta non sono applicabili le più favorevoli disposizioni dettate dall’art. 69 L. n. 342 del 2000”.
Il motivo è infondato.
Questa Corte, difatti, ha già avuto occasione di evidenziare che, poiché l’art. 489 c.c. prevede che il minore decade dal beneficio dell’inventario soltanto “al compimento di un anno dalla maggiore età”, l’art. 31, comma 1 e 2, lett. d) d.lgs. n. 346 del 1990, nel testo applicabile ratione temporis, come, del resto, era anche per l’anteriore omologo art. 39, comma 3, d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 637, deve esser interpretato nel senso che il termine di mesi sei per la presentazione della dichiarazione di successione del minore, poi divenuto maggiorenne, decorre dal raggiungimento della maggiore età (Cass. sez. trib. n. 25666 del 2008; Cass. sez. I n. 3307 del 1983).
Consegue che, siccome S.A. divenne maggiorenne l’8 luglio 2000, il termine per presentare la dichiarazione di successione scadeva oltre il 31 dicembre 2000, col diritto a usufruire della minore imposizione di cui all’art. 69 L. n. 342 del 2000.
5. Col quarto motivo, l’Agenzia delle Entrate censurava la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., deducendo, a riguardo, che la CTR aveva insufficientemente motivato in ordine al “Fatto controverso e decisivo” consistente nella circostanza che S.A. avrebbe dovuto presentare la dichiarazione di successione dopo il 31 dicembre 2000, ciò atteso che lo stesso S.A. era decaduto dal beneficio dell’inventario, cosicché, come la madre, avrebbe dovuto presentare la dichiarazione di successione entro il 18 luglio 2000.
Il motivo è inammissibile perché, con lo stesso, non tanto viene censurato un vizio motivazionale in ordine alla affermazione, da parte della CTR, di esistenza o inesistenza di un fatto decisivo e controverso per la risoluzione della lite, bensì si denuncia, sotto il profilo dell’ insufficiente argomentazione giuridica, l’opzione interpretativa degli artt. 489 c.c. e 31, comma 1 e 2, lett. d) d.lgs. n. 346 del 1990; insufficiente argomentazione giuridica che non può esser impugnata ex se, sebbene sotto il profilo dell’ error in procedendo, in quanto, come noto, ai sensi dell’art. 384, comma ultimo, c.p.c. la motivazione giuridica mancante o errata, se la pronuncia è conforme a diritto, deve esser integrata o corretta da questa Corte (Cass. sez. un. n. 28054 del 2008; Cass. sez. trib. n. 5123 del 2012).
6. Col quinto motivo, l’Agenzia delle Entrate censurava la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. per violazione degli artt. 18, 24 e 57, comma 1, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, deducendo che la domanda di condanna dell’Amministrazione al rimborso della maggiore imposta, che, come ricordato in narrativa, venne, nelle more, pagata dai contribuenti, era stata irritualmente proposta davanti alla CTP “solo con memoria aggiuntiva del 16 settembre 2002”, CTP che, peraltro, sulla richiesta non aveva pronunciato. L’illustrazione del motivo, finiva col quesito: “se, proposto ricorso avverso l’avviso di liquidazione dell’imposta di successione, la domanda di restituzione di quanto versato a seguito della notifica dell’atto impositivo avanzata con memoria aggiuntiva depositata in primo grado, in ordine alla quale il giudice di prime cure ha omesso di pronunciare, e riproposta dai contribuenti con appello incidentale, debba ritenersi inammissibile ai sensi degli artt. 18, 24 e 57 d.lgs. n. 546 del 1992”.
Il motivo è infondato.
Deve osservarsi che ciò che l’art. 24 d.lgs. n. 546 del 1992 proibisce è, secondo la comune interpretazione, che l’atto impositivo venga gravato per motivi differenti da quelli fatti valere in ricorso; e, ciò, atteso il carattere impugnatorio del processo tributario (Cass. sez. trib. n. 8177 del 2011; Cass. sez, trib. n. 7766 del 2006). La domanda di condanna al rimborso sub judice, in realtà, discendendo direttamente dalle contestazioni di cui al ricorso introduttivo dei contribuenti, non dà ingresso a nuovi motivi di impugnazione dell’avviso, anzi, per vero, nemmeno li amplia, come del resto reso palese dall’art. 68, comma 2, d.lgs. 546 del 1992, per cui il diritto al rimborso è conseguenza automatica dell’accoglimento del ricorso; sicché, all’evidenza, non può trovare sbarramento nell’art. 24 d.lgs. n. 546 del 1992, che, come veduto, ha tutt’altra funzione. E’ poi vero che l’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992, rinvia alle norme del codice di procedura civile per quanto non espressamente disciplinato dal rito tributario, sennonché la clausola di compatibilità, ivi contenuta, impedisce di far per es. applicazione dell’art. 183, comma 5, c.p.c, che consente domande nuove unicamente quando, le stesse, siano conseguenza della riconvenzionale del convenuto, atteso che il carattere non impugnatorio del primo grado di cognizione ordinaria, permette, in effetti, la domanda riconvenzionale e quindi un allargamento della materia del contendere, un allargamento a cui l’attore, con le nuove domande, ha la possibilità di adeguarsi. Laddove, invece, nel rito tributario, è soltanto radicalmente proibito il motivo nuovo, rispetto a quelli contenuti nel ricorso del contribuente, non potendo mai, l’Amministrazione, proprio pel carattere impugnatorio del rito, ampliare, con una controdomanda, il thema decidendum.
6. I contribuenti hanno inteso proporre, ad verba, “ricorso incidentale avverso la specifica statuizione che subordina la pur riconosciuta e dichiarata obbligazione restitutoria dell’Amministrazione Finanziaria ad una attività procedimentale amministrativa di riliquidazione delle imposte di successione del tutto ultronea”.
Per il che, col primo motivo del ricorso incidentale, la sentenza è stata censurata ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. per violazione degli artt. 40 n. 1 e 42, n. 1 lett. a) d.lgs. n. 346 del 1990, poiché, senza nessuna discrezionalità, l’Amministrazione, in caso di giudicato favorevole, era tenuta al rimborso. Seguiva, senza ulteriore argomentazione, il quesito: “se in presenza di accertato vizio dell’avviso di liquidazione dell’ imposta di successione, determinante la declaratoria di annullamento, il passaggio in giudicato della sentenza di annullamento, comporti l’obbligo per l’Amministrazione Finanziaria soccombente, in base al disposto degli artt. 40 n. 1 e 42 n. 1 lett. a) d.lgs. 346/90, di provvedere al rimborso d’ufficio a favore degli eredi dei contribuenti, dell’intero ammontare degli importi percetti per l’atto annullato, a titolo d’imposta, interessi, soprattasse e pene pecuniarie se applicate, sempreché cumulativamente superiori al minimo non rimborsabile di cui all’art. 42 n. 4 d.lgs. cit.”. Col secondo motivo del ricorso incidentale, la sentenza è stata censurata per violazione dell’art. 112 c.p.c., deducendo che l’ammontare delle somme non era oggetto dì contestazione, “Di talché si evince il vizio di ultrapetizione”. Seguiva, a ciò, direttamente, il quesito: “se realizza la violazione dell’art. 112 c.p.c. la decisione del giudice di merito che, in assenza di esplicita domanda di parte e in mancanza di determinazione nonché della presupposta attività procedimentale da parte dell’Ufficio Finanziario, dopo aver pronunciato l’annullamento dell’avviso di liquidazione delle imposte di successione impugnato, facoltizza l’Ufficio ad operare eventuali detrazioni, in sede di rimborso, sulle somme pagate dai contribuenti in forza dell’avviso stesso”. Col terzo motivo del ricorso incidentale, la sentenza è stata censurata ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. per insufficiente motivazione circa un fatto decisivo e controverso, deducendo che la CTR non aveva “per nulla motivato la ragione per la quale l’Amministrazione dovrebbe ritenersi legittimata a decurtare l’entità del rimborso”
Tutti i motivi del ricorso incidentale sono inammissibili, i primi due per non aver individuato la regula iuris che questa Corte dovrebbe statuire (Cass. sez. un. n. 12339 del 2010; Cass. sez. un. n. 16092 del 2009). Il terzo motivo è inammissibile perché in realtà, col vizio motivazionale, intende in realtà censurare un error in iudicando, peraltro nemmeno precisato (Cass. sez. lav. n. 7394 del 2010; Cass. sez. I n. 4178 del 2007).
7. Poiché non è necessità di accertamento di ulteriori fatti, questa Corte, ai sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c, deve definire la controversia nel merito.
8. Nella particolarità della vicenda, oltreché nella reciproca soccombenza, consistono i giusti motivi che inducono questa Corte a compensare integralmente le spese processuali di ogni fase e grado.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi, accoglie il primo motivo del ricorso principale, dichiara assorbito il secondo, respinge gli altri e respinge altresì il ricorso incidentale, cassa in parte qua l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, respinge il solo ricorso proposto da I.A. avverso l’avviso di rettifica; compensa integralmente, tra tutte le parti, le spese di ogni fase e grado.
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