Corte di Cassazione sentenza n. 1136 del 17 gennaio 2013
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – CONTRATTO DI LAVORO – DATORE DI LAVORO – VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI NASCENTI DAL CONTRATTO – IPOTESI DI DEQUALIFICAZIONE E TUTELA DELL’INTEGRITÀ FISICA E DELLA PERSONALITÀ DEL LAVORATORE – INADEMPIMENTO CONTRATTUALE – RISARCIMENTO DEL DANNO – CONFIGURABILITÀ – CONDIZIONI E LIMITI
massima
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La violazione da parte datoriale degli obblighi nascenti dal contratto di lavoro, ed in particolare il divieto di dequalificazione (art. 2103 cod. civ.) e l’obbligo di tutela dell’integrità fisica e della personalità del lavoratore (art. 2087 cod. civ.) integrano gli estremi di un inadempimento contrattuale, regolato agli artt. 1218 e 1223 cod. civ. Tali previsioni distinguono il momento dell’inadempimento, vale a dire la violazione degli obblighi di cui agli artt. 2097 e 2103 cod. civ. sanzionata con l’obbligo di corresponsione della retribuzione, dal momento, successivo ed eventuale, della produzione del danno, risarcibile solo in quanto “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento medesimo, sicché, essendo la finalità precipua del risarcimento del danno quella di neutralizzare la perdita sofferta in concreto dalla vittima attraverso la reintegrazione dell’effettiva diminuzione del suo patrimonio, subita per effetto del mancato adempimento della prestazione, ove tale diminuzione patrimoniale non vi sia stata, o non sia stata provata dal danneggiato, il diritto al risarcimento del danno non è configurabile.
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Svolgimento del processo
Il Tribunale di Roma dichiarava nullo per illiceità del motivo, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 108/90, il licenziamento intimato in data 5 marzo 2003 dalla A. P. s.p.a. a G. M., inquadrato come dirigente; condannava quindi la società alla reintegrazione di questi nel suo posto di lavoro, ed al risarcimento del danno in misura pari alla retribuzione globale di fatto, quantificata in euro 3.795,00 per 14 mensilità, dalla data di efficacia del licenziamento sino a quella della decisione, oltre accessori, ed al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per lo stesso periodo. Condannava inoltre la società al pagamento della somma di euro 15.939,00, oltre accessori, a titolo di risarcimento del danno da demansionamento e da mobbing; al pagamento della somma di euro 40.491,69, oltre accessori, a titolo di risarcimento del danno biologico, ed al pagamento di euro 2.315,00, oltre accessori, per spese mediche sostenute. Rigettava ogni altra domanda e condannava la società al pagamento delle spese di lite.
Proponeva appello la società; resisteva il M., proponendo appello incidentale diretto all’integrale accoglimento delle originarie domande.
Con sentenza del 26 agosto 2010, la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma dell’impugnata sentenza, rideterminava il risarcimento del danno ex art. 18 L. n. 300/70 commisurato alla retribuzione globale di fatto pari ad euro 7.521,99 mensili per 14 mensilità.
Condannava la società A. P. al pagamento della somma complessiva di euro 51.523,39 a titolo di risarcimento del danno scaturente da incapacità lavorativa temporanea.
Confermava la statuizione di condanna al risarcimento del danno biologico, ed al rimborso delle spese mediche. Compensava per un terzo le spese di lite, condannando la società al pagamento del residuo, riliquidandole come da dispositivo.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la A. P. s.p.a., affidato a tre motivi.
Resiste il M. con controricorso, contenente ricorso incidentale affidato a tre motivi, cui resiste la società con controricorso. Entrambe le parti hanno presentato memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1. I ricorsi avverso la medesima sentenza debbono essere riuniti ex art. 335 c.p.c.
1.1 Con il primo motivo la società denuncia, ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 Cost.; dell’art. 3 L. n. 108/90; dell’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale; dell’art. 18 L. n. 300/70 e dell’art. 10 L. n. 604/66; dell’art. 29 del c.c.n.l. 26 aprile 1995 per i dirigenti del Terziario, Distribuzione e Servizi, oltre ad omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.
Lamenta che la Corte capitolina ritenne erroneamente di poter applicare l’art. 18 L. n. 300/70 ad dirigente “di vertice” (pag. 12 ricorso), estendendo inammissibilmente l’applicazione della tutela c.d. reale anche all’ipotesi di licenziamento ritorsivo (in tesi causato da lettera rivendicante un superiore inquadramento) e non solo discriminatorio.
Deduce che l’estensione ai dirigenti convenzionali di talune delle garanzie proprie dei dipendenti con qualifica inferiore, non comportava la loro equiparazione a questi ultimi, anche considerando che l’art. 3 L. n. 108/90 (che richiama la definizione delle ragioni discriminatorie di cui all’art. 4 L. n. 604/66 e 15 L. n. 300/70) ha natura eccezionale e come tale non è suscettibile di interpretazione estensiva. Evidenzia che l’art. 29 del c.c.n.l. invocato, prevede per i licenziamenti ingiustificati del dirigente unicamente un’indennità economica (c.d. supplementare).
Il motivo è infondato.
Deve infatti considerarsi che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato che il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, è assimilabile a quello discriminatorio, vietato dagli artt. 4 della legge n. 604 del 1966, 15 della legge n. 300 del 1970 e 3 della legge n. 108 del 1990, a condizione che il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante il recesso (ex aliis, Cass. n. 17087/11; Cass. n. 6282/11; Cass. n. 5555/11; Cass. n. l4816/05), circostanza non investita dalla censura in esame e comunque adeguatamente accertata dalla Corte di merito.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1324, 1345 e 2697 c.c.; degli artt. 115 e 116 c.p.c.; degli artt. 2087. 2103 e 2118 c.c.; degli artt. 1362 e seguenti c.c. in relazione al verbale 11 febbraio 2003 del Consiglio di Amministrazione di A. P. S.p.A. ed in relazione alla lettera di licenziamento del geom. M. datata 5 marzo 2003 e da questi ricevuta l’8 marzo 2003; dell’art. 29 del c.c.n.l. 26 aprile 1995 per i Dirigenti del Terziario, della Distribuzione e dei Servizi. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.), e più precisamente circa la sussistenza del motivo ritorsivo del licenziamento, che la Corte capitolina individuò erroneamente nella progressiva dequalificazione, esautorazione ed infine isolamento del dirigente, dovendo invece valutare l’esistenza di un comportamento (anche rivendicativo) legittimo del lavoratore, cui sarebbe seguito un atto ritorsivo della datrice di lavoro. Evidenzia inoltre che al fine di riconoscere la natura ritorsiva e dunque la nullità del licenziamento, occorreva fornire la prova che tale motivo avesse avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, prova che non era stata fornita dal M., come si evinceva dalle testimonianze raccolte, di cui contestava l’attendibilità per varie ragioni (mancata conoscenza dei fatti di causa; risentimenti nei confronti dell’azienda; amicizia nei confronti del M.), e da talune missive intercorse tra le parti, da cui risultava il comportamento assolutamente corretto della società nei suoi confronti. Evidenzia peraltro che la decisone di licenziare il M. era stata già adottata dal verbale 11 febbraio 2003 del Consiglio di Amministrazione, precedente la lettera rivendicativa del M. (28.2.03), verbale erroneamente interpretato, unitamente alla lettera di licenziamento, dalla Corte capitolina, che parimenti omise di considerare che nello stesso periodo venne decisa la soppressione della figura del direttore generale. Il motivo è in larga parte inammissibile e per il resto infondato.
Ed invero esso è sostanzialmente affidato ad una inammissibile richiesta di riesame delle prove testimoniali e documentali esaminate dal giudice di merito (ex plurimis, Cass. 26 marzo 2010 n. 7394).
Quanto a queste ultime, la ricorrente finisce per chiedere a questa S.C. una diversa interpretazione della documentazione invocata (verbali del Consiglio di amministrazione e lettera di licenziamento) che è compito del giudice di merito e implica valutazioni di fatto che la Corte di Cassazione – così come avviene per ogni operazione ermeneutica – ha il potere di controllare soltanto sotto il profilo della giuridica correttezza del relativo procedimento e della logicità del suo esito (Cass. 9 settembre 2008 n. 22893; Cass. 1 febbraio 2007 n. 2217; Cass. 22 febbraio 2005 n. 3538).
Nella specie la Corte di merito, valutando talune deposizioni testimoniali da cui a suo avviso emergeva il carattere ritorsivo del licenziamento de quo, ed interpretando sia il verbale del Consiglio di amministrazione (ove è fatto pacifico riferimento, nell’ambito della decisione di ridurre i costi gestionali, “ad un dipendente con il quale sussiste un contenzioso che ha radici remote”) che la lettera di recesso (ove è fatto pacifico riferimento “allo spirito tutt’altro che collaborativo da Lei costantemente mostrato..”), ha congruamente ritenuto che il licenziamento del M. conseguisse, non ad una legittima esigenza di riorganizzazione interna ma ad un intento ritorsivo.
Risulta infine e pertanto corretta la conclusione della Corte capitolina secondo cui in tal caso non si versava semplicemente nell’ipotesi di licenziamento privo di giustificatezza ai sensi del c.c.n.l. per i dirigenti del terziario.
3. Con il terzo motivo la società denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1218, 1223, 1227, comma 2, c.c., e 18 L. n. 300/70, dolendosi che il giudice di appello, nel liquidare il risarcimento del danno a sensi della norma statutaria, non considerò che il M. non aveva provato di “aver tentato di limitare i danni (conseguenti il licenziamento) usando l’ordinaria diligenza”, ciò che avrebbe richiesto la prova dell’iscrizione nelle liste di collocamento, mentre risultava dalla documentazione allegata al presente ricorso, che dopo la sentenza impugnata il M. aveva reperito altra occupazione.
Il motivo è infondato.
È principio pacifico (ex pluribus, Cass. 2 marzo 2007 n. 4962) che in tema del fatto colposo del danneggiato nella produzione dell’evento dannoso, a norma dell’art. 1227 cod. civ., la prova che il creditore-danneggiato avrebbe potuto evitare i danni dei quali chiede il risarcimento usando l’ordinaria diligenza deve essere fornita dal debitore-danneggiante che pretende di non risarcire in tutto o in parte, il proprio creditore.
Resta peraltro fermo (ex aliis, Cass. ord. 26 ottobre 2010 n. 21919), che l’eccezione, con la quale il datore di lavoro deduca che il dipendente licenziato ha percepito un altro reddito per effetto di una nuova occupazione, ovvero deduca la colpevole astensione da comportamenti idonei ad evitare l’aggravamento del danno, necessita di una rituale allegazione dei fatti rilevanti che possono ritenersi dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti. Ai fini della sottrazione dell'”aliunde perceptum” dalle retribuzioni dovute al lavoratore, inoltre, è necessario che risulti la prova, il cui onere grava sul datore di lavoro, non solo del fatto che il lavoratore licenziato abbia assunto nel frattempo una nuova occupazione, ma anche di quanto percepito, essendo questo il fatto che riduce l’entità del danno presunto.
È infine evidentemente inammissibile la documentazione, prodotta solo in questa sede di legittimità, inerente il reperimento di altra occupazione da parte del M., disponendo l’art. 372 c.p.c. che in tale sede non è ammesso il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo, tranne quelli che riguardano la nullità della sentenza impugnata e/o l’ammissibilità del ricorso e del controricorso.
4. Il ricorso principale deve pertanto rigettarsi.
5. Venendo all’esame del ricorso incidentale si osserva.
5.1 Con il primo motivo il M. censura (ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.) la sentenza impugnata per insufficiente e contraddittoria motivazione con riferimento al danno professionale da demansionamento, al danno all’immagine ed alla vita di relazione allegati dal ricorrente e dallo stesso subiti in conseguenza dell’accertato demansionamento e dell’accertato mobbing, nonché con riferimento alla sussistenza del nesso di causalità tra i predetti danni ed il demansionamento ed il mobbing subiti.
Lamenta che la Corte di merito, pur avendo accertato che il ricorrente rimase per tre anni sostanzialmente inattivo, con isolamento professionale ed umano, inserito in una sequenza di condotte volutamente intese ad esautorare il dirigente, ritenne priva di adeguate allegazioni la domanda risarcitoria, non valutando adeguatamente le caratteristiche concrete del suo bagaglio professionale, idoneo a determinarne che ne determinavano l’impoverimento in conseguenza dell’accertato demansionamento.
Si duole il ricorrente incidentale che nella specie non vi fu semplice demansionamento (pag. 52 controricorso), ma un vero e proprio isolamento professionale conseguente allo svuotamento delle sue mansioni, sicché, anche alla luce della sentenza n.6572/06 delle sezioni unite di questa Corte, la prova del danno poteva essere anche presuntiva, e nella specie doveva trarsi dal lungo periodo di sostanziale inattività e dall’intento persecutorio (mobbing) della datrice di lavoro.
5.2 Il motivo è in parte inammissibile e per il resto infondato.
Inammissibile laddove richiede a questa S.C. un riesame in fatto delle circostanze di causa, anche inerenti l’interpretazione e valutazione del ricorso introduttivo del giudizio e delle allegazioni ivi contenute (cfr. giurisprudenza precedentemente indicata).
Infondato poiché ritiene di utilizzare ai fini del risarcimento del danno patrimoniale da demansionamento la prova presuntiva che la citata sentenza delle sezioni unite di questa Corte ha ritenuto possibile solo con riferimento al danno non patrimoniale ed esistenziale in particolare.
Va in proposito rimarcato che la sentenza n. 6572/06 di questa Corte ha affermato che il danno patrimoniale da demansionamento è risarcibile solo in quanto “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento medesimo, sicché ove tale diminuzione patrimoniale non vi sia stata, o non sia stata provata dal danneggiato, il diritto al risarcimento del danno non è configurabile.
Inoltre, il danno professionale, il quale può consistere sia nella menomazione della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di una maggiore capacità sia nella perdita di ulteriori possibilità di guadagno, configura un pregiudizio che va provato dal lavoratore attraverso la dimostrazione, sotto il primo profilo, dell’esercizio di un’attività in continua evoluzione e caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale e, sotto il secondo, delle aspettative conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto di lavoro e frustrate dal demansionamento.
La Corte di merito si è attenuta a tali principi ed il presente motivo non contiene adeguate censure alla statuizione adottata.
Deve poi evidenziarsi che risulta irrilevante che il M. accenni, nel titolo del presente motivo, al danno all’immagine ed alla vita di relazione, non avendo su ciò svolto specifiche censure alla sentenza impugnata, né risultando chiaramente le allegazioni svolte su tali temi, anche utilizzabili ai fini della prova presuntiva.
Infine mette solo conto di chiarire che i vari accenni al mobbing contenuti nel presente ricorso, non risultano suffragati dalla deduzione di una pregressa domanda risarcitoria in tal senso, che non risulta neppure esaminata dalla Corte di merito, né il ricorrente, in contrasto col principio dell’autosufficienza del ricorso, chiarisce in quale sede ed in quali termini essa sia stata proposta al giudice del gravame o comunque esso ne sia stato investito. Deve al riguardo evidenziarsi che il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, indicandone la sua esatta ubicazione all’interno dei fascicoli di causa (Cass. sez. un. 3 novembre 2011 n. 22726), al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C. deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto (Cass. ord. 30 luglio 2010 n. 17915).
5.3 Con il secondo motivo il M. censura (ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.) la sentenza impugnata per insufficiente e contraddittoria motivazione con riferimento al danno (patrimoniale) da incapacità lavorativa permanente, erroneamente esclusa in radice dal giudice di appello in conseguenza della disposta reintegrazione nel posto di lavoro; lamenta inoltre (ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.) la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., 2727 e 2729, comma 1, nonché 1223 e 1226 c.c.
Lamenta che il danno richiesto non poteva essere escluso dalla sola circostanza dell’avvenuta reintegra nel posto di lavoro e dalla percezione delle retribuzioni arretrate, posto che l’invalidità parziale permanente, accertata anche dal c.t.u. nominato in primo grado, rendeva presumibile una prestazione lavorativa più sofferta ed usurante, limitando in ogni caso la possibilità di reperire altre occupazioni confacenti, sicché il giudice di appello, a fronte di ciò, non valutando se ed in che misura i postumi permanenti accertati avessero o meno ridotto la capacità lavorativa del M., spiegando un’influenza negativa sulla sua professionalità e possibilità di carriera, anche presso altre realtà produttive, avrebbe violato le norme di legge sopra indicate (pagg. 60-61 controricorso), potendo peraltro procedere ad una valutazione equitativa del danno (ex art. 1226 c.c.), pur avendo il ricorrente dedotto un criterio obiettivo basato sulle tabelle di cui al R.D. n. 1403/22 per la costituzione delle rendite vitalizie.
Il motivo è infondato.
Ed infatti seppure è vero che l’avvenuta reintegra nel posto di lavoro, con sostanziale percezione delle retribuzioni pregresse, non esclude di per sé il danno da incapacità lavorativa permanente (ex aliis, Cass. n. 15641/02; n. 4685/99; n. 10454/94), ciò non toglie che di tale danno, di natura patrimoniale, il creditore debba fornire adeguata prova, e che l’avvenuta reintegra, con le conseguenze economiche di cui all’art. 18 L. n. 300/70, imponga che tale prova sia rigorosa.
Conviene al riguardo rammentare i principi affermati dalla citata sentenza n. 6752 /06 di questa Corte, seguiti dalla successiva giurisprudenza, secondo cui la violazione da parte datoriale degli obblighi nascenti dal contratto di lavoro, e in particolare il divieto di dequalificazione (art. 2103 cod. civ.) e l’obbligo di tutela dell’integrità fisica e della personalità del lavoratore (art. 2087 cod. civ.) integrano gli estremi di un inadempimento contrattuale, regolato agli artt. 1218 e 1223 cod. civ. Tali previsioni distinguono il momento dell’inadempimento, vale a dire la violazione degli obblighi di cui agli artt. 2087 e 2103 cod. civ. sanzionata con l’obbligo di corresponsione della retribuzione, dal momento, successivo ed eventuale, della produzione del danno, risarcibile solo in quanto “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento medesimo, sicché, essendo la finalità precipua del risarcimento del danno quella di neutralizzare la perdita sofferta in concreto dalla vittima attraverso la reintegrazione dell’effettiva diminuzione del suo patrimonio, subita per effetto del mancato adempimento della prestazione, ove tale diminuzione patrimoniale non vi sia stata, o non sia stata provata dal danneggiato, il diritto al risarcimento del danno non è configurabile.
Il richiamo alla prova presuntiva effettuato dal ricorrente incidentale mal si attaglia dunque al risarcimento del danno patrimoniale da inadempimento contrattuale (nascente dalla violazione dell’art. 2103, ovvero dell’art. 2087 c.c.), avendo questa Corte chiarito che è onere del lavoratore provare, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., il danno patito e il nesso di causalità con il demansionamento, i quali rappresentano il presupposto indispensabile anche per una valutazione equitativa del pregiudizio ad opera del giudice, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ. (Cass. sez. un. n. 6752/06; Cass. n. 10361/2004; Cass. n. 16792/2003; Cass. n. 8904/2003).
5.4 Con il terzo motivo il M. censura (ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.) la sentenza impugnata per insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine al danno morale subito, oltre alla violazione (ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.) degli artt. 2087, 1223 e 1226 c.c. Deduce che sin dal ricorso introduttivo del giudizio aveva lamentato che la società datrice di lavoro aveva posto in essere una pluralità di comportamenti riconducibili ad una precisa strategia diretta ad isolarlo rispetto ai colleghi, privandolo sostanzialmente delle sue mansioni dirigenziali, così da attentare alla sua personalità morale, ritenendo che tale danno potesse quantificarsi nella metà del danno biologico accertando, anche in via equitativa.
Anche tale motivo risulta infondato.
La Corte di merito ha al riguardo correttamente osservato che le allegazioni fornite dal M. sul punto “rimandavano tout court alla lesione dell’integrità psico-fisica già valutata e riconosciuta in sede di risarcimento del danno biologico”, come del resto emerge dal presente motivo di ricorso incidentale ove il danno morale è parametrato al danno biologico.
Trattasi di apprezzamento di fatto, congruamente motivato, incensurabile in questa sede di legittimità.
A ciò va aggiunto, come del resto rammenta lo stesso ricorrente incidentale, che a seguito della nota sentenza resa a sezioni unite di questa Corte (Cass. sez. un. n. 26972/08), il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici. Il danno morale, dunque, costituisce una specificazione del danno non patrimoniale e pertanto è in esso contenuto (Cass. 12 settembre 2011 n. 18641; Cass. 24 ottobre 2011 n. 21999; Cass. 20 settembre 2011 n. 19133; Cass. 9 marzo 2012 n. 3718), dovendosi escludere indebite duplicazioni di poste di danno (per tutte, Cass. n. 21999/2011). Come esattamente notato da Cass. 6 novembre 2011 n. 24015, alla stregua del “diritto vivente” segnato dall’arresto delle Sezioni Unite civili del 2008 (sentenza n. 26972 del 2008), la liquidazione del danno non patrimoniale deve essere complessiva e cioè tale da coprire l’intero pregiudizio a prescindere dai “nomina iuris” dei vari tipi di danno.
6. Entrambi i ricorsi vanno pertanto rigettati. Ciò giustifica la compensazione integrale delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte, riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi.
Compensa le spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 30 ottobre 2012
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