CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 maggio 2013, n. 11927
Lavoro – Lavoro subordinato – Estinzione del rapporto – Licenziamento illegittimo – Trasferimento del dipendente dopo la reintegra in una sede diversa da quella originaria – Trasferimento immotivato – Sussiste
Svolgimento del processo
Con sentenza del 13 febbraio 2010, la Corte d’appello di Lecce, nel confermare la decisione del Tribunale di Taranto, in funzione dì giudice del lavoro, con cui era stata dichiarata la illegittimità del licenziamento intimato dalla società Poste Italiane s.p.a. a C. A., in data 3 novembre 2001, rilevava che: a) la società, nel dare esecuzione ad una sentenza del giudice del lavoro che aveva ritenuto la nullità del termine apposto al contratto di lavoro del C., ordinandone la riammissione nel posto di lavoro, aveva invitato il lavoratore a riprendere servizio in una sede diversa da quella assegnata in origine e, poiché il medesimo non si era presentato, aveva intimato il recesso per ingiustificata assenza dal lavoro; b) l’assegnazione ad una sede diversa configurava un inadempimento contrattuale da parte della società, concretando un illegittimo trasferimento per non avere il datore dimostrato le ragioni poste a fondamento dello stesso ed avendo, anzi, l’appellato dato la prova che non ne sussistevano i presupposti, sì che il rifiuto della prestazione da parte del lavoratore doveva ritenersi giustificato, mentre il conseguente recesso della società si rivelava illegittimo.
Di questa sentenza la società Poste Italiane s.p.a. domanda la cassazione, affidando l’impugnazione a due motivi, illustrati con memoria. Il lavoratore resiste con controricorso, depositando, altresì, memoria illustrativa.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, la società lamenta violazione degli artt. 2103 e 1460 c.c.. e dell’ art. 18 dello Statuto dei lavoratori, nonché vizio di motivazione, ex art. 360, n. 5, c.p.c. e violazione e falsa applicazione dell’Accordo Quadro 29.7.2004, nonché dell’art. 37 c.c.n.l. del 2003, ai sensi dell’art. 360. n. 3. c.p.c, sostenendo che il trasferimento è stato effettuato ai sensi dell’art. 37 c.c.n.l. e degli accordi del 2004 sottoscritti con le OO SS, poiché non era possibile il ripristino del rapporto di lavoro alle condizioni preesistenti e che il dipendente non aveva il potere di rifiutare la prestazione lavorativa in sede di autotutela. Osserva che, in caso di contestazione della legittimità di una richiesta di prestare servizio in un luogo diverso da quello contrattualmente previsto, il lavoratore può continuare ad offrire l’esatta prestazione, restando a disposizione del datore di lavoro nell’unità produttiva di provenienza e che, soltanto in questo caso, si potrebbe ravvisare una mora credendi del datore di lavoro, con conseguente diritto alla conservazione del rapporto ed alla retribuzione. Peraltro, l’eccezione inadimplenti non est adimplendum, ai sensi dell’art. 1460 – c.c., può essere legittimamente opposta soltanto se l’obbligazione è certa nella sua
esistenza e nel suo ammontare, Anche ritenendo che il provvedimento contenesse un trasferimento implicito, lo stesso era giustificato da ragioni tecniche produttive e organizzative, mentre l’obbligo del datore di lavoro di indicare le ragioni del trasferimento sorgeva solo a seguito di esplicita richiesta del prestatore, che nella specie non era mai stata avanzata, perché, in realtà-, il lavoratore aveva solo tenuto un comportamento immotivato di astensione dal lavoro.
Con il secondo motivo, la ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione dì norme di diritto, nonché dell’ omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, ex art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c, assumendo che con il gravame la società aveva chiesto la riforma della sentenza di primo grado per erronea ed insufficiente motivazione nella parte in cui aveva condannato Poste al pagamento delle retribuzioni e che la Corte d’appello aveva omesso di pronunciarsi sul punto, in violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. Evidenzia che il lavoratore non aveva allegato conteggi idonei a supportare la richiesta del danno derivatogli a seguito della nullità della causale che fissa un termine al rapporto e non poteva in appello avvalersi di documentazione rispetto alla cui produzione si era verificata decadenza.
Il primo motivo non è fondato.
Risulta accertato che il lavoratore aveva ottenuto dal giudice del lavoro la declaratoria di nullità dell’apposizione del termine al contratto di lavoro con la società Poste Italiane e la condanna dì quest’ultima a riammetterlo in servizio nel posto precedentemente occupato; ma che la datrice di lavoro, in esecuzione del provvedimento giudiziale, aveva invitato al dipendente a prendere servizio in una sede diversa da quella assegnata in origine. Orbene, la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che la ottemperanza del datore di lavoro all’ordine giudiziale di riammissione in servizio a seguito di accertamento della nullità dell’apposizione di un termine al contratto di lavoro implica il ripristino della posizione dì lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell’attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo e nelle mansioni originarie, atteso che il rapporto contrattuale si intende come mai cessato e quindi la continuità dello stesso implica che la prestazione deve persistere nella medesima sede, a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità produttiva, sempre che il mutamento della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive (cfr. Cass. n, 8584 del 2007; Cass. n. 976 del 1996). Nella specie, l’invito a riprendere servizio in una sede diversa da quella originaria non contemplava, per quanto accertato dai giudici di merito, alcuna motivazione e, dunque, la modifica della sede di lavoro è stata correttamente intesa dalla Corte d’appello come un trasferimento illegittimo che, in quanto assunto in palese violazione delle norme che lo disciplinano e delle regole di correttezza e buona fede, integra una condotta illecita implicante un inadempimento del contratto di lavoro, sì che nessuna comparazione di contrapposti interessi sarebbe stata consentita al giudice di merito; ne consegue, ulteriormente, che la mancata ottemperanza a tale provvedimento da parte del lavoratore trova giustificazione sia quale attuazione di un’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.), sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti, non potendosi ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali, che imponga l’ottemperanza agli stessi fino a un contrario accertamento in giudizio (cfr. Cass. n. 26920 del 2008; n. 1809 del 2002).
Con questi presupposti, era ritenuto illegittimo il licenziamento per assenza dal servizio, intimato dalle Poste pur dopo la puntuale deduzione di illegittimità della nuova destinazione sollevata dal lavoratore nella lettera di risposta alla nota di addebito; e dunque la sentenza impugnata si sottrae alle censure mosse dalla ricorrente ( negli stessi termini, v. da ultimo, Cass. 30.12. 2009 n. 27844).
Il secondo motivo va dichiarato inammissibile perché non si comprende a quale risarcimento si riferisce la doglianza e non si specifica in che termini era stata avanzata la censura rispetto alla quale si deduce omessa pronunzia, che doveva, peraltro, farsi valere, per come formulata, non come vizio dì motivazione, ma quale violazione dell’art. 112 c.p.c, ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c. Peraltro, è principio pacifico nella giurisprudenza di legittimità quello alla cui stregua 11 giudice, allorché annulli il licenziamento di lavoratore, illegittimo, deve ordinarne la reintegrazione nel posto di lavoro – provvedimento che vale a ripristinare la situazione anteriore al recesso – e condannare il datore di lavoro ai risarcimento del danno, che va liquidato, secondo quanto espressamente previsto dal citato art. 18, come novellato dall’art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, sulla base del parametro delle retribuzioni maturate dal momento del licenziamento (fermo il minimo delle cinque mensilità), salve che il datore di lavoro non eccepisca e provi la sussistenza di (atti o circostanze idonee a determinare una riduzione del presuntivo ammontare del danno (v Cass. 2.7.2009 n. 15501). E’ stato, poi, affermato che la sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di quanto dovuto al lavoratore a seguito dell’accertamento della illegittimità della risoluzione datoriale del rapporto di lavoro costituisce valido titolo esecutivo, che non richiede ulteriori interventi del giudice diretti alla esatta quantificazione del credito, sicché la reintegrazione e la condanna al pagamento di un determinato numero di mensilità oppure delle retribuzioni dovutegli in virtù del rapporto non può chiedere in separato giudizio che tale condanna sia espressa in termini monetari più precisi. In tal caso, ad integrare il requisito della liquidità, richiamato nell’art. 474 cod. proc. civ., è infatti sufficiente che alla determinazione del credito possa pervenirsi per mezzo di un mero calcolo aritmetico sulla base di elementi certi e positivi contenuti tutti nel titolo fatto valere, i quali sono da identificare nei dati che, pur se non menzionati in sentenza, sono stati assunti dal giudice come certi e oggettivamente già determinati,anche nel loro assetto quantitativo. Perché così presupposti dalle parti e pertanto acquisiti al processo, sia pure per implicito (cfr. Cass 29.11.2004 n.22427).
Per tutte le svolte argomentazioni il ricorso deve essere respinto.
Le spese de presente giudizio seguono la soccombenza della società e si liquidano come da dispositivo, disponendosi la distrazione dei compensi in favore dell’avv. M. B., dichiaratosi antistatario.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 50,00 per esborsi ed in euro 3000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, con distrazione in favore dell’avv. M. B.
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