Corte di Cassazione sentenza n. 12496 del 24 luglio 2012
LAVORO (RAPPORTO DI) – LICENZIAMENTO – MALATTIA, INFORTUNI, GRAVIDANZA E PUERPERIO – MALATTIA – SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO
massima
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Nel caso di assenza del lavoratore dal posto di lavoro per malattia, i giorni del periodo di comporto vanno calcolati secondo il calendario comune.
Nel caso di assenza del lavoratore a seguito di ricaduta nella stessa o in diversa malattia (come nell’analogo caso di assenza dovuta ad una malattia unica), al fine di verificare se sia stato o meno superato il periodo di comporto contrattuale, la regola costituente principio generale, ma non avente carattere inderogabile – per cui un termine fissato a mesi (tanto quello interno, corrispondente alla somma delle assenze, quanto quello esterno, costituito dall’arco di tempo entro il quale i singoli episodi morbosi devono rientrare senza pregiudizio per la conservazione del posto di lavoro), deve essere computato secondo il calendario comune (art. 2963 c.c. e art. 155 c.p.c., comma secondo); trova applicazione solo quando non sussistano clausole contrattuali di diverso contenuto che assumano una durata convenzionale fissa costituita da un predeterminato numero di giorni (nella specie trenta), astrattamente basato sulla durata media del mese (Cass. civ., Sez. lavoro, 02/04/2004, n. 6554). L’assenza di espressa pattuizione disciplinante la materia non comporta, infatti, l’automatica utilizzazione del criterio ordinario dettato dalle richiamate disposizioni, in quanto tale carenza non esclude la possibilità di procedere alla ricostruzione della comune volontà delle parti – eventualmente da integrare con l’equità espressa dal giudice – attraverso l’interpretazione complessiva di clausole anche indirettamente riferibili alla determinazione del periodo utile ai fini del comporto.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza della Corte di Appello di Firenze del 23.10.2009, veniva respinto il gravame proposto dalla s.p.a. (OMISSIS) avverso la sentenza di primo grado che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento inflitto, con lettera del 14.3.2005, a (OMISSIS), per superamento del periodo di comporto, in relazione ad assenze per malattia per la durata continuativa di dodici mesi, stabilito dall’art. 40 del c.c.n.l. di settore, ed aveva disposto la reintegrazione del predetto nel posto di lavoro con le conseguenze di cui all’art. 18 Statuto dei Lavoratori.
Rilevava la Corte del merito che la locuzione di cui all’art. 40 del c.c.n.l., secondo la quale il lavoratore in malattia ha diritto alla conservazione del posto di lavoro per dodici mesi, era chiara dal punto di vista letterale, ma che l’eccezione relativa al computo del termine a mese era tardiva, e che, in ogni caso, il termine di dodici mesi doveva intendersi secondo il calendario comune, ossia alla comunemente intesa durata dell’anno solare, pari a trecentosessantacinque giorni. Il riferimento, nel periodo successivo del medesimo comma, agli intervalli inferiori a trenta giorni tra una malattia e l’altra non aveva alcuna significatività ai fini della individuazione della durata del mese e, peraltro, pur dovendosi ritenere, secondo la tesi della società, che il periodo di malattia, iniziato il 13.2.2003, si fosse esaurito in data 8.2.2004, andava considerato che, con comunicazione del 20.2.2004, la società aveva concesso l’aspettativa retribuita, con decorrenza non dal 9.2.2004, bensì dal 14.2.2004 fino al 13.2.2005, inequivocabilmente così interpretando l’espressione “durata massima di 12 mesi” riferita all’aspettativa come computabile in base al calendario comune.
La lettera di risoluzione era stata, poi, consegnata al lavoratore solo il 29.2.2004, ossia quindici giorni dopo la riammissione in servizio per due giorni e la successiva fruizione di giorni maturati per ferie ed, inoltre, la decisione di risolvere il rapporto, una volta che il (OMISSIS) era rientrato al lavoro, era da ritenersi autonomamente illegittima, in quanto la disciplina contrattuale, nella parte in cui prevedeva che, “trascorsi i periodi di assenza previsti dai precedenti commi”, ossia di malattia e di aspettativa, “la società potrà procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro” era da interpretare nel senso che la risoluzione poteva avvenire solo ove perdurante lo stato di malattia del lavoratore.
Anche sull’aliunde perceptum la decisione era sfavorevole alla società, ritenendosi che quest’ultima aveva sollecitato l’intervento di poteri istruttori del giudice con finalità meramente esplorative.
Per la cassazione di tal decisione ricorre la società, con quattro motivi, illustrati con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Resiste il (OMISSIS), con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la società denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 345 e 437 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, rilevando che le deduzioni difensive sul computo del mese non solo non erano nuove, avendo sempre la società sostenuto la legittimità del provvedimento di risoluzione del rapporto sul presupposto del superamento del periodo di trecentosessanta giorni, come evincibile dalla lettera di licenziamento in cui si faceva riferimento a gg. 365 di assenza con superamento del periodo di comporto, e sostenendo che, peraltro, non si trattava di eccezione in senso tecnico, ma di interpretazione della norma contrattuale.
Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 40 del c.c.n.l., per il personale non dirigente della società (OMISSIS) (allegato D) e violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., nonché difetto di motivazione, osservando che l’interpretazione sistematica delle disposizioni contrattuali era stata condotta senza riferimento ai periodi di malattia intervallati, ove si aveva riguardo a periodi di trenta giorni, così confermandosi, in presenza di norma contrattuale di contrario segno, che il computo non andasse effettuato secondo il calendario comune.
Con il terzo motivo, si duole della omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, sostenendo che l’art. 40 del c.c.n.l. non solo non impedisce al datore di lavoro di risolvere il rapporto di lavoro dopo avere concesso l’aspettativa, ma addirittura prevede l’esatto contrario.
Con il quarto motivo, la ricorrente ascrive alla sentenza impugnata la violazione e falsa applicazione degli artt. 421 e 210 c.p.c., nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, rilevando che, per quanto attiene all’aliunde perceptum, la documentazione relativa allo stato di occupazione del lavoratore era nella disponibilità di quest’ultimo, onde la Corte avrebbe dovuto fare uso dei poteri officiosi, ex art. 421 c.p.c.
In relazione alla questione del criterio di computo della durata della malattia del dipendente ai fini della verifica del superamento del comporto, quale possibile causa di risoluzione del rapporto di lavoro, deve rilevarsi che la Corte del merito, oltre a rilevare che la questione sollevata dalla società era nuova e come tale inammissibile, ha comunque fondato la decisione su interpretazione della norma contrattuale conforme ai principi stabiliti dall’art. 2963 c.c., comma 1, e all’art. 155 c.p.c., comma 2. Quindi, il rilievo di cui al primo motivo, quand’anche fondato, attesa la duplicità della “ratio decidendi”, non è idoneo a mutare i termini della decisione, che si fonda anche sulla ritenuta insussistenza del presupposto (superamento del comporto per malattia) per intimare un legittimo licenziamento. Al riguardo deve richiamarsi orientamento giurisprudenziale espresso dalla Corte di legittimità secondo cui, nel caso di assenza del lavoratore a seguito di ricaduta nella stessa o in diversa malattia (come nell’analogo caso di assenza dovuta ad una malattia unica) al fine di verificare se sia stato superato o meno il periodo di comporto contrattuale, la regola, costituente principio generale, ma non avente carattere inderogabile, per cui un termine fissato a mesi (tanto quello interno, corrispondente alla somma delle assenze, quanto quello esterno, costituito dall’arco di tempo entro il quale i singoli episodi morbosi devono rientrare senza pregiudizio per la conservazione del posto di lavoro) deve essere computato secondo il calendario comune (art. 2963 c.c., comma 1 e art. 155 c.p.c., comma 2) trova applicazione solo quando non sussistano clausole contrattuali di diverso contenuto che assumano una durata convenzionale fissa costituita da un predeterminato numero di giorni(nella specie trenta), astrattamente basato sulla durata media del mese (cfr. in tali termini, Cass. 2.8.1999 n. 8358).
È stato anche osservato che l’assenza di espressa pattuizione disciplinante la materia non comporta l’automatica utilizzazione del criterio ordinario dettato dalle richiamate disposizioni, in quanto tale carenza non esclude la possibilità di procedere alla ricostruzione della comune volontà delle parti – eventualmente da integrare con l’equità espressa dal giudice – attraverso l’interpretazione complessiva di clausole anche indirettamente riferibili alla determinazione del periodo utile ai fini del comporto (cfr. Cass. 2 aprile 2004 n. 6554). Nel caso in esame la Corte territoriale ha correttamente interpretato la norma contrattuale ritenendo che il computo dovesse avvenire secondo il calendario comune, sia ritenendo di scarsa significatività la circostanza che per i periodi di malattia intervallati si avesse riguardo ad un intervallo inferiore a trenta giorni ai fini del comporto per sommatoria, sul presupposto che gli episodi fossero espressione della medesima patologia, sia valutando il comportamento successivo della società, che aveva concesso l’aspettativa richiesta dal lavoratore con decorrenza dal 13.2.2004 e sino al 14.2.2005, e non dal 9.2.2004, a riprova della considerazione del mese secondo il calendario comune.
Quanto al terzo motivo di ricorso, con il quale si censura la valutazione della Corte di Firenze in relazione alla ritenuta necessità di valutare se lo stato di malattia impedisse o meno la ripresa dell’attività, solo nel primo caso ritenendo possibile la risoluzione del rapporto, una volta trascorsi i periodi di sospensione tutelata del rapporto di lavoro, lo stesso deve ritenersi assorbito in base alla evidente considerazione che il periodo di comporto, per le svolte considerazioni non poteva ritenersi superato per superamento dei 360 giorni di malattia.
Il quarto motivo di ricorso deve essere disatteso alla luce di quanto affermato con orientamento consolidato di questa Corte, secondo il quale, in tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore è onerato, pur con l’ausilio di presunzioni semplici, della prova dell'”aliunde perceptum” o dell'”aliunde percipiendum”, a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall’azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l’onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito (cfr. Cass. 17.10.2010; Cass., ord., sez 6, 26.10.2010, n. 21919).
Per le esposte argomentazioni, il ricorso deve essere complessivamente respinto e le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, cedono a carico della società, nella misura determinata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società al pagamento delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in euro 40,00 per esborsi, euro 3000,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.
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