CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA 22 MAGGIO 2013, N. 12503

Fatto

La Commissione tributaria provinciale di Arezzo, con sentenza n. 79/01/2001, respingeva il ricorso della società [X] avverso gli avvisi di accertamento Irpeg + Ilor, relativi agli anni 1994 e 1995 con cui l’ufficio contestava la presentazione di dichiarazioni annuali infedeli per contabilizzazione di costi indeducibili e per l’utilizzo di fatture relative a operazioni inesistenti per £ 21.971.475.000 in relazione all’anno di imposta 1994 e per £ 7.480.953.000 per l’anno d’imposta 1995. I giudici di primo grado rilevavano, in particolare che le imprese cedenti erano nella impossibilità materiale di movimentare l’enorme quantità di argento asseritamente cedute in ragione della loro modesta struttura. Con sentenza n. 25/1/06 depositata il 17/6/2006 la Commissione Tributaria Regionale della Toscana, in parziale riforma della sentenza impugnata dalla società, fatte proprie le conclusioni della CTU disposta in grado di appello, dichiarava legittima la pretesa fiscale limitatamente a un maggior reddito imponibile quantificato in £ 229.288.000 per l’anno 1994 e in £ 225.719.000 per l’anno 1995, con la rideterminazione delle imposte corrispondenti e il computo ex novo delle sanzioni (ferme restando quelle comminate per la irregolare tenuta della contabilità), annullando, per il resto, gli avvisi di accertamento.
Proponeva ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate deducendo i seguenti motivi:
a) violazione degli artt. 7, comma 2, e 36, comma 2, n. 4 DLgs. 546/1992 in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c, avendo la motivazione della sentenza operato un mero richiamo alla CTU che ha demandato al perito la soluzione di questioni giuridiche, quali la legittimità di un avviso di accertamento attraverso la valutazione critica delle indagini esperite dalla Guardia di Finanza e la sussistenza dei presupposti dell’accertamento sintetico;
b) vizio di motivazione su un fatto decisivo e controverso per il giudizio, in relazione all’art. 360, n. 5 c.p.c., rilevando la insufficienza e apoditticità della motivazione della sentenza che si è appiattita sulle conclusioni della relazione di CTU, senza esaminare le molteplici obiezioni e rilievi sollevati dall’Agenzia delle entrate;
c) contraddittoria motivazione su un fatto decisivo e controverso per il giudizio, in relazione all’art. 360, n. 5 c.p.c. avendo il giudice di merito, da un lato, ritenuto la sostanziale inattendibilità della contabilità della società intimata e dall’altro fondato il giudizio in ordine alla correttezza delle detrazioni dalla stessa effettuate sulla base di elementi tratti dalla contabilità stessa.
La società non ha svolto attività difensiva nel giudizio di legittimità.
Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 20.2.2013, in cui il PG ha concluso come in epigrafe.

Motivi della decisione

I motivi ricorso, vanno esaminati congiuntamente in quanto logicamente connessi, operando una parcellizzazione di una sostanzialmente unica censura che investe, sotto il profilo del vizio di violazione di legge e del vizio di motivazione, la sentenza impugnata con riferimento alla contestata indeducibilità dei costi della società contribuente sulla base della esperita CTU.
Va, al riguardo rilevato che nel regime precedente la modifica dell’art. 195 cod. proc. civ. ad opera della legge 18 giugno 2009, n. 69, nessuna norma del codice di rito imponeva al CTU di fornire ai consulenti di parte una “bozza” della propria relazione, in quanto, al contrario, le parti potevano legittimamente formulare critiche solo dopo il deposito della relazione da parte del consulente tecnico d’ufficio, atteso che il diritto di esse ad intervenire alle operazioni tecniche anche a mezzo dei propri consulenti deve essere inteso non come diritto a partecipare alla stesura della relazione medesima, che è atto riservato al consulente d’ufficio, ma soltanto all’accertamento materiale dei dati da elaborare.
Qualora il giudice di merito fondi la sua decisione sulle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, facendole proprie, affinché i lamentati errori e le lacune della consulenza determinino un vizio di motivazione della sentenza è necessario che essi si traducano in carenze o deficienze valutative o in affermazioni illogiche o errate o nella omissione di risposta a rilievi di parte idonei a inficiare le valutazioni dei CTU, non essendo sufficiente la mera prospettazione di una semplice difformità tra le valutazioni della parte e del consulente.
Nel caso di specie la relazione di CTU ha valorizzato un singolo aspetto, a fronte dei molteplici rilievi dell’Agenzia, ritenendo l’estraneità della società alla frode per mancanza di conversazioni tra esponenti della società intimata e gli esponenti elvetici delle società coinvolte nella asserita frode carosello. In una controversia come la presente, avente ad oggetto l’impugnazione di atti impositivi fondati su presunzioni, il giudice tributario di merito ha il compito di verificare che gli indizi utilizzati dall’ufficio, considerati singolarmente e nel loro complesso, possiedano i prescritti caratteri di gravità, precisione e concordanza; nell’ipotesi affermativa, spostandosi a carico del contribuente l’onere di provare la fedeltà della dichiarazione (cioè, nel caso di specie, la spettanza delta detrazione) e la sua domanda di annullamento dell’atto impositivo dovrà essere rigettata, se egli non fornisce valida prova delle sue affermazioni contrastanti con la pretesa erariale. La sentenza impugnata non espone alcun motivato giudizio d’insufficienza degli indizi offerti dall’A. F., limitandosi la CTR ad affermare che non risultano “elementi di prova che consentano di riscontrare a carico della stessa società il ruolo di beneficiaria dei proventi illeciti. Infatti, non sono stati rinvenuti dai verificatori conti correnti e depositi non ufficiali o comunque documenti che provino gli storni di somme a favore della società di tali proventi“, affermazioni estremamente generiche, che non rivelano la natura specifica dei singoli indizi esaminati né le ragioni della ritenuta insufficienza. Apoditticamente la sentenza afferma che l’Amministrazione non avrebbe fornito la prova della pretesa prima di aver stabilito, con adeguata e non generica motivazione, che gli indizi posti a base degli atti impositivi sono insufficienti; infatti, l’atto impositivo può basarsi anche su semplici presunzioni che, se esaminate specificamente e ritenute valide, hanno l’effetto di spostare sul contribuente l’onere della prova contraria. Parimenti illogica è la conclusione fondata sulla riscontrata regolarità della documentazione contabile e delle operazioni bancarie compiute dalla ditta, allorché si versa in ipotesi accertativa diversa da quella di discrepanza fra dichiarazione e dati cartolari (cfr. Cass. n. 11599/2007); ed è apodittica, essendo sfornita di ragionevole motivazione, l’enunciata “normalità” dell’acquisto di metalli preziosi a prezzi costantemente inferiori a quelli di mercato, quando si trattava invece di valutare il peso maggiore o minore di simile indizio nel quadro di un giudizio di mera attendibilità (non di comprovata certezza) della pretesa fiscale; salva sempre la prova contraria, che è a carico del contribuente e che, stando alla sentenza impugnata, non è stata fornita.
Nessuna motivazione, invece, si rinviene nella motivazione della sentenza impugnata in relazione alle critiche formulate dall’Agenzia, precise e circostanziate, idonee a sovvertire, ove accorte, l’esito del giudizio, essendosi limitati, invece, i primi giudici a riportare il contenuto della relazione, in cui il CTU ha asserito apoditticamente, senza valide ragioni, che le indagini esperite nei confronti della [X] erano carenti e inidonee a comprovare un coinvolgimento della stessa nel traffico criminoso, avendo, peraltro, il CTU affermato il coinvolgimento delle società fornitrici della [X] nel traffico illecito, confermando che la gran parte degli acquisti della predetta società era avvenuto da tali soggetti, senza motivare in ordine a dati di evidente significato indiziario, peraltro già evidenziati dai primi giudici al fine del rigetto del ricorso della società, quali la mancanza di struttura organizzativa e logistica delle società fornitrici e delle imprese filtro interposte.
In tema di imposte dirette, con riferimento alla indeducibilità dei costi rispetto al quale viene dedotta la violazione dell’art. 14, comma 4-bis, L. 537 del 1993, trovano, applicazione principi diversi rispetto all’Iva (che in tale giudizio non rileva) in forza dello ius superveniensrappresentato dall’art. 8, comma 1, DL 2 marzo 2012, n. 16, che trova applicazione retroattiva, per espressa previsione normativa, ai giudizi in corso.
Tale norma prevede che il comma 4-bis dell’art. 14 della legge n. 537 del 1993 sia sostituito dal seguente: «Nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi».
Ai sensi del comma 3 dell’art. 8, DL n. 16 del 2012: «Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano, in luogo di quanto disposto dal comma 4-bis dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al comma 4-bis previgente non si siano resi definitivi; resta ferma l’applicabilità delle previsioni di cui al periodo precedente ed ai commi 1 e 2 anche per la determinazione del valore della produzione netta ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive».
Lo scopo della norma, deducibile dalla relazione al disegno di legge di conversione del decreto all’esame del Parlamento, è individuabile con la volontà del legislatore di «inibire in modo inequivoco la deducibilità dei componenti negativi di reddito direttamente connessi al compimento delle fattispecie di reato più gravi, evitando che tale indeducibilità possa essere letta come una sanzione impropria, venendo invece la stessa inquadrata come regola generale nell’ambito della determinazione del reddito imponibile».
Con riferimento alla fattispecie in esame, la ricordata relazione al disegno di legge di conversione, afferma: «Per effetto di questa disposizione, l’indeducibilità non trova applicazione per i costi e le spese esposti in fatture o altri documenti aventi analogo rilievo probatorio che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi, ferme restando le regole generali in materia di detrazione della relativa imposta sul valore aggiunto di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 e in tema di deduzione previste dal testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917; pertanto, ove del caso, l’indeducibilità dei costi rappresentati in documenti emessi da soggetti che in tutto o in parte non hanno effettivamente posto in essere l’operazione, sarà, comunque, rilevabile per effetto delle altre disposizioni normative eventualmente applicabili e connesse ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità dei componenti negativi».
Ciò significa che ai soggetti terzi – alla cui categoria appartiene la società contribuente nel caso di spese – coinvolti nelle frodi carosello non è più contestabile, alla luce della nuova norma, la deducibitità dei costi, in quanto i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato ma, nella maggior parte dei casi, per essere commercializzati e venduti. Sicché non è più sufficiente il coinvolgimento (anche consapevole) dell’acquirente in operazioni che siano fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore perché non siano deducibili, ai fini delle imposte sui redditi, i costi relative alle predette operazioni.
Resta comunque aperto il problema della concreta deducibilità dei costi in relazione ai principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (cfr. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 10167 del 20/06/2012): ma di un siffatto accertamento non vi è traccia nel giudizio. Anche in tema di imposte dirette, così come in tema di Iva, con riferimento al tema delle fatture per operazioni (solo) soggettivamente inesistenti (differentemente che per quello delle fatture emesse in assoluta assenza di corrispondenti prestazioni commerciali) l’accertamento rigoroso dell’esigenza della tutela della “buona fede” del contribuente, è stato stemperato (sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Giustizia: cfr. sent. 6.7.2006 nelle cause riunite C-439/04 e C-440/04 e sent. 12.1.2006 nelle cause riunite C-354/03, C-355/03 e C-484/03), nel senso che in ogni caso, in funzione dei principi della tutela dell’affidamento e della certezza del diritto, l’esercizio del diritto alla detrazione dell’Iva versata a soggetto diverso dal cedente/prestatore che ha, tuttavia, emesso la fattura non può essere negato se non sulla base di oggettivi elementi presuntivi che inducano ad escludere la “buona fede” del committente/cessionario, che questi, cioè, non abbia avuto (e non abbia potuto avere, avendo in proposito adottato tutte le ragionevoli precauzioni) la consapevolezza di partecipare, con il proprio acquisto, ad illecito fiscale dell’emittente delle fatture contestate o di altro operatore intervenuto a monte nella catena di prestazioni (v. Cass. 13.3.2013, n. 6229; Cass. 23560/12, Cass. 23626/11).
Sul piano dell’onere della prova, ciò comporta che mentre spetta all’Ufficio finanziario che contesta la deduzione dimostrare, sia pure in via indiziaria, che l’operazione cui essa si riferisce è soggettivamente inesistente, spetta invece al contribuente provare di non avere avuto consapevolezza, alla luce dei principi sopra evidenziati, della rilevata falsità, trattandosi di condizione necessaria al fine di ottenere la deduzione, in applicazione alla regola generale secondo cui, essendo il costo una voce che riduce il reddito imponibile, esso deve essere provato dal contribuente e tale prova si estende a tutte le condizioni richieste dalla legge ai fini del riconoscimento della deduzione. Con l’ulteriore precisazione che tale prova non può essere validamente fornita dal privato soltanto dimostrando che la merce è stata effettivamente ricevuta e ne è stato versato il corrispettivo, trattandosi di circostanze non concludenti. La prima in quanto insita nella nozione di operazione soggettivamente inesistente, nella definizione data dalla giurisprudenza di questa Corte sopra richiamata, la seconda perché relativa ad un dato di fatto inidoneo di per sé a dimostrare l’estraneità del committente/cessionario alla frode. Tanto precisato, va detto che la sentenza impugnata non appare conforme ai principi sopra esposti. Difetta un’appropriata indagine, da condurre sulla base delle prove offerte dalle parti, sia in ordine alla dedotta inesistenza soggettiva delle operazioni contabilizzate, che con riguardo alla non consapevolezza della società acquirente in merito alla reale identità del cessionario. La Commissione tributaria, in tal caso, non può limitarsi a far proprie le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio, ove le stesse risultino immotivate, sotto tali profili, al riguardo, in quanto il potere del giudice di apprezzare il fatto non equivale ad affermare che possa farlo immotivatamente e non lo esime dalla spiegazione delle ragioni (non essendo sufficiente il maggior credito che gli eventualmente tenda a conferire al consulente d’ufficio quale proprio ausiliare) per le quali sia addivenuto ad una conclusione anziché ad un’altra (Cass. 21.3.2011, n. 6399). Nel caso di specie, a fronte delle precise e circostanziate critiche (di cui va rilevata, come già evidenziato, la decisività ai fini del giudizio) mosse dall’Agenzia delle Entrate alla risultanze della CTU, erroneamente od insufficientemente valutate, deve rilevarsi il vizio di motivazione della sentenza impugnata che non ha preso in considerazione tali censure, limitandosi a far proprie le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio, giacché il potere della commissione tributaria di apprezzare il fatto non equivale ad affermare che possa farlo immotivatamente e non lo esime, in presenza delle riferite contestazioni, dalla spiegazione delle ragioni – tra le quali evidentemente non si annovera il maggior credito che eventualmente si tenda a conferire al consulente d’ufficio quale proprio ausiliare – per le quali sia addivenuto ad una conclusione anziché ad un’altra, incorrendo, altrimenti, proprio nel vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia (cfr. Cass. 10688/2008, Cass. 4797/2007).
Pertanto la CTR in sede di rinvio nell’esaminare la questione concernente la deducibilità dei costi, in relazione alle imposte Irpeg + Ilor, dovrà attenersi al seguente principio di diritto: “In tema di imposte sui redditi, a norma dell’art. 14, comma quarto-bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, nella formulazione introdotta con l’art. 8, comma primo, DL 2 marzo 2012, n. 16, sono deducibili per l’acquirente dei beni i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti, per il solo fatto che essi sono sostenuti nel quadro di una cosiddetta “frode carosello”, anche per l’ipotesi che l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che a norma del Testo unico delle imposte sui redditi approvato con DPR 22 dicembre 1986, n. 917, siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità”.
Va, conseguentemente accolto il ricorso, cassata l’impugnata sentenza con rinvio ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Toscana; il giudice di rinvio, nel procedere all’accertamento dei fatti, dovrà attenersi ai principi di diritto sopra enunciati, esaminando anche le osservazioni e i rilievi formulati dall’Agenzia delle Entrate e si pronuncerà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

PQM

Accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza con rinvio ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Toscana che si pronuncerà anche sulle spese del giudizio di legittimità.