Corte di Cassazione sentenza n. 12699 del 20 luglio 2012
SICUREZZA SUL LAVORO – INFORTUNI SUL LAVORO E MALATTIE PROFESSIONALI – DATORE DI LAVORO – RESPONSABILITA’ – ADIBIRE MANSIONI NON USURANTI AL LAVORATORE
massima
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Il lavoratore, assunto in forza di collocamento obbligatorio come invalido civile ha diritto al risarcimento del danno nel caso in cui venisse adibito a mansioni per attività usurante.
L’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Pertanto, ai fini dell’accertamento della responsabilità del datore di lavoro, grava sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, la mancata adozione di determinate misure di sicurezza specifiche o generiche, e il nesso causale tra questi due elementi (Cass. civ., Sez. lavoro, 23/07/2004, n. 13887). Quando il lavoratore abbia provato tali circostanze grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.
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FATTO
Con sentenza del 13.4.2006, la Corte di Appello di L’Aquila respingeva l’appello proposto da (Omissis), lavoratore assunto in forza di collocamento obbligatorio come invalido civile, avverso la sentenza di primo grado che aveva rigettato il ricorso inteso ad ottenere il risarcimento del danno asseritamente patito per essere stato adibito dalla S.p.a. (Omissis) ad attività usurante.
Il rapporto di lavoro, iniziato il 25.11.1982, era stato risolto in data 5.3.1997 per permanente inidoneità allo svolgimento delle mansioni, ma, secondo la Corte del merito, né l’atto di assunzione né quello di risoluzione del rapporto consentivano di presumere che l’appellante fosse stato adibito a mansioni a lui non confacenti perché usuranti, considerato che la motivazione medica della idoneità si riferiva a disturbi psichici e non a carenze e problemi da attività usurante. Questa, peraltro, non aveva costituito oggetto di assegnazione al (Omissis), il quale non aveva provato di avere dovuto compiere sforzi intensi imputabili al datore di lavoro, che fossero stati fonte di specifici danni.
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso il (Omissis), con quattro motivi, illustrati con memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Resiste la società con controricorso.
DIRITTO
Il ricorrente premette che l’amministrazione lo aveva ritenuto idoneo solo a servizi interni, ma che, tuttavia, lo aveva adibito a servizi esterni (carico e scarico da furgoni di oggetti postali anche in turno notturno), nel corso dei quali non erano state osservate le più elementari norme di sicurezza; che, nonostante il referto dell’USL e la visita collegiale, era stato adibito comunque alle stesse mansioni e che le sue condizioni fisiche si erano aggravate. Deduce che, dopo un periodo in cui era stato dichiarato del tutto inidoneo per la durata di sei mesi e dopo ulteriore visita collegiale del 5.3.1997, nella quale il collegio medico lo aveva ritenuto permanentemente inidoneo allo svolgimento delle mansioni dell’area di appartenenza nonchè alle turnazioni, con nota del 18.3.1997, l’Amministrazione aveva risolto il rapporto di lavoro per inabilità fisica sopravvenuta e che il licenziamento non era stato impugnato; che aveva ottenuto il riconoscimento della pensioni di invalidità in quanto totalmente e permanentemente inabile a qualsiasi attività lavorativa.
Rileva il (Omissis) che il comportamento dell’amministrazione aveva comportato violazioni degli articoli 2087 e 2043 c.c. e che egli aveva diritto al risarcimento dei danni patiti per l’aggravamento delle condizioni fisiche, essendo il danno biologico in re ipsa e determinabile, in base alle tabelle del Tribunale di Milano, in lire 227.500.000, laddove il danno diretto, in considerazione delle retribuzioni percepite e dell’età anagrafica, era quantificabile in lire 47.958.742, ed il danno morale in lire 114.000.000, il tutto per complessive lire 389.458.742.
Quali motivi di ricorso per cassazione adduce:
1) Difetto assoluto di motivazione in relazione ai tre motivi di gravame, error in procedendo, violazione e falsa applicazione della Legge 2 aprile 1968, n. 482, art. 20 travisamento dei fatti e dei documenti, violazione dell’art. 2087 c.c., in relazione all’art. 2043 c.c., violazione dell’art. 91 c.p.c., assumendo che la Corte del merito non ha fatto il minimo cenno a tali riferimenti normativi e giurisprudenziali, limitandosi in motivazione ad affermare che la domanda non era sufficientemente provata, il che integrava il vizio di difetto di motivazione.
2) Mancata ammissione della c.t.u. chiesta sia in primo che in secondo grado, mancata motivazione del diniego ed error in procedendo, rilevando che era stata chiesta consulenza tecnica d’ufficio per verificare la riconducibilità dell’aggravamento al lavoro svolto e che sia il primo che il secondo giudice hanno rigettato l’istanza senza la pur minima valutazione, con ciò integrandosi un vizio che inficia la decisione.
3) Erronea ed illogica valutazione delle risultanze processuali, error in procedendo, osservando che il giudice del merito, nell’esprimere il proprio convincimento sulla insufficiente prova fornita all’appellante, non ne ha indicato le ragioni, senza affatto motivare né perché le prove fossero insufficienti, né perché fosse stata rigettata la richiesta di c.t.u.
4) Omessa o, quanto meno, insufficiente motivazione, error in procedendo, ritenendo che non sia evincibile dalla motivazione l’iter logico seguito.
Il ricorso è infondato.
Le censure risultano generiche e, nella parte in cui viene dedotta la violazione dell’art. 112 c.p.c., con riferimento alla sussistenza di un error in procedendo in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, risultano prive della formulazione di un quesito di diritto, che, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. – applicabile ratione temporis alla presente controversia – doveva seguire alla deduzione del vizio prospettato, con la precisazione di quale fosse la questione sulla quale il giudice aveva omesso di pronunciare (cfr. Cass. 21.2.2011 n. 4146).
Le censure si risolvono, peraltro, in una critica affatto generica all’iter motivazionale seguito dal primo giudice, senza specificare in che modo le omissioni dedotte si siano risolte in un vizio decisivo della pronunzia. Ed invero, come affermato ripetutamente da questa Corte, il ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi di motivazione della sentenza, impugnata a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, deve contenere – in ossequio al disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 4, che per ogni tipo di motivo pone il requisito della specificità sanzionandone il difetto – la precisa indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di essa censurato, ovvero la specificazione d’illogicità, consistenti nell’attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi. Ond’è che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all’opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame. Diversamente, si risolverebbe il motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito; cui, per le medesime considerazioni, neppure può imputarsi d’aver omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacchè né l’una né l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa all’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo (cfr., in tali termini, Cass. 23.5.2007 n. 12052; v. anche Cass., s. u., 12.5.2008 n. 11652 e 18.6.2008 16528).
Quanto alle asserite violazioni di legge, la sentenza impugnata è partita da una corretta interpretazione dell’art. 2087 c.c., secondo la quale la responsabilità del datore di lavoro per violazione dell’obbligo di tutela della salute del dipendente, sancito dall’art. 2087 c.c., non ha natura oggettiva, rilevando che l’onere della prova del nesso causale tra danno ed inadempimento resta a carico del lavoratore, mentre il datore di lavoro può liberarsi solo dimostrando la non imputabilità dell’evento. Ed invero, il carattere contrattuale dell’illecito e l’operatività della presunzione di colpa stabilita dall’art. 1218 c.c. non escludono che la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c. in tanto possa essere affermata in quanto sussista una lesione del bene tutelalo che derivi casualmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento, imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche. Peraltro, neanche la verificazione dell’evento lesivo sarebbe di per sé sufficiente per far scattare a carico dell’imprenditore l’onere probatorio di aver adottato ogni sorta di misura idonea ad evitare l’evento, atteso che la prova liberatoria a suo carico presuppone sempre la dimostrazione, da parte dell’attore, che vi è stata omissione nel predisporre le misure di sicurezza necessarie ad evitare il danno e non può essere estesa ad ogni ipotetica misura di prevenzione, a pena di far scadere una responsabilità per colpa in una responsabilità oggettiva (ex plurimis, Cass. 17.5.2006 11523; Cass. 23 luglio 2004 n. 13887, Cass. 12 luglio 2004 n. 12863).
Quanto al rilievo dell’immotivato diniego di ammissione di c.t.u. medico legale vale osservare, in conformità a quanto affermato da questa Corte in numerose pronunzie, che la stessa è un mezzo istruttorio (e non una prova vera e propria) sottratto alla disponibilità delle parti ed affidato al prudente apprezzamento del giudice del merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario giudiziario e che la motivazione dell’eventuale diniego può anche essere implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato effettuata dal suddetto giudice (cfr., tra le altre, Cass. 2.3.2006 n. 4660, Cass. 5.7.2007 n. 15219 e Cass. 21.4.2010 n. 9461).
Alla stregua di tutte tali considerazioni, il ricorso deve essere respinto e le spese di lite del presente giudizio – determinate nella misura di cui in dispositivo – seguono la soccombenza del ricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il (Omissis) al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 40,00 per esborsi, euro 2.500,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA.
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