CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 maggio 2013, n. 13240
Lavoro – Previdenza e assistenza – Contributi assicurativi – Omesso versamento – Socio di una società a nome collettivo – Responsabilità per mancato versamento dei contributi posteriori al suo recesso – Mancato adempimento della comunicazione all’ente previdenziale – Sussiste.
Svolgimento del processo
Con sentenza del 5 luglio 2007 la Corte di appello di Palermo rigettava il gravame proposto da S. G. avverso la sentenza che aveva respinto l’opposizione al decreto ingiuntivo recante l’intimazione di pagamento all’INPS della somma di lire 62.802.615 per contributi previdenziali dovuti in relazione al periodo 1.12.94-31.5.95 dalla s.n.c. “M. Primario Timbrificio M.”.
La Corte di appello riteneva tardiva l’eccezione di inefficacia del decreto ingiuntivo (eccezione sollevata dall’opponente sulla base del rilievo che il decreto era stato notificato oltre il termine previsto dall’art. 644 cod. proc. civ.), in quanto non formulata con il ricorso in opposizione, ma solo in sede di note autorizzate del 24.11.2003. Respingeva il secondo motivo di impugnazione con cui lo S. aveva censurato la sentenza di primo grado nella parte in cui non era stata ritenuta sufficiente, ai fini dell’adempimento degli obblighi di comunicazione del recesso dell’opponente dalla società in nome collettivo, la registrazione dell’atto di cessione di quote presso la Cancelleria del Tribunale; osservava la Corte di appello che l’art. 2 legge n. 467/78, che impone la comunicazione agli enti gestori di forme di previdenza obbligatorie degli eventi riguardanti la sospensione, la variazione e la cessazione dell’attività, costituiva norma speciale e prevalente rispetto all’art. 2290 cod. civ.. Respingeva infine il terzo motivo di gravame, vertente sulla carenza di prova del credito, osservando che lo S. non aveva eccepito alcunché nell’atto di opposizione in ordine all’esistenza e all’entità del credito intimato e che, di conseguenza, questo doveva ritenersi incontestato.
Per la cassazione di tale sentenza propone ora ricorso S. G. che formula tre motivi di censura. L’INPS resiste con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 414 e 416 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n.3, per avere la Corte territoriale fatto erronea applicazione – in relazione all’eccezione di inefficacia del decreto ingiuntivo – delle preclusioni e decadenze previste per il convenuto, mentre all’opponente, attore formale, doveva essere applicato il regime di cui all’art. 414 cod. proc. civ., con la conseguenza che doveva ritenersi tempestiva l’eccezione formulata in sede di note autorizzate.
Il motivo è infondato.
La soluzione adottata dai giudici di appello è conforme al costante orientamento interpretativo di questa Corte che in diverse occasioni ha affermato che l’atto di opposizione a decreto ingiuntivo proposto dall’opponente, che ha la veste sostanziale di convenuto, deve avere il contenuto della memoria difensiva ai sensi dell’art. 416 cod. proc. civ. e, quindi, l’opponente deve compiere tutte le attività previste a pena di decadenza, quali le eccezioni processuali e di merito, non rilevabili d’ufficio, e le domande riconvenzionali, oltre ad indicare i mezzi di prova e produrre i documenti, non diversamente da quanto è previsto per ogni convenuto nel rito del lavoro; parimenti, l’atto di costituzione dell’opposto è riconducibile, piuttosto che allo schema della memoria difensiva, a quella di un atto integrativo della domanda azionata con la richiesta di decreto ingiuntivo, sicché l’opposto ha l’onere di proporre con essa tutte le deduzioni e le eccezioni intese a paralizzare i fatti estintivi e modificativi dedotti dall’opponente o le pretese avanzate dall’opponente in via riconvenzionale e ad indicare i mezzi di prova a loro sostegno (Cass. n.13467 del 2003, n.1458 del 2005, n.20118 del 2004, n.17494 del 2009).
Pertanto, era onere dell’opponente formulare nell’atto introduttivo del giudizio tutte le eccezioni processuali non rilevabili d’ufficio, quale l’eccezione di inefficacia del decreto ingiuntivo.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2 legge n. 467/1978, dell’art. 2290 cod. civ., secondo comma, e dell’art. 2300 cod. civ., in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n.3, per avere la Corte di appello ritenuto, in relazione ai contributi per i lavoratori dipendenti dovuti per il periodo 1.12.1994-31.5.1995, la responsabilità del ricorrente quale socio illimitatamente responsabile per i debiti della società in nome collettivo, pur essendo egli receduto dalla qualità di socio sin dal dicembre 1987, con atto portato a conoscenza dei terzi mediante annotazione e trascrizione eseguite il 10.12.1987 presso la Cancelleria del Tribunale di Palermo e comunicazione alla Camera di Commercio. La disposizione di cui all’art. 2290 cod. civ. prevede che il socio receduto non risponda delle obbligazioni sociali assunte dopo il suo recesso, quando il recesso stesso sia stato oggetto di idonea pubblicità o comunque, anche in assenza di pubblicità adeguata, quando il recesso sia opponibile ai creditori sociali che del recesso fossero informati di fatto o non fossero informati per loro colpa. Nel caso di specie, il ricorrente aveva provveduto, con idonea pubblicità, a rendere noto il proprio atto di recesso nelle forme di cui all’art. 2290 cod. civ., secondo comma, a nulla rilevando l’adempimento di cui all’art. 2 legge 467/1978 – che prevede la comunicazione agli enti ivi previsti degli atti riguardanti la “cessazione, variazione o sospensione dell’attività” della società, ossia unicamente le informazioni relative all’attività di impresa – non riferibile agli eventi (come il recesso di un socio) attinenti alla struttura della società. In ogni caso, il mancato adempimento dell’obbligo di comunicazione non può avere altro effetto che l’irrogazione della sanzione amministrativa ivi prevista. Peraltro, l’INPS era a conoscenza – o comunque era in grado di conoscere con l’ordinaria diligenza – dell’evento riguardante la posizione dello S., il quale in data 22.12.1987, dopo il proprio recesso dalla società, si era iscritto alla Camera di commercio come imprenditore artigiano individuale; stante la non cumulabilità di tale inquadramento con la posizione di socio, la suddetta iscrizione doveva costituire prova presuntiva della conoscenza, da parte dell’INPS, dell’avvenuto recesso ai sensi dell’art. 2300 cod. civ., ultimo comma, o altrimenti di una colpevole ignoranza dell’evento ex art. 2290 cod. civ., secondo comma.
Il motivo è infondato.
Come è noto, per la società in nome collettivo vale il principio generale che tutti i soci rispondono solidalmente ed illimitatamente per le obbligazioni sociali, senza che il patto contrario abbia effetto nei confronti dei terzi (art. 2291 cod. civ.). Di conseguenza il socio, ai sensi dell’art. 2291 cod. civ., risponde solidalmente nei confronti dell’INPS dei debiti nascenti dall’inottemperanza agli oneri contributivi della società conseguenti all’esercizio della sua attività. Nel caso di scioglimento della società il socio che ceda la propria quota risponde, nei confronti dei terzi, delle obbligazioni sociali sorte fino al momento in cui la cessione sia stata iscritta nel registro delle imprese o fino al momento (anteriore) in cui il terzo sia venuto a conoscenza della medesima (artt. 2290 e 2300 cod. civ.).
La perdita della qualità di socio nella società di persone (in conseguenza di recesso, esclusione, cessione della partecipazione) integrando modificazione dell’atto costitutivo della società (cfr. per la società in nome collettivo: art. 2295 cod. civ., n. 1), è soggetta ad iscrizione nel registro delle imprese (che deve essere richiesta, entro trenta giorni, dall’amministratore, ovvero, se quest’ultimo non provveda, da ciascun socio, il quale può anche limitarsi a chiedere la condanna dell’amministratore ad eseguirla, ex art. 2300 cod. civ., comma 1, e ex art. 2296 cod. civ.) a pena di inopponibilità ai terzi, a meno che si provi che questi ne fossero a conoscenza (art. 2300 cod. civ., comma 3). Il regime di cui agli artt. 2290 e 2300 cod. civ., in forza del quale il socio di una società in nome collettivo che ceda la propria quota risponde, nei confronti dei terzi, delle obbligazioni sociali sorte fino al momento in cui la cessione sia stata iscritta nel registro delle imprese o fino al momento (anteriore) in cui il terzo sia venuto a conoscenza della medesima, è di generale applicazione, non riscontrandosi alcuna disposizione di legge che ne circoscriva la portata al campo delle obbligazioni di origine negoziale con esclusione di quelle che trovano la loro fonte nella legge (Cass. n. 20447 del 2011, che richiama sez. lav. 12.4.2010 n. 8649 – con riferimento all’obbligo di fonte legale relativo al versamento di contributi previdenziali).
Tale disciplina attiene agli obblighi relativi ai rapporti tra la società e i terzi, con specifico riferimento alla pubblicità degli atti modificativi del rapporto sociale o dell’atto costitutivo ai fini della opponibilità ai terzi; attiene quindi allo svolgimento dell’attività sociale, in attuazione dell’oggetto sociale. Diversamente la legge n. 467 del 1978 attiene al rapporto previdenziale tra un determinato soggetto e l’INPS, prevedendo – all’art. 2 – l’obbligo, gravante sul datore di lavoro (titolare o legale rappresentante dell’impresa), di denuncia e di comunicazione all’Istituto di ogni ipotesi di sospensione, variazione o cessazione dell’attività. Sebbene l’INPS sia certamente un terzo rispetto ai rapporti sociali, non per ciò solo può escludersi che una forma particolare di pubblicità possa essere contemplata da una norma speciale onde agevolare la funzione del recupero contributivo facente capo agli enti previdenziali.
L’art. 2 del decreto legge 6 luglio 1978 n. 352, conv. con modificazione nella legge n. 467/1978 (Cessazione, variazione o sospensione di attività) prevede, che “in caso di sospensione, variazione o cessazione della attività, il titolare o il legale rappresentante dell’impresa sono tenuti a farne comunicazione, entro trenta giorni, alla camera di commercio,industria, artigianato ed agricoltura e agli enti previdenziali gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie nei cui confronti è sussistito il relativo obbligo assicurativo. In caso di mancato adempimento è dovuta a ciascuno degli enti nei cui confronti si è verificata l’omissione la somma di lire 100.000 a titolo di sanzione amministrativa” .
L’obbligo di comunicazione grava sul datore di lavoro e dunque, sul titolare o sul legale rappresentante dell’impresa. Nel caso di specie, non è contestato che lo S. fosse tenuto all’obbligo di comunicazione di cui si discute e dunque che l’omissione di comunicazione fosse a lui imputabile. Il mancato adempimento, se può dare luogo a sanzioni amministrative in capo al legale rappresentante della società che non abbia provveduto alla comunicazione, non risolve ancora la questione se in caso di mancata comunicazione possa ritenersi non integrata la forma di pubblicità adeguata occorrente ai fini dell’esonero dall’obbligazione contributiva che si assume gravante sullo S., quale socio illimitatamente responsabile.
Dai lavori parlamentari relativi alla conversione in legge del decreto 6 luglio 1978 n. 352, concernente norme per l’attuazione del collegamento tra le anagrafi delle aziende e per il completamento del casellario centrale dei pensionati, risulta che il provvedimento ha come “principale obiettivo la realizzazione di anagrafi aziendali integrate tra le varie amministrazioni interessate e il completamento del casellario centrale dei pensionati”; esso “per una efficace individuazione e repressione delle evasioni contributive, si propone di realizzare, in una strategia a tempi brevi, una omogenea base di confronto tra le anagrafi ora esistenti…”, essendo stato evidenziato che “la molteplicità delle anagrafi e l’assenza di specifici collegamenti fra i vari enti comporta, oltre ad altri inconvenienti, la possibilità di ampie fasce di evasione, soprattutto parziale, nel senso che le aziende possono iscriversi all’uno e non agli altri enti anzidetti, ovvero denunciare ai fini contributivi retribuzioni differenziate ai vari enti”.
Se dunque la funzione del complessivo intervento legislativo è quella di agevolare i riscontri incrociati tra i vari enti previdenziali attraverso la realizzazione di anagrafi aziendali integrate tra le diverse amministrazioni, per una più efficace lotta all’evasione contributiva, l’interpretazione dell’art. 2 d.l. 352/78, laddove fa cenno alla “sospensione, variazione o cessazione dell’attività” rientranti nell’obbligo di comunicazione, allude a tutti gli eventi rilevanti nel rapporto assicurativo con l’Istituto, introducendo quindi una speciale comunicazione limitata all’ambito di tale rapporto, che si aggiunge alla forma di pubblicità comune per l’opponibilità ai terzi degli eventi riguardanti la società in nome collettivo. In altri termini art. 2 del D.L. n. 352/1978, convertito in Legge n. 467/1978 introduce una forma di comunicazione, nel rapporto con gli enti previdenziali, in difetto della quale l’evento non è opponibile all’ente medesimo, non potendosi a questo imputare la possibilità di conoscere aliunde variazioni incidenti sul rapporto assicurativo, laddove vi sia un obbligo informativo rimasto inadempiuto gravante sull’assicurato.
E’ dunque anche possibile che il socio receduto possa essere chiamato a rispondere di debiti contratti successivamente alla sua fuoriuscita dalla società. Il disposto dell’art. 2290 cod. civ., comma 2, a tenor del quale la fuoriuscita dalla compagine del socio deve essere portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, essendo altrimenti inopponibile a quelli che l’abbiano senza colpa ignorata, comporta che in mancanza di adeguate forme di pubblicità della cessazione del rapporto societario, questo continua ad operare, in relazione ai terzi, dando luogo a un’ipotesi di scuola di responsabilità senza debito (cfr. Cass. n. 525 del 2011).
Neppure può ritenersi che l’omissione de qua non preveda altra conseguenza che la sanzione amministrativa, avendo questa Corte già avuto modo di rilevare che, in caso di omessa comunicazione delle variazioni, la sanzione amministrativa comminata dall’art. 2 del d.l. n. 362 del 1978 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 467 del 1978) non esaurisce gli effetti dell’omissione stessa (Cass. 13383 del 2008), in quanto gli oneri di comunicazione assolvono la funzione di assicurare la corrispondenza tra le variazioni delle attività delle società e le relative iscrizioni presso l’Istituto previdenziale.
Costituisce, invece, questione nuova – e come tale inammissibile – la prospettata conoscenza da parte dell’INPS (o la possibilità di conoscere con l’ordinaria diligenza) che lo S. si era iscritto alla camera di commercio come imprenditore artigiano individuale, iscrizione da cui poteva trarsi la presunzione dell’avvenuto recesso dalla società ai sensi dell’art. 2300 cod. civ., ultimo comma, o altrimenti di una colpevole ignoranza dell’evento ex art. 2290 cod. civ., secondo comma.
Qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 12 luglio 2005 n. 14599 e n. 14590; n.25546 del 30 novembre 2006; n. 4391 del 26 febbraio 2007; n. 20518 del 28 luglio 2008; n. 5070 del 3 marzo 2009).
Con il terzo motivo si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. e dell’art. 635 cod. proc. civ. (art. 360 cod. proc. civ., n. 3) per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto incontestato il credito in quanto le eccezioni di parte opponente erano state formulate in sede di note autorizzate, omettendo di considerare che era l’INPS a dovere fornire tempestivamente la prova dei crediti vantati in via monitoria.
Il motivo è infondato. Nella sentenza impugnata è stato rilevato che nulla era stato eccepito nell’atto di opposizione circa l’esistenza e l’entità del credito e che pertanto questo doveva ritenersi incontestato. Tale soluzione è coerente con l’orientamento di questa Corte riferito con riguardo al primo motivo, secondo cui nel rito del lavoro l’atto di opposizione a decreto ingiuntivo proposto dall’opponente, che ha la veste sostanziale di convenuto, deve avere il contenuto della memoria difensiva ai sensi dell’art. 416 cod. proc. civ.. Di conseguenza, l’opponente ha l’onere di articolare la propria difesa secondo quanto previsto dall’art. 416 cod. proc. civ., terzo comma, così prendendo specifica posizione in ordine ai fatti allegati dall’attore; la mancanza di una tempestiva e specifica contestazione consente al giudice di ritenere tali fatti come ammessi, mentre l’allegabilità di fatti nuovi oltre tale termine significherebbe compromettere il sistema delle preclusioni sul quale il rito del lavoro si fonda e la funzione di affidare agli atti introduttivi del giudizio la cristallizzazione dei temi controversi e delle relative istanze istruttorie. Ne consegue, venendo al caso in esame, che gravava sullo S. l’onere di sollevare tempestivamente in sede di opposizione tutte le eccezioni in ordine alla esistenza e alla entità del credito.
Il ricorso va dunque respinto con compensazione delle spese del presente giudizio, in considerazione della mancanza di precedenti specifici sulla questione di cui al secondo motivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio.
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