CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 maggio 2013, n. 13642
Società di persone fisiche – Società in nome collettivo – Rapporti tra soci – Divieto di concorrenza – Esercizio non abusivo di diritti e facoltà spettanti al socio anche estranei ai rapporti sociali – Motivo di esclusione ex art. 2286 cod. civ. – Inconfigurabilità – Fattispecie in tema di divieto di concorrenza
Svolgimento del processo
Con citazione notificata l’8.11.1995 G. A. ha impugnato innanzi al Tribunale di Oristano la delibera assunta in data 18.9.1995 dalla società F. s.n.c. che ne aveva disposto l’esclusione dalla compagine sociale in ragione della sua asserita inadempienza allo scopo sociale, deducendone nullità in plurimi profili: perché adottata senza la sua previa convocazione, perché non adeguatamente motivata, per insussistenza degli addebiti. Rilevata la sussistenza dei fatti ascritti all’attore posti a base della delibera e la loro gravità, segnatamente ritenuta acquisita la prova che l’A. aveva continuativamente ed ininterrottamente lavorato anche al di fuori della società, e si era fatto sostituire dal padre, remunerandolo, per l’attività manuale che rientrava tra i suoi compiti, rendendosi altresì irreperibile per 12 giorni consecutivi, il Tribunale adito con sentenza n. 339/2004 ha rigettato la domanda. L’A., deducendo la mancanza di prova dei fatti assunti a fondamento della statuizione gravata, ha proposto impugnazione innanzi alla Corte d’appello di Cagliari che con sentenza n. 87 depositata il 19.3.2007, disponendone l’accoglimento, ha dichiarato la nullità dell’opposta delibera.
Avverso questa decisione hanno proposto ricorso per cassazione la società F. s.n.c ed i soci F. M. e G. M. in base a due motivi. L’intimato non ha spiegato difesa.
Motivi della decisione
1.- La ricorrente denuncia col primo motivo la violazione dell’art. 2286 C.C. in cui sarebbe incorsa la Corte del merito e correlato vizio di motivazione che risiederebbe nell’asserita irrilevanza dell’attività prestata dal socio A. presso altra impresa, non concretante divieto di concorrenza di cui all’art. 2301 c.c.; nell’affermata presenza presso la società del predetto, non inferiore a quella degli altri soci; nella ritenuta assenza di prova circa la sua ridotta partecipazione all’attività sociale secondo i calendari prestabiliti, da reputarsi inesistenti in assenza della loro produzione in atti; nell’affermata inesistenza del divieto statutario di sostituzione del socio d’opera, peraltro ritenuta non concretante violazione dell’obbligo sociale in ragione del fatto che il predetto dava il suo contributo nei giorni festivi e prefestivi; nel fatto che la legge reg. n. 28/84 che detta provvedimenti urgenti per favorire l’occupazione non rileva nell’ambito dei rapporti interni alla società; nell’asserita esclusione del carattere arbitrario dell’assenza del socio per 12 giorni consecutivi. La Corte del merito non avrebbe considerato che l’esclusione deliberata a carico dell’A. si fonda sulla violazione non già del divieto di concorrenza ma degli obblighi sociali da esso assunti previsti dall’art. 8 dello statuto sociale che lo impegnavano nella società a tempo pieno. Il suo impegno paritario a quello degli altri soci sarebbe stato desunto dalla deposizione del teste D. che genericamente riferì d’aver visto l’A. recarsi in azienda, a volte con la frequenza degli altri, a volte più sporadicamente, dunque generica. Risulterebbe carente la motivazione in ordine all’esclusione della gravità dei fatti ed il fatto che la sostituzione pregiudicava la società, costituita per mettere a frutto la specifica esperienza di allevatori dei soci e violava le nome sul collocamento risultando il padre dell’A. remunerato al nero dal predetto per l’attività prestata in sua sostituzione.
Il quesito di diritto chiede se nell’ambito di società agricola costituita tra tre soci al fine di garantire loro occupazione permanente e giusta remunerazione, che si siano obbligati a prestare la propria opera personale, costituisca grave inadempimento ai sensi dell’art. 2286 c.c. la condotta di colui che presta attività lavorativa al di fuori della società facendosi sostituire da altri di sua fiducia, impedendo o rendendo più gravoso il raggiungimento dello scopo sociale, inserendo in azienda prestatore d’opera in violazione di norme sul lavoro e previdenziali, è suscettibile di arrecare danno economico.
Il motivo per un verso è infondato per altro verso è inammissibile. È infondato laddove la ricorrente, allegando il danno arrecatole dalle prestazioni eseguite al di fuori dell’ambito sociale dall’A., ne predica compromissione dei diritti ai quali non può ritenersi che il predetto abbia abdicato per la sua mera assunzione della qualità di socio, e dell’obbligo di buona fede nell’adempimento delle obbligazioni che derivano dal contratto di società. Secondo l’enunciato espresso nella sentenza di questa Corte n. 29776/2008, cui in piena condivisione s’intende in questa sede dare continuità, il socio di una società collettiva ha il diritto di avvalersi dei suoi diritti e facoltà, seppur derivino da rapporti estranei al contratto sociale, anche se possano in ipotesi rivelarsi lesivi dell’interesse della società. Altra e diversa questione sarebbe se dalla contrarietà dell’esercizio di tali diritti all’interesse della società si volesse ricavare la prova del dolo del socio e quindi dell’abuso del diritto, ipotesi però non prospettata dalla ricorrente. È inammissibile il motivo laddove induce all’evidenza alla rivisitazione delle condotte ascritte all’A., per inferirne quel requisito di gravità legittimante l’adozione della delibera contestata che la Corte del merito ha invece escluso sulla scorta dell’apprezzamento delle circostanze in cui si sono concretate, da cui ne ha desunto o che non erano previste in statuto quali cause di esclusione, ovvero non concretavano addebiti connotati da gravità legittimante l’esclusione dalla compagine sociale – lavoro presso altra azienda, sostituzione da parte del padre, assenza arbitraria per 12 giorni. Il puntuale tessuto motivazionale che rende conto del percorso critico che ne sorregge la conclusione sottrae la decisione al sindacato percorribile in questa sede, che preclude la rilettura della vicenda di fatto, la cui valutazione è demandata al solo giudice del merito, il motivo merita pertanto il rigetto.
2.- La ricorrente deducendo violazione degli artt. 112, 278 e 345 c.p.c. in relazione all’art. 2697 c.c. ascrive alla Corte del merito d’aver erroneamente pronunciato nei propri confronti condanna generica al risarcimento danni ancorché la domanda fosse stata introdotta solo in appello, e dunque ne fosse stata eccepita l’inammissibilità essendo stata nell’atto di citazione chiesta la liquidazione nella misura da accertarsi in giudizio. Il quesito di diritto chiede se nel caso in cui sia stata chiesta la liquidazione del danno nello stesso processo e quindi sia stata chiesta condanna generica senza il consenso del convenuto, il giudice dell’appello possa provvedere ovvero debba rigettare la domanda originaria per mancanza di prova.
Il motivo espone censura priva di fondamento. Occorre rilevare anzitutto che, secondo le conclusioni trascritte nella sentenza del Tribunale di Oristano, la domanda di danni formulata dall’A. ne prevedeva la liquidazione anche in separato giudizio, dunque con condanna generica (3 “danni da liquidarsi a mezzo c.t.u., in via equitativa dal giudice, o in subordine in separato giudizio”). In simile evenienza, formulata dall’attore in via originariamente alternativa la domanda di risarcimento danni con richiesta di condanna generica limitata all’ “an debeatur”, “al convenuto è riconosciuta la sola facoltà di opposizione alla richiesta di condanna generica, con conseguente onere dell’attore di dare dimostrazione della esistenza del danno, e conseguente divieto, per il giudice, di rimessione ad un separato giudizio della determinazione del “quantum” (Cass. n. 85/1999 ribadita da Cass. n. 25510/2010). Ritualmente proposta dall’appellante in sede di gravame, la domanda, cui la società neppure allega essersi opposta in primo grado, è stata per l’effetto esaminata e quindi decisa dalla Corte distrettuale nel pieno rispetto del principio devolutivo.
Merita analoga sorte il terzo motivo che denuncia ancora violazione degli artt. 112, 278 e 345 c.p.c. in relazione all’art. 2697 c.c. sull’assunta incompatibilità della domanda di condanna generica subordinata a quella di risarcimento danni proposta in via principale e formula quesito di diritto che chiede proposta in via principale domanda che comprende “an” e “quantum” sia consentita la subordinata con richiesta di condanna generica. La facoltà esercitata dall’A. di proporre in alternativa domanda estesa sia all’ “an” che al “quantum” ovvero di condanna generica, consentita alla stregua del citato orientamento, esclude il rapporto di subordinazione tra le domande evocato dalla ricorrente sulla scorta della lettera di quelle conclusioni correttamente interpretate dai giudici del merito di diverso tenore, che, secondo risalente orientamento (Cass. n. 7847/1998), che ne avrebbe comportato l’ incompatibilità. Suddetta alternativa posta ab origine nell’atto introduttivo del giudizio, cui, giova ribadire, non risulta si sia opposta la società convenuta che riferisce la sua eccezione alla sola fase d’appello, ha dunque consentito al giudice di pronunciarsi direttamente sulla domanda di condanna generica, senza necessità di ulteriori precisazioni in tal senso. Tutto ciò premesso deve disporsi il rigetto del ricorso senza dar luogo alle spese del presente g d’attività difensiva dell’intimato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
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