Corte di Cassazione sentenza n. 13705 del 31 luglio 2012
LAVORO SUBORDINATO – LICENZIAMENTO COLLETTIVO – RIDIMENSIONAMENTO DEL COMPLESSO AZIENDALE – UNITA’ PRODUTTIVA DA SOPPRIMERE – MOBILITA’ – COMPARAZIONE DELLE POSIZIONI LAVORATIVE RELATIVE ALL’INTERA AZIENDA
massima
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Deve considerarsi illegittima ed arbitraria la scelta del datore di lavoro di collocare in mobilità i dipendenti appartenenti ad un singolo settore produttivo, anche se soppresso o ridotto. Ai sensi della L. 223/1991 l’individuazione dei lavoratori interessati deve avvenire tenendo conto delle esigenze tecnico-produttive dell’intero complesso aziendale, mentre la limitazione ad un unico settore è possibile solo quando i motivi dell’esubero e le ragioni per cui lo stesso non può essere assorbito conducono a limitare la scelta dei dipendenti.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.- Con ricorso al giudice del lavoro di Milano De G. S., G. V., M. S. e S. M., assieme ad altri colleghi di lavoro non interessati dalla presente pronunzia, premesso di essere stati dipendenti di P. s.p.a., impresa meccanica produttrice di macchinari destinati alla produzione di paste alimentari, addetti allo stabilimento di P.D., esponevano che in data 24.07.02 la società aveva comunicato l’intenzione di avviare una procedura di riduzione del personale ex art. 24, c. 2, della L. 23.07.91 n. 223 a seguito della decisione adottata dai vertici aziendali di chiudere lo stabilimento. Essendo stati tutti licenziati in data 7.10.02, all’esito della procedura di consultazione sindacale, i predetti impugnavano il licenziamento loro irrogato, chiedendo che ne venisse dichiarata l’illegittimità, atteso che la riduzione del personale non era stata causata da cessazione dell’attività di impresa, ma dalla chiusura di solo uno dei quattro stabilimenti P. s.p.a. Prima del licenziamento il datore di lavoro avrebbe dovuto, quindi, estendere la procedura di riduzione del personale a tutto il complesso aziendale e verificare se fosse possibile il ricorso a misure alternative ai licenziamenti, eventualmente destinando i lavoratori dello stabilimento milanese agli altri stabilimenti.
2.- Accolta la domanda e proposto appello da P. s.r.l. (succeduta a P. s.p.a.), la Corte d’appello di Milano, dichiarata cessata la materia del contendere quanto agli altri lavoratori oggi non interessati per intervenuta conciliazione in sede sindacale, con sentenza del 1° ottobre 2008 accoglieva l’impugnazione e rigettava la domanda di De G., G., M. e S.. Rilevava la Corte che la scelta imprenditoriale di chiudere lo stabilimento di P. D. nasceva dall’esigenza di ridimensionare l’attività produttiva e di contenere i costi, particolarmente alti in quell’unità. La possibilità di estendere la procedura di mobilità anche agli altri stabilimenti era solo teorica, atteso che gli stessi erano ubicati in altre regioni ed a grande distanza da quello oggetto di chiusura, di modo che era ragionevole la scelta di procedere direttamente al licenziamento degli addetti all’unità in questione, anche perché all’esito della procedura di consultazione le stesse oo.ss. avevano dato per scontato che il licenziamento fosse l’unica misura da adottare, escludendo l’alternativa di una selezione che interessasse tutti i dipendenti dell’impresa.
3.- Contro questa sentenza ricorrono per cassazione De G., G., M. e S.. Si difende con controricorso e memoria P. s.r.l.
MOTIVI DELLA DECISIONE
4.- Parte ricorrente deduce i seguenti motivi di ricorso.
4.1.- Primo motivo: violazione dell’art. 24, c. 1, della L. 23.07.91 n. 223. I ricorrenti sia in primo che in secondo grado avevano dedotto che non ricorreva la fattispecie della cessazione dell’attività imprenditoriale (prevista dal c. 2 dell’art. 24), ma quella diversa della riduzione o trasformazione dell’attività, con la conseguenza che lo schema normativo e di consultazione da adottare avrebbe dovuto essere quello del c. 1, e non del c. 2, dell’art. 24 della legge n. 223 del 1991. Il giudice di appello, tuttavia, non solo non ha affrontato questa questione di diritto, ma neppure ha considerato che le due situazioni (cessazione e riduzione) sono ontologicamente diverse e che la scelta di avviare la procedura ai sensi del c. 1° o 2° dell’art. 24 non è rimessa alla libera determinazione del datore di lavoro, ma è vincolata alla concreta fattispecie che ha determinato l’insorgere della crisi occupazionale (trasformazione o riduzione di attività ovvero cessazione di attività). La Corte d’appello ha ritenuto, invece, che fosse indifferente avviare la procedura ai sensi dell’uno o dell’altro comma, in ragione del comune richiamo agli artt. 4 e 5 della legge n. 223.
4.2.- Secondo motivo: violazione dell’art. 4, c. 3, della L. 23.07.91 n. 223 sotto il profilo della mancata indicazione dei motivi ostativi a misure idonee ad evitare la crisi occupazionale. Nel caso di specie la comunicazione di avvio della procedura non contiene i requisiti previsti dall’art. 4, c. 3, avendo omesso di indicare i motivi tecnici, organizzativi o produttivi ostativi all’adozione di misure alternative alla dichiarazione di mobilità, ritenendo sufficiente indicare che l’adottata decisione di chiusura dello stabilimento impediva di “adottare alcuna misura idonea a porre rimedio all’eccedenza ed evitare – in tutto o in parte – il ricorso alla precedente procedura”, senza invece indicare specificamente le motivazioni oggettive che avrebbero impedito misure idonee ad evitare (o ridurre) il licenziamento dei lavoratori in esubero. Così facendo il datore si è limitato ad indicare i motivi che determinavano la situazione di eccedenza e si è sottratto al compito di occuparsi degli effetti della crisi occupazionale, in tal modo vanificando lo scopo della procedura di annullarne o ridurne gli effetti.
4.3.- Terzo motivo: violazione dell’art. 4, c. 3, della L. 23.07.91 n. 223 sotto il profilo della mancata indicazione delle eccedenze riscontrate. Il datore di lavoro si è limitato ad indicare alle OO.SS. profili professionali, collocazione aziendale e numero dei dipendenti eccedenti nello stabilimento milanese e nelle altre tre unità produttive, adottando fin dall’inizio la scelta di far ricadere sui primi gli effetti della riduzione del personale, senza che nel corso della procedura potessero concordarsi soluzioni alternative; cosa che sarebbe stata, invece, possibile attesa l’identità dei profili professionali degli addetti all’unità milanese con quelli degli addetti alle altre unità produttive.
4.4.- Quarto motivo: violazione dell’art 5, c. 1, della L. 23.07.91 n. 223, per il quale i lavoratori da collocare in mobilità debbono essere individuati in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso attendale, nel rispetto della contrattazione collettiva o, in mancanza, nel rispetto, in concorso tra loro, dei seguenti criteri: carichi di famiglia, anzianità, esigenze tecnico-produttive ed organizzative. Nel caso di specie i criteri di scelta sono stati applicati ad una sola unità produttiva e non all’intero complesso aziendale, pretermettendo i criteri ed. sociali (carichi di famiglia ed anzianità) e assegnando esclusivo rilievo all’appartenenza all’unità produttiva di cui era stata decisa la chiusura. Invece, è arbitraria ogni delimitazione dell’area di scelta dei dipendenti da licenziare, anche nel caso di appartenenza degli stessi ad unico reparto da sopprimere, dovendo la posizione degli stessi essere comunque posta a confronto con quella degli altri dipendenti che svolgano mansioni identiche.
4.5.- Quinto motivo: omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa la ritenuta riferibilità alla sola attività produttiva di P. D. delle ragioni che avrebbero determinato la situazione di eccedenza, atteso che contraddittoriamente la stessa Corte d’appello ritiene che le stesse ragioni siano comuni a tutte e quattro le unità produttive costituenti il complesso aziendale.
4.6.- Sesto motivo: omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa l’esistenza di un tacito consenso del sindacato, espresso in sede di esame congiunto, a concentrare i licenziamenti nell’unità produttiva milanese, atteso che dalla documentazione e dagli atti di causa emergeva che il sindacato (o, per meglio dire, una parte di esso) aveva chiesto che i dipendenti dello stabilimento venissero trasferiti presso le altre unità produttive.
5.- Procedendo all’esame dei primi quattro motivi di ricorso, deve osservarsi preliminarmente che il giudice di merito ha accertato in fatto che il licenziamento collettivo deriva dalla decisione imprenditoriale di chiudere lo stabilimento di P. D., quale conseguenza di una serie di valutazioni di carattere economico-aziendale derivanti dai riscontri effettuati sulla incidenza dei costi di produzione dello stabilimento in considerazione.
Precisato che l’attività produttiva di P. s.p.a. si articolava su quattro stabilimenti e che nelle altre unità l’attività proseguì regolarmente, parte ricorrente contesta l’omesso esame della questione principale sottoposta al giudice di appello, e cioè l’adozione da parte dell’imprenditore dello schema operativo previsto dall’art. 24, comma secondo, della legge n. 223 del 1991 per la cessazione di attività, invece che quello previsto dal comma primo per la riduzione o trasformazione dell’attività di lavoro. La differenza tra i due commi non sarebbe meramente nominalistica, in quanto le due norme, pur imponendo in entrambi i casi l’applicazione delle disposizioni degli artt. 4 e 5, dettate dalla stessa legge n. 223 in materia di collocazione in mobilità, regolano due fattispecie ontologicamente diverse, per cui nel caso di continuazione dell’attività la comunicazione ex art. 4, c. 3, a differenza che nel caso di cessazione, deve avere ad oggetto le modalità di reimpiego della forza lavoro nell’intero ambito aziendale. Nel caso di specie, pertanto, il datore avrebbe dovuto indicare con quali modalità il personale addetto allo stabilimento che veniva chiuso avrebbe potuto essere reimpiegato presso le altre unità produttive.
6.- La giurisprudenza di questa Corte ritiene che in caso di licenziamento collettivo per riduzione del personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad una singola unità produttiva o ad uno specifico settore dell’azienda, la comparazione dei lavoratori al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità non deve necessariamente interessare l’intera azienda, ma può avvenire, secondo una legittima scelta dell’imprenditore ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico – produttive, nell’ambito della singola unità produttiva ovvero del settore interessato alla ristrutturazione, in quanto ciò non è il frutto di una determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma è obiettivamente giustificato dalle esigenze organizzative che hanno dato luogo alla riduzione di personale (Cass. 19.05.05 n. 10590). La giurisprudenza ha precisato, altresì, che in questo caso l’unità produttiva è individuabile in ogni articolazione dell’azienda che si caratterizzi per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica e amministrativa tali che in essa si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell’attività produttiva aziendale (Cass. 3.11.08 n. 26376), con esclusione delle articolazioni aziendali che, sebbene dotate di una certa autonomia amministrativa, siano destinate a scopi interamente strumentali o a funzioni ausiliarie sia rispetto ai generali fini dell’impresa, sia rispetto ad una frazione dell’attività produttiva della stessa (Cass. 4.10.04 n. 19837).
Tale impostazione muove dalla considerazione della prima parte dell’art. 5 della legge n. 223, per la quale “l’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve avvenire in relazione alle esigenze tecnico produttive ed organizzative del complesso aziendale”. L’ambito di applicazione dei criteri di scelta non è frutto della esclusiva iniziativa datoriale, dato che l’art. 5 della legge 223/1991 sottrae la scelta al datore e la rimette a criteri concordati con le associazioni sindacali, ovvero, in mancanza, fissati dalla legge. La scelta del datore, tuttavia, non è arbitraria e quindi illegittima, anche se diretta a limitare l’ambito di selezione ad un singolo settore o ad un reparto, ove ciò sia strettamente giustificato dalle ragioni che hanno condotto alla scelta di riduzione del personale.
Al riguardo Cass. n. 10590 del 2005 cit. ha osservato (in motivazione) che “la delimitazione dell’ambito di applicazione dei criteri dei lavoratori da porre in mobilità è dunque consentita solo quando dipenda dalle ragioni produttive ed organizzative, che si traggono dalle indicazioni contenute nella comunicazione di cui al terzo comma dell’art. 4, quando cioè gli esposti motivi dell’esubero, le ragioni per cui lo stesso non può essere assorbito, conducono coerentemente a limitare la platea dei lavoratori oggetto della scelta”. “Per converso”, prosegue detta pronunzia “non si può, invece, riconoscere, in tutti i casi, una necessaria corrispondenza tra il dato relativo alla collocatone del personale indicato dal datore nella comunicazione di cui all’art. 4 [della legge 223] e la precostituzione dell’area di scelta. Il datore infatti segnala la collocazione del personale da espungere (reparto, settore produttivo ecc), ma ciò non comporta automaticamente che l’applicazione dei criteri di scelta coincida sempre con il medesimo ambito e che i lavoratori interessati siano sempre esclusi dal concorso con tutti gli altri, giacché ogni delimitazione dell’area di scelta è soggetta alla verifica giudiziale sulla ricorrenza delle esigenze tecnico produttive ed organizzative che la giustificano”.
7.- Nel caso di specie questa valutazione è stata compiutamente espletata dal giudice di merito, il quale non solo ha rilevato che nello stabilimento di Pademo D. si producevano macchinari non richiesti più dal mercato e che la decisione della chiusura “rientrava in un progetto di ridimensionamento concernente il complesso aziendale”, ma ha anche posto in evidenza che la fungibilità delle posizioni dei dipendenti dello stabilimento era nella realtà solo teorica e che la diversa collocazione geografica delle altre unità produttiva (tutte poste a distanza non inferiore a duecento cinquanta chilometri) rendeva ragionevole la scelta di limitare il licenziamento all’unità che veniva chiusa.
Può, dunque, ritenersi coerentemente adottato l’impianto argomentativo richiesto dalla giurisprudenza superiormente riferita, atteso che la risultante dell’analisi giudiziale è che tanto il licenziamento che il contenimento della scelta nell’ambito dello stabilimento oggetto di chiusura furono frutto non di una determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma di obiettive e giustificate esigenze organizzative e produttive. Sono, pertanto, infondati i primi quattro motivi di ricorso.
8.- È infondato anche il quinto motivo, con il quale si assume che la Corte d’appello sarebbe incorsa in contraddizione, affermando da un lato che i motivi che determinavano l’eccedenza di personale riguardavano solo lo stabilimento di P. D. e dall’altro che la chiusura dell’unità rientrava in un progetto di ridimensionamento concernente tutto il complesso aziendale. Ad avviso del Collegio, l’affermazione, ove inserita nel suo contesto argomentativo, non è contraddittoria, atteso che il giudice di appello considera la situazione dell’unità produttiva nell’ambito di tutta l’azienda, per arrivare alla conclusione che il ridimensionamento imponeva la chiusura proprio di quello stabilimento e non di altri.
9.- Il sesto motivo è da dichiarare assorbito, in quanto, in relazione a quanto affermato a proposito dei primi quattro mezzi di impugnazione, la posizione assunta dalle associazioni sindacali nella procedura di esame delle cause della chiusura dello stabilimento appare non rilevante ai fini della legittimità del licenziamento.
10.- Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 50,00 per esborsi ed in € 3.000 (tremila) per onorari, oltre spese generali, Iva e Cpa.
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